EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

Troppe informazioni generano sfiducia e disaffezione. Intervista ad Andrea Grignolio

di Federica Biolzi

C’è un aspetto che in questo tempo pandemico, pur emergendo qua e là come pura citazione letteraria, è spesso passato in secondo ordine: esiste una storia delle epidemie nell’ambito della storia della medicina che ci può aiutare a riflettere su quanto sta avvenendo. Il professor Andrea Grignolio insegna Storia della Medicina e Bioetica all’Università Vita -Salute del San Raffaele e al ITB-CNR ci è venuto cortesemente in soccorso.

– In questi ultimi mesi, la pandemia in atto sembra aver assorbito ogni aspetto della vita quotidiana. Un ruolo di prim’ordine sembra quello svolto, in questo periodo, dall’informazione tramite i differenti media. Eppure, molti di noi, hanno avuto la concreta sensazione che più cercavano di approfondire, e meno riuscivano a comprendere. Cosa è mancato?

– Richiamerei, in proposito, l’approccio della psicologia cognitiva, e direi che semmai vi è stato un eccesso di comunicazione. Alcuni hanno parlato di una infodemia, un’epidemia informativa sul Covid; troppe informazioni, contraddittorie, alcune false che, inoltre,avevano a che fare con rischi legati alla salute. Sappiamo, da diversi studi ormai consolidati negli ultimi anni, che un sovraccarico di questo tipo di informazioni confondono la cittadinanza. Lo si è visto ad esempio con chiarezza sul tema delle vaccinazioni: quando vi è un sovraccarico informativo e legato al rischio sanitario, il nostro cervello non è strutturato per ricevere tali informazioni che finiscono per diventare confondenti.

La percezione sociale sui rischi delle malattie infettive è qualcosa di complesso. Ad esempio,anche nella fascia di popolazione culturalmente avvantaggiata, che quindi ritiene di poter gestire informazioni tecniche, come quelle ad esempio legate alla virologia, si genera spesso un sentimento di sfiducia o disaffezione verso le competenze, nei confronti delle istituzioni e talvolta anche nella figura del medico curante, come dimostrano le ricerche sui genitori esitanti verso le vaccinazioni o quelli a favore dei trattamenti delle medicine alternative o a favore del cibo ‘naturale’, considerato artificiale e dunque nocivo. Questo spinge questa fascia alta della popolazione a documentarsi autonomamente cercando le informazioni sul web ma, in assenza di strumenti adeguati, non è possibile comprendere, ad esempio, le differenze tra il rischio e pericolo di un agente infettivo, di un farmaco, di una sostanza, o di un nutriente, siano essi naturali o artificiali.

Credo quindi che sia mancata un’informazione più centralizzata e gestita a livello istituzionale. A ciò si deve però aggiungere che su Covid sin dall’inizio un flusso informativo non chiaro , e a singhiozzo, ci è arrivato dalla fonte stessa, la Cina. Tale questione rimarrà aperta per i prossimi mesi.

– Lei ha accennato alla valutazione differente delle notizie da parte delle diverse fasce di popolazione, che strumenti abbiamo a nostra disposizione per aumentare un’informazione non distorta?

Vi sono due linee interpretative. Quella per certi versi più elitaria o verticale, che ritiene che bisogna informare la popolazione solo con alcune informazioni utili: poche e limitate a indirizzare i comportamenti virtuosi, perché altrimenti aumentano la confusione, la disaffezione verso le istituzioni e la percezione del rischio sociale, che finiscono per generare effetti indesiderati (file ai supermercati, reazioni di panico, ecc.). L’altra ha invece un approccio meno paternalista e ritiene che bisogna dare senza filtri tutte le informazioni possibili alla cittadinanza, a cui è lasciato l’onere di farsi le ossa e trovare gli strumenti per reagire. Nel nostro caso, con il Covid, possiamo dire che l’Italia si è mossa verso questa ultima direzione.

Va precisato che dare tutte le informazioni, senza prima offrire gli strumenti per elaborarle, non sembra essere molto funzionale —si pensi al falso dibattito che ha tentato di accusare gli scienziati di confusione o divisioni, laddove si trattava di interpretazioni fisiologicamente divergenti su dati e prove scientifiche emerse da un virus sconosciuto. Sembra anzi un modo per deresponsabilizzarsi, nascondendosi dietro la trasparenza o offerta di “tutte le informazioni”, cui spesso ricorre anche quella parte di giornalismo  scadente quando veicola falsi trattamenti medici o misinformazione sostenendo che occorre dire tutto e dare pari dignità a tutte le informazioni. È anche importante che la politica si assuma il rischio di selezionare alcune informazioni nel pieno rispetto democratico, ovvero con il supporto di comitati tecnico-scientifici, terzi e indipendenti,sulla base di dati e scelte naturalmente accessibili.

La soluzione non è facile, ma l’esperienza Covid apre una questione per il futuro: come bisognerà strutturare una comunicazione centralizzata delle istituzioni sanitarie rispetto a questi fenomeni?

– Mi rendo conto che la risposta non è facile. Noi però credevamo che la scienza avesse fatto enormi progressi tanto da poterci mettere al riparo da questi disastri. Non per abusare di citazioni, anche Camus nel La  Peste riteneva che in questi momenti si assiste ad un problema di vuoto di competenze. Perché?

– In realtà quest’epidemia era attesa, ne aveva già accennato, come è noto, Bill Gates,ma soprattutto l’OMS, che aveva dedicato un’intera sezione di analisi, anche sul proprio sito, alle epidemie e ai virus futuri, tra cui primeggiava l’attesa per un nuovo coronavirus. Con horizon scanning si indica la tecnica di scrutare l’orizzonte per capire a livello strategico quali innovazioni in ambito sanitario impatteranno più sulla salute dei cittadini nell’immediato futuro, e quindi dove si devono collocare i finanziamenti, anche al fine di valutare nuovi medicinali, nuove indicazioni terapeutiche, ecc. Simili sistemi di monitoraggio delle malattie infettive emergenti o ricorrenti avevano più volte anticipato il rischio dei Coronavirus. Essendoci già state l’epidemia di SARS nel 2002-2003 e quella di MERS nel periodo 2012-2014, era prevedibile un terzo salto di specie dagli animali all’uomo.  Ricordo che è ben di otto anni fa il bel libro di Quammen “Spillover. L’evoluzione delle pandemie”[1], nel quale viene indicato il virus e la zona della Cina dal quale sarebbe arrivata una nuova pandemia, lo stesso vale per il film di Soderberg Contagion del 2011.

Vi erano quindi diversi segnali che facevano supporre una cosa come questa sin dal 2002, quando vi è stata la prima epidemia di SARS-CoV partita dalla regione del Guandong in Cina. Inoltre, questo Paese nel frattempo è divenuto un colosso economico, con connessioni commerciali e viaggi oggi assai più frequenti con il resto del globo: forse dovevamo capire che era in questo ambito che dovevamo puntare finanziamenti e ricerche.

Rispetto a La Peste di Camus, che era assieme a Sartre un esistenzialista, interessato quindi ai simboli e al racconto più che ai dati sperimentali, noi oggi abbiamo accumulato un numero impressionante di competenze: basti pensare che le passate epidemie di vaiolo falcidiavano almeno il 30% della popolazione e la peste bubbonica la dimezzava. Se la medicina di territorio funziona come dimostrato dal modello utilizzato in Corea del Sud, in Veneto, in certe zone della Lombardia o nel Lazio con lo Spallanzani, gli esiti di Covid-19 sono minimi. In tutte le epidemie è fondamentale potersi preparare, occorre condividere a livello globale le informazioni in modo trasparente e standardizzato: quando è stato possibile gestire il problema siamo riusciti ad affrontarlo, quando i casi sono aumentati in modo considerevole vi sono state maggiori difficoltà. Occorre dire che in Italia abbiamo un’ottima scuola di  virologi, epidemiologi e infettivologi.Vale la pena ricordare che la risposta del Veneto forse ha ragioni anche storiche: non dimentichiamo che la Serenissima ha gestito con la via della seta lo snodo dei commerci con l’Asia per secoli, i medici veneti e il loro territorio hanno quindi una lunga tradizione con le pestilenze.

– Assistiamo comunque ad una continua messa in discussione dell’autorità scientifica.

– La crisi delle competenze e delle autorità è iniziata alla fine degli anni ’70. Si sviluppa nel movimento francese dell’antipsichiatria e nel più ampio dibattito sul relativismo antiscientista che dà un quadro interpretativo progressista a quella che veniva chiamata “autorità” scientifica, allora vissuta come contrapposta ai saperi delle culture popolari o minoritarie. Il pensiero post-moderno ha erroneamente  visto la scienza come una forma di racconto sociale uguale a tutti gli altri racconti, l’oggettività sperimentale e basata su prove come qualcosa di culturalmente relativo, di socialmente costruito:vennero talvolta negate le evidenze scientifiche basate sui dati misurabili. Basti pensare al libro Against method di Paul K. Feyerabend[2], un esempio di come sia stata radicale, e ideologica, la critica contro la scienza. Il percorso fu lungo e tortuoso, anche nelle discipline storiche, ma alla fine siamo arrivati, dopo 50 anni, all’ 1 vale 1 di quest’ultimo decennio.

Oggi, uno dei concetti più utilizzati è quello della disintermediazione, ovvero la capacità del web di annullare la mediazione culturale e informativa delle esperienze offerte dalle competenze: dai medici, agli psicologi sino alle agenzia di viaggio. Il fatto che il  web, dagli anni 2000, sia entrato nelle case di tutti, ha dato la possibilità all’intera cittadinanza di accedere a dati scientifici,ad  articoli specialistici, alle diagnosi e autodiagnosi. Questa disponibilità di dati e mancanza di strumenti per interpretarli ha fatto aumentare la distanza tra i cittadini e gli esperti. È cresciuto il pensiero complottista che vede ovunque interessi economici mirati a nascondere verità scomode, che vede il sapere scientifico e la tecnologia come un sapere gestito da un sodalizio di tecnici contrari al  bene comune. Un esempio. Alcuni anni fa, per la prima volta sono stati resi disponibili alla cittadinanza attraverso il WEB i dati sulle razioni avverse ai vaccini: 1 su 1 milione, non letali e quasi mai con effetti definitivi. Eppure scoppiò sul web e nelle piazze un movimento ingestibile e irrazionale, ma solo chi aveva strumenti culturali adatti poteva capire quel dato, e cioè che persino il farmaco più diffuso al mondo come le aspirine avevano un’incidenza di reazioni avverse 1500 volte più alto: eppure non esistono nelle piazze movimenti anti-aspirina, per fortuna.

E’ auspicabile, che dopo questa ubriacatura dell’1 vale 1, dopo questa pandemia globale con morti e feriti sul campo, si possa assistere a una rivalutazione dell’importanza dei pareri tecnici e scientifici basati sulle prove e sull’efficacia. Spero inoltre che una massiccia presenza di virologi, di epidemiologi di infettivologi sui media e sul web, non creino in futuro una relazione di rifiuto verso queste figure quando la pandemia passerà.

Il covid-19 ha interrotto  pratiche di socialità che credevamo consolidate. L’isolamento, la desertificazione delle città e dei luoghi comuni, ci stanno davvero portando ad una nuova socialità e, a quale prezzo?

– La storia della medicina e delle epidemie ci insegna che tutte le epidemie sono passeggere. Non durano mai in eterno, vi sono delle ondate epidemiche, ma poi torneremo alla vita di prima. Bisognerà, però, capire quali saranno gli effetti di questo distanziamento sociale. Io vedo tre possibilità: la prima, positiva, potrebbe essere quella che il distanziamento sociale ci ha fatto apprezzare la socialità e quindi, finita l’emergenza, torneremo ad apprezzare lo stare insieme. Però non è scontato, perché le crisi nella storia possono andare in una doppia direzione, ci potrebbe essere un “effetto elastico” di carattere sociale contrario come detto prima, ma potrebbe anche esserci un effetto di consolidamento. Potremo continuare a rimanere distanziati, magari in maniera migliore rispetto ad ora, sfruttando i vantaggi della quarantena, per esempio minor inquinamento, minor traffico, minor affollamento, più smart working.

Potremmo scoprire una socialità diversa e inclinare verso una socialità più fredda, tipica del nord Europa, dove però si assisterebbe a un aumento, presumibilmente, sia della depressione sia delle violenze familiari e domestiche. Assisteremmo a un maggior uso di forme di intrattenimento: videogiochi, film, ma avremo anche alcuni risvolti positivi, quali una maggiore ridistribuzione delle incombenze familiari tra uomo e donna, una nuova abitudine al rispetto delle file e una maggiore presenza delle figure genitoriali nella crescita e nell’educazione dei figli.

Una terza possibilità, che non è da escludere, è che tornerà tutto come prima: homo sapiens è una specie tendenzialmente smemorata e conservativa, in fondo non dimentichiamo che in particolare noi italiani siamo molto refrattari al cambiamento e quindi, poniamo tra tre anni, lentamente dimenticheremo tutto questo.

Questa epidemia ha fatto registrare un’altissima mortalità tra gli anziani, ci siamo resi conto che non siamo tutti uguali davanti al virus. Gli sviluppi delle scienze mediche ci hanno portato ad un aumento ed innalzamento dell’età media, si è trattato solo di un’illusione?

– Fino al COVID-19, i paesi occidentali guadagnavano quattro mesi  di aspettativa di vita all’anno. Noi siamo tra i paesi più longevi al mondo, insieme al Giappone e alla Spagna. Ciò sicuramente è dovuto sia a questioni genetiche sia alla nostra alimentazione basata prevalentemente su una dieta mediterranea. Allo stesso tempo sappiamo che l’unico nemico che è in grado di scalfire questa crescita costante dell’aspettativa di vita è costituito dall’epidemie.  Il caso più studiato in questo ambito è quello che ha colpito la Russia dopo la caduta del muro, a partire dagli anni 90 in poi, con un’epidemia di difterite. Essa ha inciso fortemente sull’aspettativa di vita, è un caso molto studiato, e analizzando dati e grafici si vede una crescita nella curva dell’aspettativa di vita a cui segue dopo l’epidemia un picco in discesa e una nuova ricrescita. Purtroppo le malattie infettive, quando non sono trattate, sono le uniche che possono arrestare la crescita dell’età media.

– Cura e vaccinazione sembrano essere gli unici rimedi solidi contro il coronavirus in grado di condurci verso l’uscita dalla situazione attuale. La vaccinazione resta ancora l’unica via d’uscita? E come riuscire a rendere compatibili i tempi di ricerca con quelli della cura?

– In Italia ci troviamo in una situazione particolare, perché non finanziamo la ricerca e gli indicatori europei come l’eurobarometro vedono la popolazione italiana come quella che è più in basso come grado di fiducia nella scienza, a cui si aggiungano i dati PISA sulla bassa preparazione degli studenti nelle discipline tecnico-scientifiche. Eppure in questo quadro, certo non rassicurante, quando arriva Covid la popolazione vuole il giorno dopo il vaccino o una terapia. Mi spiace ma non funziona così. Spero che questa crisi ridia alla scienza lo spazio che merita, sia nel rapporto con la cittadinanza sia con il decisore politico. Ricordiamo anche che tre anni fa l’OMS ci ha richiamato per il calo delle vaccinazioni, per questo motivo il governo ha reintrodotto l’obbligo. Dov’è finita oggi la tanto sventolata sfiducia sociale nei vaccini? Spero si sia capito oggi cos’è una società senza vaccini.

Comprensibilmente, d’altronde, oggi noi tutti vorremmo subito un vaccino per il Covid, ma va compreso che esso richiede tempi lunghi e ragionati, anche se sono già iniziate le sperimentazioni sull’uomo di alcuni di gruppi di ricerca. Anche la terapia farmacologica è una soluzione.Nel trattamento dell’AIDS, pur senza vaccino, abbiamo percorso questa via, che si è rilevata efficace soprattutto dopo alcuni anni: l’aspettativa di vita è passata dai2-5 anni a quella simile di una persona sana. Bisognerebbe spiegare estesamente che la scienza è una disciplina che ha bisogno di protocolli severi, di statistiche, e non si può basare sull’atteggiamento aneddotico, ovvero sulla convinzione (magari in buona fede) del singolo medico e del suo reparto sull’efficacia di una sperimentazione: occorre una popolazione ampia, una di controllo con il braccio placebo, dati ciechi e controllati da gruppi indipendenti e pubblicazioni riviste dai pari, ovvero da esperti competenti nel medesimo campo che valutano l’efficacia e  i rischi/benefici e li comparano con le terapie eventualmente esistenti. Sulla sperimentazione del vaccino è necessario chiarire che sono fondamentali alcuni passaggi: l’uso di modelli animali, l’analisi e la raccolta dei risultati,  la sperimentazione sull’uomo, capire se è nocivo nella prima fase mentre, in un una seconda fase, bisogna dimostrare che è efficace, quindi in grado di sviluppare la produzione  anticorpale che ci rende immuni al virus e per quanto tempo. L’ultimo passaggio è la messa in produzione  di una serie di lotti di vaccino per la distribuzione in tutti i paesi. Quest’ultima fase è centrale: ammesso che tra tre mesi sia dimostrato che un vaccino è efficace, produrne circa 700 milioni di lotti , controllati e sicuri, anche solo per la popolazione di USA e Europa, richiede del tempo, nella migliore delle ipotesi un anno.

-Lei ci ha accennato al fatto che le epidemie fanno parte della storia dell’uomo, come attrezzarsi per il futuro?

– Sì, penso che bisogna premunirsi e prepararsi per il futuro. Torneranno certamente malattie infettive di questo tipo, che siano coronavirus o altri virus forse più patogeni e virulenti, alcuni probabilmente provenienti dall’Asia, come accaduto spesso in passato. È necessario offrire degli strumenti di controllo del territorio, strumenti di condivisione delle regole e trasparenza dei dati. Abbiamo capito che questo aspetto è fondamentale, bloccare lo scoppio epidemico all’inizio è la strategia più efficace alla limitazione del contagio. Certamente sviluppare i vaccini, sviluppare la medicina territoriale, finanziare la ricerca, ma soprattutto, mi permetta uno slogan, esportare la scienza, il metodo scientifico, quindi la trasparenza dei dati. Questi sono i punti di partenza indispensabili nella prevenzione di qualsiasi epidemia.

 

[1]David Quammen, “Spillover. L’evoluzione delle pandemie”, trad. Luigi Civalleri, Adelphi  ed. Mi, 2014 (ed. or 2012),

[2]Paul K. Feyerabend “Against Method.Outline  an Anacronistic Theory of Knowledge. Feltrinelli  ed. Milano1975. Trad. dall’inglese di Libero Sosio

 

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