EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Tra le righe e tra gli usci: i salutari passi in bilico dell’etnografia.

di Virginia Monteforte

 

Se si parla di limiti, l’antropologia si rivela disciplina poco rispettosa e l’antropologo una figura irrequieta, sempre in procinto di multipli, e potenzialmente ripensabili, attraversamenti. Tuttavia, se è di limiti che si deve parlare, da antropologa, vorrei tentare, almeno all’inizio, di soffermarmi nello spazio costituito da uno loro. In altre parole, partire da una soglia, e non una qualsiasi.

Nell’arcipelago maltese, in alcune città e in molti villaggi, anche all’occhio meno attento non può sfuggire come un gran numero di case abbia due porte, sia che si tratti di antiche dimore in pietra, sia delle più recenti maisonettes. Le abitazioni sono spesso attaccate l’una all’altra, così che chi le osserva si senta guidato costantemente, per strada ma anche dalla strada verso l’interno delle dimore, lungo il percorso continuo di un tunnel roccioso color giallo caldo che, nel caso degli edifici più antichi, pare sempre sul punto di sbriciolarsi nel suo strato più esterno. Questo materiale polveroso è la globigerina, pietra calcarea locale, ancora estratta dalle cave dell’arcipelago, cave che dall’alto dell’aereo l’isola sembrano portarsela via a morsi, e con la quale sono stati costruiti palazzi storici, case, mura, acquedotti, balconi, balaustre.

Non mi dilungherò su questa peculiare continuità di materiale tra esterno e interno, tra geografie naturali e geografie urbane, o tra edifici di tipo diverso. Come annunciato, è sui due usci e sulla loro particolare composizione che questo contributo si attarderà.

La prima porta, spesso di legno colorato, è chiamata il- bieb e di giorno, nella bella stagione (piuttosto prolungata nell’isola) è lasciata aperta. Il secondo uscio prende invece il nome di antiporta, in pratica una porta finestra che di solito resta chiusa, specie se la prima, il-bieb, è spalancata. In questo modo, e a meno che le tende non siano tirate, dalla strada è sempre possibile gettare un occhio verso l’interno e da lì scorgere il corridoio, le suppellettili, i quadri, i mobili, le foto di famiglia, molte di queste messe a bella posta. Se l’illuminazione lo permette, si possono pure intravedere la cucina o il salotto in fondo al corridoio, condividendo con chi ci vive, per il tempo di qualche passo, un’estranea e fugace domesticità.

Ora, le due porte sono separate (o messe in comunicazione) da un piccolo spazio di meno di un metro quadro che non ha un nome preciso, ma che può essere indicato con una locuzione che suona più o meno come wara l-bieb ta’ barra, ovvero dietro la porta di fuori.

È in uno spazio del genere che l’etnografia, come pratica e atteggiamento, va immaginata. È in questo spazio che l’agire di un antropologo va pensato. Infatti, se ogni porta evoca in sé una doppia e mobile valenza di cesura e raccordo [1] mettendo già in questione lo stesso concetto di limite attraverso una delle immagini a cui più lo associamo, un uscio appunto, quello che c’è tra, spazio di inversioni e cambiamenti di status [2], rimanda innegabilmente al senso più profondo, mobile e proficuamente disturbante di una liminalità che, nel caso della ricerca antropologica, è suscettibile di appartenere sia al soggetto che all’oggetto dello studio: in altre parole, l’antropologo, le sue pratiche e quello di cui si interessa sono tanto nel wara l-bieb ta’ barra che lo stesso wara l-bieb ta’ barra.

I confini dell’antropologia sono sempre stati fluidi e permeabili nelle molteplici diramazioni della disciplina verso l’altro e verso l’oltre, e l’antropologo, da parte sua, qualcuno che si trova sempre, suo malgrado, nello spazio tra, non solo durante la ricerca etnografica, in cui ha sempre lo status di un outsider, ma anche quando la stessa ricerca è conclusa e fa ritorno a casa, sia che il ritorno preveda molte ore di aereo, treno o nave, o giusto una mezz’ora di tragitto a piedi. Descrivere dove ci si trovi, da dove si viene o dove sia stati non è mai, infatti, materia di una sola parola, ma sempre di una complessa locuzione. Inoltre, l’allontanamento da sé, dai propri luoghi, dalle proprie categorie e dagli stessi propositi iniziali di ricerca e l’ambivalenza del ritorno costituiscono parte integrante del metodo e accomunano ogni esperienza di campo, dalla più “esotica” alla più vicina.

Lo spiega in maniera efficace Claude Lévi-Strauss nei suoi Tristi Tropici, etnografia e romanzo (gli attraversamenti di limiti dell’antropologo sono spesso anche di generi), nostalgia del presente (di tempi), rimorso collettivo (di sentimenti), diario di viaggio, viaggio verso l’altro e viaggio all’interno, a ritroso, nella disciplina stessa e nelle proprie motivazioni (di spazi fisici e immaginati), nel momento in cui parla dell’etnografo come di un individuo psicologicamente mutilato; un individuo, cioè, soggetto a uno sradicamento continuo e privato dunque della possibilità di sentirsi a casa in ogni luogo in cui si verrà ormai a trovare, o a ritornare [3].

Succede anche che lo spazio tra, la sensazione di non appartenere più e di non appartenere ancora, non sia solo un sentimento perpetuo nella ricerca ma anche reiterata strategia narrativa. Sebbene con differenti gradi di distacco e difficoltà pratiche, le prime note di campo restituiranno quasi sempre situazioni ricorrenti, e con assidua ricorrenza, descritte: lo smarrimento dell’arrivo e delle prime settimane, quando si cerca di familiarizzare con il luogo, con i visi, con lo stesso progetto di ricerca che ha dato inizio al tutto; il peso di sentirsi invadenti, inopportuni, scomodi; la successiva oscillazione tra il possesso del campo di ricerca e la sospensione da esso, a seconda del successo o meno di occasioni, appuntamenti, incontri; la solitudine e la compagnia, entrambe in una giostra schizofrenica che alterna costrizione e desiderio così che ci si ritrovi a dover uscire, incontrare, socializzare quando si vorrebbe stare soli, o patire l’isolamento quando si vorrebbe trascorrere ore e ore con i propri informatori; infine il procedere inoperoso di certe giornate, di molte giornate, il quale rimescola improvvisamente tutto quello che si è trovato e che ha dato vigore allo studio fino a quel momento, riducendolo a un insieme di dati discutibili e sottili come sabbia, in cui l’entusiasmo delle prime certezze va irrimediabilmente a sciogliersi nella nota e inguaribile sensazione di stare solo perdendo un sacco di tempo.

Col senno di poi, è forte la tentazione di pensare tali sentimenti come un topos obbligatorio nell’ambito delle sensazioni da campo, in altre parole una narrativa che imprigiona e qualifica, specie nel momento della scrittura, tanto sembra necessario mettere in rilievo, in genere nelle premesse (lo spazio esplicitamente soggettivo dello scritto in cui confiniamo e limitiamo a fatica l’io), le acrobazie di ogni “come”: del come si giunse a quel luogo o a quella persona, di come dopo giorni e giorni di nulla improvvisamente tutto apparve leggibile, di come fu quasi inutile preoccuparsi dell’immobilità di alcune giornate. Si è tentati di pensarlo per poi concludere, anche se non immediatamente, che non sia del tutto così. Strategia narrativa o meno, se si è coscienti di perdere tempo è perché, effettivamente, di tempo se ne perde parecchio.

Ma allora gli incontri importanti, le parole degli altri, i colloqui centrali che costituiranno in seguito l’ossatura solida della ricerca e della scrittura non potrebbero essere raccolti tutti quanti, tutti insieme, uno attaccato all’altro, in poche settimane, magari progettando tutto con cura prima della partenza al fine di evitare così questo lungo, e in apparenza infruttuoso, rito di passaggio? Oppure, così facendo, la ricerca cesserebbe di essere antropologia per farsi sistematica (e forse arrogante) pianificazione in cui soggetto e resa sono già sulla carta? Caselle vuote da riempire, meri strumenti di cui ci servirebbe giusto per dimostrare ciò che, ancor prima di partire, è stato rigidamente già confezionato nel progetto iniziale di studio?

In effetti questo sì che sarebbe un limite: ignorare le domande, gli smarrimenti e le deviazioni del campo; dimenticare che la riflessività non riguarda solo i momenti in cui si tiene in mano un registratore, si annotano indizi, o ci si accinge alla redazione di un articolo o di una tesi ma che ― in quanto chiave del ripensamento dell’antropologia stessa, del concetto di cultura, dell’autorità etnografica e dello squilibrio di potere tra antropologo e informatore ―  essa si esprime soprattutto come pratica incorporata di cura dello sguardo e del ragionare, suscettibile di valicare gli stessi confini della disciplina; una cosciente autosospensione dal flusso ingombrante e rumoroso di categorie, retoriche e discorsi; una salutare ermeneutica attuata proprio in virtù di un attraversamento.

In quest’ottica, la cosiddetta perdita di tempo ― il limbo spazio-temporale dove si sosta, si osserva, si dubita, si problematizzano le definizioni usate, si ritorna sui propri passi ― smette di essere tale in quanto situa il ricercatore oltre la dimensione globalmente accelerata e caotica del presente, dall’altra parte della linea del flusso rapidissimo di gente, oggetti, merci, informazioni, messaggi, discorsi, rappresentazioni e immaginari, per permettergli di continuare a leggere tra le righe non quello che l’altro fa ma quello che pensa di stare facendo [4]. E mentre rivaluta il valore delle pause, dei silenzi e delle solitudini realizzare allo stesso tempo che la stessa concezione di alterità che si trova alla base della disciplina è un concetto sempre più anacronistico [5].    

Da questa prospettiva le giornate senza appuntamenti, quelle dove si crede di perdere solo tempo o quelle in cui si ha la sensazione di collezionare solo informazioni inutili e dati inutilizzabili, restano un modo irrinunciabile di lasciare la ricerca nella dimensione del largamente possibile, del ripensamento, del confronto tra quello che ci si era proposti di trovare e quello che invece il campo riesce sorprendentemente a svelare e a domandarci, poco alla volta. L’oggetto di studio non è definito una volta per tutte, ma rimodellato e ritrovato continuamente. La sua scoperta (o riscoperta) deve necessariamente essere lenta, bloccarsi, ripartire e magari bloccarsi ancora perché si abbia il tempo di maturare l’esperienza, la vita altrove, e, nel lasciare il campo di ricerca, essere diversi, nel senso di diversamente disposti (e nel campo e nei confronti del campo), rispetto a quando si è arrivati; non c’è cambiamento che non si sviluppi se non in una successione temporale condivisa più o meno densa di eventi, più o meno colorata di sentimenti contrastanti.

Nel momento in cui si entra in una trama di reti sociali, a volte assai fitte e concordanti, altre antagoniste, all’interno di spazi di potere e significati, di eventi rispettosi di una certa periodicità, o totalmente casuali, quando cioè si dà inizio al percorso etnografico, non si è più solo degli individui distinti impegnati nella propria ricerca ma ci si avvia verso una sorta di proficuo smarrimento di se stessi, nella crescente permeabilità di confini tra il sé e l’altro da sé. Tale smarrimento però, come già ricordato, non si traduce in un completo oblio di chi siamo e da dove veniamo, da quali categorie, da quali discorsi siamo formati e informati. I limiti del nostro linguaggio perdurano come limiti del nostro mondo [6], eppure, al contempo, e in virtù della salutare ermeneutica di cui si accennava, divengono limiti sempre più elastici, aperti a ogni possibile estensione e, soprattutto, decostruzione.

Come ricorda anche l’architetto Piero Zanini, «è dalla ricostruzione del nostro rapporto con lo spazio che ci circonda, e soprattutto dalla sua frequentazione, dalla pratica dei suoi margini, fino a farli diventare parte di noi e dei nostri sensi, che diventa possibile partire per limitare, confinare, almeno una parte della violenza che i confini e le frontiere sembrano catalizzare, e del potere che rappresentano» [7].

La contemplazione di questi aspetti impone dunque il rischio di dover cimentarsi con un campo cangiante e pericolosamente frammentario dove fare ricerca è trovarsi di fronte a momenti disconnessi, brandelli di spazi e tempi frammisti nell’esperienza prima e nel ricordo poi, dove si dipana il rapporto tra un informatore e il ricercatore, e tra quest’ultimo e il materiale malleabile che ha tra le mani; dove il dialogo si snoda in una scenografia emotiva e cognitiva sempre più significativa; dove l’attesa di un nome, di un’informazione o di un fatto non viene spesso soddisfatta, facendo quindi di quel vuoto un elemento comunque rilevante; dove la successione di avvenimenti sparsi è ripensata all’interno di una soddisfacente, seppur provvisoria, logica ordinatrice; senza dimenticare il momento in cui si inizia a immaginare e proiettare quanto trovato nella futura distanza temporale e spaziale della scrittura.

Il campo dell’antropologo è in fondo un mosaico tremolante che svela con maggiore chiarezza la sua forma solo quando ci si allontana di molti passi, lasciando però intravedere  anche le forzature, le irregolarità, le tessere mancanti e il sospetto che magari, allontanandosi in una diversa direzione, avrebbe potuto rivelare altro.

Ogni ricerca è quindi sempre in uno spazio tra, ed è sempre uno spazio tra, nel suo essere inevitabilmente multisituata, non solo nella pratica di campo ma anche nella distanza della scrittura e nella coscienza ordinatrice dello studioso. Coscienza che, non lo dimentichiamo, giunge sul campo con una certa disposizione e riparte con un’altra, quando le interpretazioni smettono di essere semplici funzioni cognitive per farsi attivo coinvolgimento nel mondo, e dove la conoscenza si traduce in un incorporato e incorporante procedere attraverso pratiche che appartengono al passato, al presente e al futuro, emozionalmente e sensorialmente condivise con persone, oggetti e istituzioni, reali o immaginate [8].

Ed è proprio nella graduale consapevolezza di un sapere come multisensoriale e multisituato produzione di significati, che nel wara l-bieb ta’ barra in cui si trova e che si porta sempre appresso, l’antropologo inizia a sentirsi un po’ più a proprio agio, tanto con se stesso che con le sue irrinunciabili irrequietezze.

 

 

 

Riferimenti

 

  1. G. Simmel, Pont et porte (Ponte e porta), in G. Simmel, La tragédie de la culture et autres essays (La tragedia della cultura e altri saggi), Éditions Rivage, Parigi 1988 [1903].
  2. G. Bachelard, La poétique de l’espace (La poetica dello spazio), PUF, Paris 1981 [1957].
  3. C. Lévi-Strauss, Tristes Tropiques (Tristi tropici), Plon, Parigi 1955.
  4. C. Geertz, Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna 1988 [1983].
  5. M. Abélès, Anthropologie de la globalisation (Antropologia della globalizzazione), Payot, Parigi 2008.
  6. L. Wittgenstein, Tractatus logicus-philosophicus, Einaudi, Torino 2009 [1921].
  7. P. Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Mondadori, Milano  2000, p. 24.
  8. E. Papagaroufoli, Carnal Hermeneutics: from ‘Concepts’ and ‘Circles’ to ‘Dispositions and Suspence’ (Ermeneutiche carnali: da ‘concetti’ e ‘circoli’ a ‘disposizioni’ e ‘suspence’) in N. Panourgià, Neni, G. Marcus (dir.), Ethnographica moralia. Experiment in interpretative anthropology  (Ethnographica moralia. Esperimenti in antropologia interpretativa), Fordham University Press, New York, 2008, pp. 113-125, p. 115.

 

 

 

 

 

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