ovvero un invito alla lettura de Il cortigiano e l’eretico di Matthew Stewart
di Matteo Pratelli
La storia della filosofia non è solo un susseguirsi di pensieri: ad essi dobbiamo talvolta affiancare le storie di chi li ha concepiti. È riuscito a farlo benissimo, sedici anni fa, un americano di nome Matthew Stewart, nel suo libro best seller Il cortigiano e l’eretico, un testo che può interessare studiosi di filosofia come profani vogliosi di sapere qualcosa in più sui protagonisti dell’opera.
La storia che si racconta in questo libro è quella di due uomini: Baruch (o Bento, come preferiva essere chiamato) e Gottfried. Il primo era nato nel 1632 ad Amsterdam, ed era morto quarantaquattro anni dopo all’Aja, non molto lontano dalla sua città natale. Nella sua vita, non priva di avventure, aveva tuttavia viaggiato ben poco, e solo all’interno della Repubblica delle Province Unite (più o meno gli attuali Paesi Bassi). Il secondo, nato nel 1646 a Lipsia, era morto all’età di settanta anni ad Hannover. Nella sua vita aveva girato l’Europa in lungo e in largo, alla costante ricerca di fama e denaro, e aveva conosciuto alcuni degli uomini più influenti della sua epoca.
La storia che si racconta in questo libro è, anche, quella di due filosofi: Spinoza e Leibniz, probabilmente i più importanti pensatori del diciassettesimo secolo. Ed è impossibile, lette le pagine di Stewart, pensare che gli accadimenti della vita di un filosofo non influenzino il suo pensiero. La filosofia di Spinoza si può dire che coincidesse alla perfezione con il modo in cui egli condusse la sua esistenza. Quanto a Leibniz, proprio un avvenimento della sua vita lo portò ad elaborare le dottrine che tanto hanno fatto discutere.
Era il diciotto ottobre 1676 quando i due filosofi si incontrarono all’Aja, nella casa di Spinoza. Questo avvenimento cambiò per sempre la vita di Leibniz, che spese i suoi restanti quarant’anni sulla Terra nel tentativo mai compiuto di fuggire con la mente da quel momento in cui, negli occhi del più empio degli eretici, aveva visto la morte di Dio.
Spinoza era un ebreo di origine sefardita, ovvero proveniente dalla penisola iberica (Portogallo, in particolare). Gli eventi storici occorsi nel Cinquecento avevano portato la sua famiglia a stabilirsi ad Amsterdam. Qui, il giovane Bento ricevette la sua istruzione; qui cominciò a sviluppare le idee che lo avrebbero accompagnato per il resto della sua vita; qui, all’età di ventiquattro anni, quelle stesse idee lo portarono verso una delle più dure scomuniche mai pronunciate dalla comunità ebraica della città. Quali erano, in sintesi, queste idee? L’epoca di Spinoza era fortemente influenzata dal pensiero di Descartes e dalla sua individuazione di due sostanze distinte: anima e corpo. Il problema era come queste sostanze potessero interagire. Spinoza propose una soluzione estrema: esiste un’unica sostanza, di cui estensione e pensiero non sono che attributi (diciamo “prospettive” in cui quella sostanza è conosciuta) e di cui tutte le cose esistenti sono modi. Ma l’operazione concettuale più estrema compiuta dal filosofo olandese fu quella di far coincidere questa sostanza con Dio. Un’affermazione del genere gli valse, da parte del famoso teologo Antoine Arnauld, l’epiteto di “uomo più empio e più pericoloso del secolo”[1]. Le conseguenze di tale assunzione teorica erano infatti terribili per il tempo: non c’è distinzione tra Dio e Natura; tutte le cose accadono come necessaria manifestazione dell’unica sostanza; Dio è libero solo in quanto non è determinato ad agire da nient’altro che dalla sua propria essenza, ma la sua libertà non comprende certo quello che viene definito “libero arbitrio”. In pratica, Spinoza affermava l’inesistenza del Dio-persona della tradizione giudaico-cristiana: era un ateo in tutto e per tutto. Non c’era mai stato, per lui, un Dio che aveva deciso di creare il mondo e gli uomini, che era intervenuto nella storia sotto forma di Provvidenza, che regolava le sorti dell’intero universo. Non si può negare che Spinoza amasse Dio: anzi, proprio l’amor dei intellectualis è per lui “la via alla felicità”[2]. Ma certo non si aspettava, come facevano i cristiani, che Dio lo amasse, perché semplicemente non poteva farlo. Quest’ultimo concetto è stato riassunto in due versi meravigliosi da Jorge Luis Borges, al termine della sua poesia Baruch Spinoza:
“Il più prodigo amore gli fu concesso,
l’amore che non chiede di essere amato.”[3]
L’immagine che Stewart ci restituisce del filosofo è quella di un uomo che non sentì il bisogno (o almeno non lo dimostrò più di tanto) di essere amato da un grande numero di persone. La fama non lo interessava, gli amici che aveva erano pochi ma fedeli, e la sua Etica propone un cammino filosofico più che altro personale, da compiere con se stessi. Influì su questo anche la grande distanza tra le sue idee e ciò che veniva considerato ortodosso, e questa distanza fu riproposta anche sul piano relazionale: non era visto di buon occhio avvicinare l’empio ebreo.
Leibniz, al contrario, sembrò passare la sua intera esistenza alla spasmodica ricerca di amore, o almeno fama e ammirazione. Unite a queste, figurava anche l’ansia di raggiungere una sicurezza economica di cui non si accontentò mai: morì infatti ricchissimo. Come si è detto, Leibniz incontrò Spinoza nell’ottobre del 1676. Aveva fortemente voluto quell’incontro, e Stewart ipotizza che nel periodo che lo precedette il filosofo tedesco si considerasse, almeno privatamente, uno spinoziano. Ma qualcosa lo cambiò molto, durante quei giorni trascorsi all’Aja. Capì fino in fondo dove conducevano le idee di Spinoza, comprese la modernità (come oggi la definiamo) intrinseca al suo pensiero, e la rifiutò in pieno. Costruì negli anni un sistema metafisico che, almeno a prima vista, appare opposto a quello di Spinoza. Le sostanze sono infinite e sono chiamate monadi, le unità alla base di tutto. Le monadi non hanno finestre, non possono influenzarsi in modo reciproco. Le ha create Dio con un atto deliberato, e le ha create perché si “sviluppassero” secondo un’armonia prestabilita, andando a formare il mondo che Lui aveva progettato. Se l’universo di Spinoza è necessariamente quello in cui viviamo, per Leibniz Dio ha scelto, tra le infinite possibilità, di creare il migliore dei mondi possibili. Questo mondo è, in definitiva, la città di Dio, il regno della giustizia e della carità.
Ma ci sono ombre che sembrano oscurare la filosofia del cortigiano. Stewart le mette in luce una dopo l’altra, spostandosi sempre più dalla parte di quello che, alla fine della sua opera, appare il vero vincitore della tenzone: Spinoza. Quali sono queste ombre? Sarebbe impossibile analizzarle qui, ma tutte portano alla stessa conclusione: la possibilità che Leibniz, dopo quell’incontro, abbia sì provato a fuggire dalla filosofia dall’eretico ebreo, ma non ci sia mai riuscito. La teoria dell’armonia prestabilita sarebbe, allora, solo un diverso punto di vista sulla realtà che lo stesso Spinoza aveva descritto. Stewart mostra bene le contraddizioni insite nel pensiero leibniziano, contraddizioni che appaiono come il risultato di un tentativo di rimuovere ciò che più lo spaventava e lo attraeva allo stesso tempo: la filosofia spinoziana. Gunther Anders ha scritto in proposito queste parole:
“E anche l’affermazione che tutte le monadi, nonostante la loro totale cecità reciproca, stiano bene insieme le une con le altre grazie a un’“armonia prestabilita”; e inoltre in virtù di questo star bene insieme dimostrano addirittura l’esistenza di un elemento prestabilizzatore, ovvero l’esistenza di Dio, questa affermazione non può essere accettata da nessun uomo sensato, era soltanto una dichiarazione ingannevole, con la quale Leibniz voleva evitare che lo si ritenesse un eretico come quell’altro, il nostro misterioso progenitore che egli aveva visitato in tutta segretezza in Olanda.”[4]
Ma c’è dell’altro. Davvero Leibniz credeva che il mondo in cui viviamo fosse “il migliore dei mondi possibili”? L’ottimismo del filosofo tedesco è divenuto proverbiale. Eppure, nell’analisi delle sue opere più tarde, il lettore percepisce che qualcosa, forse, non quadra. Che egli potesse non credere davvero a quello che diceva. Sorge un dubbio, così bene descritto da Stewart: forse Leibniz non era un grande ottimista, forse anzi era un pessimista dei più estremi. D’altra parte, la vita gli aveva concesso agi e fama, ma non molti altri motivi per ritenersi abitante della perfetta città di Dio. Forse, allora, la filosofia di Leibniz non era altro che un miraggio, un’utopia: il mondo come avrebbe voluto che fosse, ma come non era e non sarebbe stato mai. Luigi Zoja, psicoanalista di grande fama, definisce l’utopia come un “bisogno primario”[5]. Leibniz, che fu certamente un uomo dai tanti bisogni, non sfuggì neanche a questo, e nel tentativo di scaraventare Spinoza fuori dalla sua metafisica, costruì un’utopia che doveva apparire anche ai suoi occhi assurda. Tuttavia, descriveva il migliore dei mondi possibili perché viveva in un mondo inadatto alle sue esigenze.
“L’impressione che il grande monadologista fosse un ottimista panglossiano si rivela sottile quanto uno strato d’argento sul retro di uno specchio. In realtà, egli era uno dei grandi pessimisti della storia.”[6]
Di fronte alla morte, ci saremmo aspettati un destino diverso per i nostri due filosofi. Così è stato, in effetti, ma forse non nel modo più prevedibile. Spinoza, eretico fino al midollo, mai desideroso di far parte di un’ortodossia qualunque, disinteressato alla fama e al denaro, ebbe un funerale con sei carrozze (pagate, pare, dal suo padrone di casa) e, a quanto si racconta, una folla ad omaggiarlo. Leibniz morì ricchissimo, ma al suo funerale non presenziò nessuno dei suoi conoscenti illustri. Fu seppellito in una tomba qualunque, come il più ordinario degli uomini.
Come li poneva, invece, la loro filosofia nei confronti della morte? Spinoza non credeva nell’immortalità dell’anima, nell’aldilà, in un Dio redentore. Credeva alla necessità, però: forse con questo spirito andò incontro alla propria fine. Leibniz, invece, si atteggiava da buon cristiano, ma come abbiamo visto probabilmente non lo era affatto. Morì insoddisfatto, inquieto come aveva sempre vissuto?
Non ci è dato penetrare nella mente di nessuno, neanche di chi ha scritto tanto e tanto è stato studiato. Possiamo solo provarci, e per chi sia interessato ad “entrare nella testa” dei due grandi pensatori seicenteschi, Il cortigiano e l’eretico è certo un ottimo modo per iniziare.
Ovviamente, una canzone.
Spinoza ha vissuto tutta la sua vita da eretico. Era poco più che ventenne quando fu scomunicato; quando sopraggiunse la morte, aveva appena terminato la stesura dell’Etica. Visse appartato, è vero: non gli piaceva mettersi in pericolo, e infatti capì che era meglio non pubblicare la sua opera “empia” (che sarebbe uscita postuma nel 1677). Ma non si mosse mai dalle sue posizioni: era un uomo raro, in fondo, fino ad andare oltre l’umanità.
Leibniz, lo abbiamo visto, cercò sempre di farsi accettare, di vivere all’interno di una tradizione, potremmo dire. Eppure non gli riuscì mai. Era come se in lui qualcosa, forse proprio il suo intelletto, lo spingesse a tradire quelle posizioni che la sua formazione e le sue convinzioni politiche e sociali lo obbligavano ad abbracciare. Era un uomo diviso, in fondo, come lo siamo tutti: un uomo fra gli umani. Per questo, nei curiosi itinerari che compie la mente di chi studia, mi è sembrato che una canzone che amo molto potesse descriverlo in maniera precisa. Anzi, proprio le due parole che danno il titolo a questa canzone sono le parole adatte per rappresentare la vita e l’opera del più eretico dei cortigiani: Tradizione e tradimento.
“Guardo fisso avanti il filo e sono in bilico
nelle insidie di ogni cambiamento
tra le forze che da sempre mi dividono:
tradizione e tradimento.”
(Niccolò Fabi)
Bibliografia
M. Stewart, Il cortigiano e l’eretico. Leibniz, Spinoza e il destino di Dio nel mondo moderno, Feltrinelli, Milano 2006
G. Leibniz, Vita, pensiero e opere scelte, Il sole 24 ore, Milano 2006
B. Spinoza, Etica, Bompiani, Milano 2007
G. Anders, La battaglia delle ciliegie. La mia storia d’amore con Hannah Arendt, Donzelli Editore, Roma 2012
J. L. Borges, Baruch Spinoza, traduzione da Il labirinto e la biblioteca, Corriere della sera, Milano 2012
S. Nadler, La via alla felicità. L’<<Etica>> di Spinoza nella cultura del Seicento, Hoepli, Milano 2018
L. Zoja, Utopie minimaliste, Ecologia profonda, psicologia e società, Chiarelettere, Milano 2013
[1] La citazione di Antoine Arnauld è riportata per iscritto da Leibniz stesso. Per praticità, qui si riprende la citazione tradotta da Stewart, Il cortigiano e l’eretico, pag. 9
[2] Dal titolo del libro di Steven Nadler, La via alla felicità
[3] Borges, Baruch Spinoza, in Il labirinto e la biblioteca, pag. 201
[4] Anders, La battaglia delle ciliegie, pag. 18
[5] Zoja, Utopie minimaliste, pag. 17
[6] Stewart, Il cortigiano e l’eretico, pag. 276