di Giacomo Dallari
Siamo nel 1922 quando nasce l’Istituto per la ricerca sociale e, con esso, quello che la storia del pensiero filosofico contemporaneo ha definito Scuola di Francoforte. Sociologi, economisti e filosofi del calibro di Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, e Henryk Grossmann si sono riuniti per elaborare una teoria critica della società a loro contemporanea. Un primo plauso riguarda dunque proprio questo primo aspetto: coloro che, invece di subire passivamente il presente e viverlo come dato di fatto, pongono in essere una disamina critica e negativa dell’esistente, non possono certo essere dimenticati e abbandonati negli scaffali delle librerie.
Nata con l’obbiettivo di smascherare le profonde contraddizione del presente, la Scuola di Francoforte terrà come cornice di riferimento teorico ed operativo, le teorie di tre grandi autori: Hegel, Freud e Marx. Ed è proprio da Hegel che Adorno, richiamando il concetto di dialettica, muoverà i suoi primi passi critici e negativi nei confronti della realtà. Diversamente da Hegel, che considerava la dialettica come tesi, antitesi e sintesi e dunque come conciliazione, Adorno la utilizza come strumento per svelare le disarmonie, scovare le contraddizioni e confrontarsi con ciò che non – coincide, cioè con ciò che non è accomodato o giustificato. In altre parole, secondo Adorno, l’idealismo ha assunto nei confronti del reale un atteggiamento giustificazionista e “conservatore”, riducendo il mondo e la realtà ad una sorta di totalità autoreferenziale composta da concetti astratti.
Diversamente da Hegel, che aveva unificato soggetto e oggetto, per cui l’uno non può esistere senza l’altro e stanno in un rapporto di reciproca sussistenza, Adorno ritiene che il soggetto possa sicuramente pensare l’oggetto che, però, rimane sempre altro rispetto al soggetto che lo pensa. Per questo nella sua Dialettica Negativa all’idealismo astratto, contrappone un’impostazione materialistica che insiste sul non-identico, su ciò che esiste in quanto contraddizione, sulle disarmonie che scacciano definitivamente la totalità pacificata. Il compito della filosofia non è quello di unificare ciò che è diverso e armonizzare la realtà in quanto tale, ma quello di smontare tutto ciò che, ingenuamente, appare come stabile e armonico.
Secondo il filosofo e sociologo tedesco, infatti, la filosofia ha avuto il grande difetto di soffermarsi troppo ad elogiare la realtà, dimenticandosi di avanzare nei suoi confronti una disamina critica e ciò ha condotto ad una razionalizzazione dell’irrazionale, ad una prassi che, proprio come voleva l’hegelismo, ha portato all’illusione totalizzante della non distinzione tra oggetto e soggetto, dell’armonia precostituita che deve solo essere compresa. «L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso – scrivono Adorno e Horkheimer nel testo Dialettica dell’Illuminismo – ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra, interamente illuminata, splende all’insegna di trionfale sventura»[1]. L’illuminismo, secondo Adorno e Horkheimer, nasconde una dialettica che i due autori definiscono auto-distruttiva che persegue una visione razionalizzante del mondo, visto come modellabile e plasmabile. La distruzione è quindi intesa come un processo che, dal dominio dell’uomo sulla natura, conduce inevitabilmente al dominio dell’uomo sull’uomo e, più in generale, ad un asservimento dell’individuo al sistema sociale.
Come gli altri pensatori dell’epoca, anche Adorno e Horkheimer rimasero fortemente segnati delle grandi dittature e dai tragici eventi del Novencento tanto che il loro sistema filosofico venne definito “pensiero negativo”. Al contrario di molti filosofi del loro tempo, che elogiavano la realtà considerandola come espressione felice di progresso e di modernità, Adorno e Horkheimer la vedevano come disarmonica e ricca di contraddizioni. In virtù di tale visione si posero in antitesi alla tendenza intellettuale che ha sempre visto l’uomo occidentale come incline all’armonia, alla razionalità e all’uniformità. Di tale uniformità ne era straordinario esempio quello che in più occasioni è stato definito come “impero dei media”, “cultura di massa” o, più precisamente, “industria culturale” vista come il più subdolo e meschino strumento di manipolazione delle coscienze messo in atto dal potere per conservare se stesso e sottomettere gli individui. «L’industria culturale, la società ultraorganizzata e l’economia pianificata – scrivono i due autori – hanno beffardamente realizzato l’uomo come essere generico: privo di coscienza individuale, di iniziativa morale autonoma, manipolato a piacere […] la forma massificata ha trattenuto tutti nello stadio della mera essenza generica»[2].
Cinema, televisione e giornali diventano quindi l’espressione di una logica capitalistica e di omologazione delle coscienze che, diversamente dalle visioni ottimistiche, invece di essere strumenti del libero pensiero, finiscono per assoggettare l’uomo. Attraverso l’apparato dell’industria culturale il sistema impone valori e modelli di vita dominanti, cioè funzionali al sistema di dominio delle classi sociali. Una volta che sono state create sacche di ampio e autoreferenziale consenso tutto, compreso il tempo del divertimento, diviene programmato e funzionale al sistema stesso. Una delle ideologie vitali e funzionali del capitalismo e del neocapitalismo, infatti, riguarda da una parte la bontà del sistema, inteso come organismo accogliente, comodo e ospitale, dall’altra l’idea della felicità degli individui come naturale conseguenza di tale sistema. La cultura, proprio come tutte le altre merci prodotte dal sistema capitalistico, è una forma di produzione di massa che conduce ad una standardizzazione dei contenuti: la cultura stessa, alla stessa stregua di un’automobile o di un qualunque oggetto, è un prodotto vendibile e inserito nel sistema di produzione. «Film, radio e settimanali – scrivono i due autori – costituiscono un sistema. Ogni settore è armonizzato in sé e tutti fra loro. Film e radio non hanno più bisogno di spacciarsi per arte. La verità è che non sono altro che affari, serve loro da ideologia, che dovrebbe legittimare gli scarti che producono volutamente»[3].
Adorno e Horkheimer propongono Ulisse come immagine emblema dell’uomo occidentale civilizzato e assoggettato al sistema di dominio rafforzato e custodito dall’industria culturale. “La figura di Ulisse – scrive a questo proposito il Professor Gaetano Rametta, docente di storia della filosofia dell’Università di Padova – rappresenta il prototipo del potere moderno e il modello del soggetto occidentale in cui la natura è vista come un ambiente da utilizzare in modo strumentale e da conoscere ai fini dei vantaggi che il soggetto può trarne”[4]. Il sapere si svincola in questo modo dalla sua componente soggettiva, intesa come piacere della conoscenza, e diviene unicamente un “sapere per”, cioè un possibile contenitore di informazioni con lo scopo di accumulare ricchezza e potere.
Nel libro XII, ai versi 39-46, Omero descrive così il canto delle sirene abitanti di un’isola disseminata di cadaveri in putrefazione: «Tu arriverai, prima, dalle Sirene, che tutti gli uomini incantano, chi arriva da loro. A colui che ignaro s’accosta e ascolta la voce delle Sirene, mai più la moglie e i figli bambini gli sono vicini, felici che a casa è tornato, ma le Sirene lo incantano con limpido canto, adagiate sul prato: intorno è un mucchio di ossa di uomini putridi, con la pelle che raggrinza». Ulisse, arrivato nei pressi delle Sirene, ordina al suo equipaggio di turarsi le orecchie con della cera, di legarlo all’albero maestro e di continuare a remare, qualsiasi cosa fosse successa. «Così cantavano modulando la voce bellissima – dichiara Ulisse – e allora il mio cuore voleva sentire, e imponevo ai compagni di sciogliermi, coi sopraccigli accennando; ma essi a corpo perduto remavano. E subito alzandosi Perimede ed Euriloco nuovi nodi legavano e ancora più mi stringevano»[5].
Così come l’equipaggio di Ulisse, anche i lavoratori nell’epoca capitalistica «devono guardare avanti e lasciare stare tutto ciò che è a lato. L’impulso che li indurrebbe a deviare va sublimato, con rabbiosa amarezza, in ulteriore sforzo». Lo stesso Ulisse, che ha scelto di ascoltare il canto legato all’albero maestro, «fa lavorare gli altri per sé; ode, ma è impotente, legato all’albero della nave, e più la tentazione diventa forte, più strettamente si fa legare, così come, più tardi, anche i borghesi si negheranno più tacitamente la felicità quanto più, crescendo la loro ricchezza e potere, l’avranno a portata di mano […]. I compagni, che non odono nulla, sanno solo del pericolo del canto, ma non della sua bellezza […]. Essi riproducono, con la propria, la vita dell’oppressore, che non può più uscire dal suo ruolo sociale. Gli stessi vincoli con cui si è legato alla prassi, tengono le sirene lontane dalla prassi e la loro tentazione è neutralizzata a puro oggetto di contemplazione, ad arte»[6].
L’intera civiltà occidentale è segnata quindi da una dialettica che, come abbiamo già visto, viene definita autodistruttiva: la ragione, da strumento di emancipazione, diviene ragione che, proprio come Ulisse, incatena l’uomo; la ragione, da concetto che riecheggia di progresso e di emancipazione, diviene emblematicamente rappresentata come le funi che tengono Ulisse legato all’albero della nave. Il dominio dell’uomo sull’uomo avviene attraverso l’asservimento al sistema sociale del produttivismo, al trionfo della ragione strumentale che condanna l’occidente ad un rovesciamento su se stesso. Il fine dell’uomo non è più l’orizzonte di libertà, di progresso, di uguaglianza e di reale comprensione del nostro essere nel mondo, ma diviene un fine esterno rispetto alle logiche della nostra vita. Il nostro essere uomini e donne nel mondo significa essere lo strumento per la realizzazione di fini altrui.
Ulisse, nell’interpretazione di Adorno e Horkheimer, rappresenta l’uomo borghese che desidera ascoltare il canto delle sirene, ma non può farlo liberamente altrimenti la sua vita sarebbe irrimediabilmente travolta, non farebbe più ritorno a Itaca, la sua casa. I suoi marinai non possono ovviamente ascoltare il canto che li condurrebbe inevitabilmente verso la tentazione che farebbe venir meno la dinamica dell’obbedienza a cui sono inconsapevolmente devoti. Se i marinai – lavoratori ascoltassero il canto delle sirene non svolgerebbero più la loro mansione di essere strumenti nella mani dell’oppressore. La critica di Adorno e Horkheimer si rivolge quindi ad una società che è diventata calcolo, numero e produzione, che trasforma gli uomini, come la stessa natura, in mezzi e in soggetti subalterni alle dinamiche produttive.
Bibliografia e sitografia
- T. W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1966.
- https://ilbolive.unipd.it/it/news/conformismo-massa-azzeramento-libero-pensiero
- Omero, Odissea, Marsilio – Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2018.
[1] T. W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1966, p. 11.
[2] T. W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1966, p.58.
[3] T. W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1966, pp.130-131
[4] https://ilbolive.unipd.it/it/news/conformismo-massa-azzeramento-libero-pensiero
[5] Omero, Odissea, Marsilio – Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2018.
[6] T. W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1966, pp.40-43.