di Gianfranco Pecchinenda
La realtà, nonostante sia il frutto di un sempre rinnovato sforzo collettivo, resta in gran parte una faccenda molto soggettiva. Lo stesso vale per la realtà del divenire. Forse – come ha scritto Nabokov – “se il futuro esistesse in modo concreto e individuale, come qualcosa che può essere percepito da un cervello superiore, il passato non sarebbe così seducente: le sue esigenze risulterebbero controbilanciate da quelle del futuro. Le persone potrebbero allora stare a cavalcioni sul punto centrale dell’asse in bilico mentre contemplano questo o quell’oggetto”. Tuttavia – come sappiamo – il futuro non possiede questa realtà (contrariamente al passato rivisto nel ricordo e al presente percepito); il futuro non è che una figura retorica, un fantasma del pensiero.
Se è vero che l’esperienza del futuro non potrà mai essere così vivida e pregna di quel “senso di realtà” che caratterizza il presente o il passato (soprattutto quello più prossimo), essa costituisce certamente una componente essenziale della personalità di ogni individuo, in quanto l’organizzazione di questa idea – o di questo “fantasma del pensiero” – fornisce un senso di direzione e rende possibili la speranza, il senso e – soprattutto – il controllo delle esistenze
- Tecnologie e scienze del futuro
Una delle riflessioni scientifiche più interessanti relative all’idea del divenire, è quella proposta dallo storico Stephen Kern nel suo libro The Culture of Time and Space 1880-1918, apparso per la prima volta nel 1983. Tale riflessione prende spunto dalla geniale e oramai celebre distinzione del fenomenologo Eugène Minkowski tra due modalità di percezione del futuro: il modo dell’attività e il modo dell’aspettativa.
Nel primo caso l’individuo avanza verso il futuro spingendosi in ciò che lo circonda conservando il controllo sugli eventi; nel modo dell’aspettativa, il futuro muove verso l’individuo, che si contrae di fronte ad un ambiente opprimente. “Ogni individuo – sintetizza il Kern – è una mescolanza di entrambi i modi, cosa che lo rende capace di agire nel mondo e mantenere un’identità in mezzo ad una barriera di minacciose forse esterne”.
Le immagini che vengono richiamate dall’autore, per descrivere il senso di questa dicotomia, fanno riferimento innanzitutto alla guerra. Il modo dell’aspettativa è infatti predominante per un soldato, dato che la sua attività risulta essere evidentemente limitata dagli eventi attesi e subiti senza poterne avere praticamente nessun controllo (si pensi, ad esempio, ai soldati asserragliati in una trincea), ma anche ad eventi metaforicamente assai significativi, come l’affondamento del Titanic: “è come un iceberg, che ondeggia a picco di fronte alla prua di una nave che in un istante si schianterà fatalmente contro di esso. L’aspettativa penetra fino alla radice di un individuo, lo riempie di terrore di fronte a questa massa sconosciuta e inaspettata, che lo inghiottirà in un istante”.
All’opposto, la visione del futuro legata al modo dell’attività viene ricollegata dal Kern soprattutto agli stimoli generati dai progressi registrati nell’ambito della scienza e dell’innovazione tecnologica. È lì che si annida l’aspetto più originale e – soprattutto – attuale della disamina di quest’autore.
Considerando l’esperienza generazionale dell’epoca da lui analizzata (quella che va da fine Ottocento alla fine della Grande Guerra), non si può non notare quanto le innovazioni tecnologiche introdotte in quel periodo in Occidente abbiano prodotto un’enorme crescita delle possibilità di prevedere e “controllare” il tempo, influenzando in maniera significativa entrambe le modalità di rapportarsi al futuro: gli effetti della diffusione del telefono ne sono un chiaro esempio. Citando un saggio apparso nel 1910, viene ricordato come, nel corso di quel periodo, fosse subentrato un abito mentale nuovo e assolutamente originale: “L’atteggiamento pigro e lento ha subito una mutazione (…), la vita è diventata più tesa, vigile, vivace. Il cervello è stato sollevato dall’ansia dell’attesa per una risposta (…) esso riceve istantaneamente ed è libero di considerare altre questioni”.
Kern rileva inoltre quanto, “a paragone della comunicazione scritta o delle visite faccia a faccia, il telefono accrebbe l’imminenza e la rilevanza del futuro immediato, e ne accentuò sia il modo dell’attività che quello dell’aspettativa dipendenti dal fatto che si stesse facendo o ricevendo una telefonata. Una telefonata non è soltanto più immediata di una lettera, ma è più imprevedibile, poiché il telefono può squillare in un qualsiasi momento: è una sorpresa, ed è perciò più dirompente, richiede un’attenzione immediata. Il modo attivo è rafforzato per chi chiama, che senza il protrarsi del ritardo della comunicazione scritta può fare accadere le cose immediatamente, mentre l’effetto invadente dello squillare aumenta il modo dell’aspettativa per il ricevente, costringendolo a fermarsi e a rispondere, qualunque cosa stia facendo: è sospinto in un ruolo passivo, poiché chi chiama può prepararsi per la conversazione e dominarla fin dall’inizio.”
Ciò che mi preme sottolineare, prendendo a mia volta spunto da tali riflessioni, è non tanto l’impatto dell’innovazione tecnologica sulla fluttuazione tra le due modalità di percepire il futuro, quanto soprattutto la sua influenza più generale sull’apparato percettivo e, in particolare, sul cervello. Come ha insegnato McLuhan, e come appare sempre più evidentemente grazie alle più recenti scoperte nell’ambito della ricerca neuroscientifica, il tema della plasticità cerebrale è forse quello maggiormente ricco di suggestioni per ciò che concerne l’analisi del legame tra le trasformazioni tecnologiche e quelle riguardanti l’idea di futuro.
Prima di approfondire questo tema, mi vorrei tuttavia soffermare ancora su alcune elaborazioni teoriche relative alle trasformazioni dell’idea di futuro emerse a seguito delle rivoluzionarie innovazioni tecnologiche del periodo analizzato da Kern.
Nel 1902, in quello che può essere considerato un vero e proprio manifesto di futurologia, Herbert George Wells distingueva due tipi di atteggiamento mentale nei confronti del futuro molto simili a quelli teorizzati da Minkowski: “il primo è retrospettivo, una mente legale o sottomessa, che cerca i precedenti per decidere come regolarsi con il futuro. L’altro è il tipo creativo o organizzativo, che attacca l’ordine stabilito: “esso è nella disposizione attiva di pensiero, mentre il primo è nella passiva”. L’epoca moderna appariva a Wells come un’epoca in cui il futuro cominciava ad apparire sempre più come una possibile fonte di valori e guida per l’azione: “Fino al 1902, la visione del futuro di Wells era piena di catastrofi e degenerazioni; in seguito – prevalentemente a seguito di una sempre crescente fiducia nella scienza e nelle innovazioni tecnologiche – cominciò a prevedere un progresso”.
Se è innegabile l’espandersi di un atteggiamento fiducioso nei confronti dell’idea di futuro come progresso, va altresì notato l’emergere parallelo di un atteggiamento teorico più attento alla particolarità di alcune caratteristiche dell’esperienza umana: Bergson – primo tra tutti – sosteneva ad esempio, in quello stesso periodo, che mentre la scienza si sforzava di controllare il futuro e di orientarlo attraverso leggi previsionali, dimenticava d’altro canto la sostanziale incertezza degli eventi che caratterizzano lo specifico dell’esperienza umana, costituita prevalentemente da una catena più o meno probabile di eventi nel tempo.
Una delle metafore più illuminanti per chiarire il pensiero di Bergson a tal proposito, lo ritroviamo nelle pagine iniziali del suo L’evoluzione creatrice, che credo possa essere considerata una delle più magistrali lezioni di fenomenologia della temporalità: “se desidero preparare un bicchier d’acqua zuccherata, per quanti tentativi faccia, devo attendere fino a che lo zucchero si scioglie. Questo piccolo fatto è di grande importanza. Il tempo che devo attendere – sottolinea Bergson – non è lo stesso tempo dell’intervallo che può essere matematicamente misurato, poiché quest’intervallo è completato prima che la misurazione sia fatta ed è perciò differente da ciò che nel frattempo io vivo. Il tempo come io lo vivo coincide con la mia impazienza; quell’attesa costituisce la sua essenza ed assicura la mia libertà: senza di essa, il futuro si schiude come qualcosa di già conosciuto, e noi siamo imprigionati nel determinismo”.
- Incertezza e divenire: Il cervello e la morte
L’importanza di quell’ incertezza che caratterizza il nostro rapporto con il futuro, così brillantemente richiamata da Bergson, costituisce a mio avviso il punto di partenza essenziale di un possibile dialogo tra neuroscienze, filosofie della scienza e senso comune.
Se una certezza accomuna l’uomo della strada al più razionale degli scienziati, è infatti quella relativa all’inevitabilità della morte. Solo l’approccio dei filosofi esistenzialisti (e neanche tutti) – che io sappia – ha accettato di fondare le sue analisi partendo da questa banale evidenza, dando così vita ad una vera e propria teoria dell’assurdo proprio a partire dalla constatazione dell’irrealtà del futuro e, dunque, dell’assoluta mancanza di senso dell’idea di un “divenire”.
Lasciando comunque da parte il delicato dibattito esistenzialista, se scienza e senso comune risolvono il paradosso attraverso molteplici strategie collettive di “mimesis”, se non di una vera e propria radicale “rimozione” della morte, l’evoluzione sembrerebbe aver creato uno strumento assolutamente geniale per produrre – nonostante le evidenze della “realtà” esistenziale – una realtà parallela, la “realtà” del futuro. Tale strumento è il cervello umano.
Senza volerci addentrare in complesse questioni riguardanti la neurobiologia del nostro sistema nervoso, può essere sufficiente notare come ci sia una significativa convergenza, da parte di molti eminenti studiosi, nel definire il cervello umano una sorta di “macchina del tempo”, uno strumento che non soltanto misura il tempo e prevede il futuro, ma ci permette anche di proiettarci in un divenire.
Se ci chiediamo il motivo per cui molti mammiferi – e soprattutto gli umani – abbiano sviluppato un tale organo, affiancandogli nel corso dei millenni complesse organizzazioni sociali sempre più stabili e strutturate (le istituzioni sociali), troviamo in molte teorie neoevoluzioniste delle suggestive tracce che rinviano ancora una volta al timore antropologico per l’incertezza, mitigato da complessi processi di elaborazione sociale dell’idea di futuro.
Il cervello è un organo (o, se vogliamo, uno strumento) terrorizzato dall’incertezza. La sua evoluzione è stata determinata dalla capacità di prevedere.
L’incertezza è il problema per la cui soluzione il nostro cervello si è evoluto. L’incertezza, come sappiamo, è anche problema per la cui soluzione le società umane si sono a loro volta evolute.
La soluzione del problema dell’incertezza può essere dunque considerato il principio unificante che permea l’evoluzione biologica e sociale che ha caratterizzato la storia degli esseri umani.
D’altra parte, si può facilmente riconoscere come l’incertezza sia anche una condizione del tutto familiare per noi esseri umani. Non c’è nulla di inquietante in essa: noi viviamo abitualmente nell’incertezza. Non sappiamo cosa ci succederà domani. Non sappiamo neppure che tempo farà domani. Non sappiamo cosa davvero pensano le persone che amiamo. Non sappiamo come guarire neppure i raffreddori. «Io penso – sostiene Carlo Rovelli – che i più grossi errori tanto pratici che filosofici che ha sempre fatto l’umanità siano sempre stati legati a un’assurda pretesa di trovare certezze. Le quali certezze vengono poi regolarmente gettate a mare in meno di una generazione. Io trovo che la certezza sia noiosa. L’incertezza è la bellezza della vita. Incertezza non vuol dire che non sappiamo nulla o che siamo nella totale oscurità. Sappiamo un sacco di cose e il nostro sapere è ragionevolmente affidabile. Fra la certezza e la completa oscurità c’è un prezioso spazio intermedio, che è quello dove si svolge la nostra vita».
Ricollegandoci alle questioni sollevate dal Kern, bisogna inoltre riconoscere che, di fronte ad innovazioni tecnologiche (e qui ci riferiamo ovviamente anche a quelle più recenti) che producono un mondo sempre più interconnesso, l’interdipendenza e – di conseguenza – l’imprevedibilità e l’incertezza nei comportamenti individuali e collettivi, sono sempre più presenti, incidendo in maniera decisiva e non facilmente controllabile sul rapporto tra i due diversi modi di rapportarsi al futuro individuati da Minkowski.
Il compito dei processi di socializzazione (quello di plasmare – attraverso l’imposizione di regole relative a contesti sempre più rigidi – cervelli i cui automatismi biologici si associno ad automatismi sociali e tecnologici) sta diventando sempre più complicato. Il suo fine – ridurre l’incertezza e creare automatismi e routines che svolgano la funzione altrimenti delegate, in altre specie viventi, agli impulsi – appare sempre più compromesso.
Proporre alternative nei modi di percepire la “realtà”, prevedere la possibilità di “vedere diversamente” e creare soluzioni differenti agli stessi problemi, costituisce un grande valore evolutivo; il nostro cervello, d’altra parte, non si è evoluto per vedere-percepire “meglio” o con più accuratezza l’ambiente circostante, ma semplicemente per sopravvivere. Il programma che ha plasmato il nostro cervello si chiama Evoluzione.
Sono le esperienze a fornire al cervello quel repertorio storico di feedback (azione-reazione a situazioni, interazioni, relazioni con gli altri, l’ambiente, le cose) che scolpisce la sua particolare architettura neurale. Dato che i neuroni e la struttura della rete neuronale sono in continua evoluzione, e costituiscono la base a partire da cui noi prendiamo decisioni in relazione al nostro futuro, possiamo affermare di essere letteralmente plasmati da tale processo, non dimenticando il ruolo decisivo giocato dalle tecnologie in tale processo.
- Le neuroscienze esistenziali e la questione del “senso” del futuro
Pur consapevole delle insidie legate a interpretazioni tendenzialmente troppo deterministiche, è tuttavia inevitabile richiamare l’attenzione su alcune questioni riguardanti il peso della biologia nel rapporto tra organismi e tecnologie, in particolare per quegli aspetti che si collocano alle origini del processo di costruzione del senso del futuro negli esseri umani.
Tutti gli organismi viventi, come sappiamo, mettono in atto strategie per sopravvivere e riprodursi che si fondano principalmente sulla loro capacità di trarre informazioni dall’ambiente circostante e utilizzarle per accedere alle fonti di energie più adatte al loro organismo. Lo strumento principale di cui gli animali superiori dispongono, e che si è via via venuto sviluppando nel corso dell’evoluzione, è appunto il cervello.
Quando un macaco esplora l’ambiente circostante alla ricerca di nutrimento per il suo organismo, i suoi movimenti seguono evidentemente degli schemi di condotta in gran parte appresi da altri membri adulti del suo gruppo, a partire dalla madre stessa, primo agente socializzatore per eccellenza di ogni mammifero.
Nel momento in cui, dopo aver esaminato e scandagliato tra gli alberi e le foglie attraverso i suoi organi percettivi, il macaco in questione scopre della frutta ed inizia a mangiarla, egli prova “piacere”. Tale emozione piacevole è causata da una molecola – la famosa dopamina – che viene rilasciata nel fondo del suo cervello, in una struttura nervosa chiamata stratium. Il macaco assocerà nella sua memoria le esperienze vissute (il percorso seguito, gli odori, le immagini visive, i rumori, etc.) in tale processo di ricerca, con questa emozione piacevole.
Nel suo cervello la dopamina giocherà un ruolo di collante e di rinforzo di quelle connessioni che avranno legato tra loro i neuroni che avevano partecipato a questa sequenza di azioni. Tali circuiti neuronali, così rinforzati, imprimeranno in lui un primo “ricordo” di quel contesto che, segnalando la probabile presenza di cibo, lo aiuterà a sopravvivere.
La volta successiva, quando il macaco farà ritorno in quello stesso contesto (o in un ambiente simile), e ritroverà la stessa combinazione di stimoli percettivi (visivi, uditivi, olfattivi, tattili), si verificherà un evento di importanza determinante per il suo eventuale successo evolutivo: la dopamina verrà rilasciata in anticipo rispetto al soddisfacimento del suo bisogno di nutrimento.
Il rilascio della molecola si produrrà, infatti, nel momento stesso in cui egli percepirà gli elementi in questione, ben prima, cioè, della scoperta del cibo. Il che equivale a dire che lo stimolo che scatenerà la sua risposta emotiva piacevole sarà generato prima che l’animale cominci a cibarsi.
In altri termini, ci troviamo di fronte a una previsione prodotta dal suo cervello rispetto a ciò che si sta per verificare.
Il motivo per cui si verifica una tale previsione è evidente: essa doterà l’organismo portatore di quello strumento predittivo (il cervello in quanto tale) di un vantaggio evolutivo notevolissimo; un meccanismo che aumenterà a dismisura le sue possibilità di sopravvivenza.
Nel momento in cui un essere vivente sarà in grado di prevedere ciò che sta per accadere a partire dal presente che egli percepisce nell’ambiente circostante, il suo potere decisionale di controllo si moltiplicherà a dismisura. L’animale ricercherà le situazioni potenzialmente più vantaggiose ed eviterà quelle più pericolose. Egli disporrà di un “tempo” di anticipazione sulla “realtà”.
La previsione gli consentirà il controllo.
E il cervello degli animali superiori ha maturato evolutivamente uno strumento predittivo straordinario che gli consentirà di poter stabilire dei legami tra lo stato di un contesto in un determinato momento, e lo stato di quello stesso contesto in un momento successivo. Tale legame – secondo una originale definizione di Sébastien Bohler – costituisce la base neurobiologica di quello che, negli esseri umani, verrà definito “il senso”. Il concetto di “senso” presente in ogni cultura sarà sempre riconducibile (indipendentemente dalle diverse declinazioni che potrà assumere), a un tale meccanismo di previsione e di controllo.
Immaginiamo un bambino inserito nell’ambito di un normale processo di socializzazione primaria. Fin dalle primissime interazioni con i suoi socializzatori, o con altri membri del suo gruppo familiare, egli vedrà premiati determinati comportamenti adattativi. Quando, ad esempio, il bambino non metterà le mani direttamente nel piatto in cui è depositato il suo cibo e comincerà invece ad utilizzare il suo piccolo cucchiaio con l’aiuto della madre, egli riceverà degli incoraggiamenti a ripetere tali condotte (un sorriso, una carezza, un gesto di apprezzamento, parole dolci, un piccolo regalino). In quelle occasioni il suo cervello rilascerà, dal profondo del suo stratium, la sua dose di dopamina. Successivamente, tale dopamina comincerà ad essere rilasciata in anticipo – ad esempio già nel momento in cui la madre tirerà fuori dal cassetto il cucchiaio e lui tenderà la mano per mostrare di volerlo afferrare. E lo stesso processo si verificherà quando, in età successive, il bambino sarà stato bravo a fare i compiti ed avrà ottenuto un buon voto a scuola. In tal caso il suo cervello farà la seguente previsione: “se sarò educato e farò bene i miei compiti, proverò un’emozione piacevole”. Tale capacità di previsione diventerà sempre più un comportamento adattativo positivo: il bambino avrà selezionato in anticipo quei comportamenti conformi alle aspettative che gli faranno guadagnare la stima e l’affetto nell’ambito del suo contesto sociale. In seguito, eventualmente, ciò potrà condurlo al successo (relativo) nell’ambito del suo ambiente professionale.
In termini più generali, ciò significa che il bambino avrà cominciato ad affinare gli strumenti che gli consentiranno di controllare il suo ambiente grazie alla capacità di creare un “senso” valorizzato positivamente tra i suoi cari e nella sua società. Per lui, la società comincerà ad acquisire un senso: egli saprà che potrà essere accettato ed avere successo se sarà in grado di rispettare delle regole, degli schemi comportamentali, dei codici di interpretazione e comunicazione sociale. La sua società sarà sempre meno un’accozzaglia caotica di individui e sempre più un sistema strutturato dotato di un ordine intellegibile. Tutto ciò risulterà essere profondamente rassicurante, anche e soprattutto (almeno agli inizi), in termini neurobiologici.
- L’anticipazione del “tempo”
A un livello ancora più ampio, gli esseri umani hanno bisogno di infondere un senso al funzionamento stesso del mondo, nel suo complesso. Lo dimostrano gli enormi sforzi, di carattere sia mitologico (narrativo) sia rituale (schemi di azione stabili e ripetibili) che hanno accompagnato i processi di costruzione sociale della realtà in tutte le più importanti tradizioni culturali di cui serbiamo memoria: sia che si parli di sacerdoti-indovini-stregoni, sia che si parli di previsioni basate su complessi calcoli algoritmici (come una banale app sul meteo), il rilascio di dopamina “prima” che gli avvenimenti (la pioggia o il sole, ad esempio) si verifichino nella “realtà”, costituisce uno strumento chiave alla base di ogni organizzazione sociale complessa. Si tratta, in ogni caso, di iscrivere le proprie azioni nel “tempo” e di riuscire a individuare delle connessioni tra ciò che sta accadendo nel presente vissuto (il tempo t1) e ciò che accadrà domani (o in un altro tempo successivo t2), costruendo così dei veri e propri ponti in grado di unire gli avvenimenti che si producono nell’ambiente circostante.
Tale prodigioso meccanismo costituisce il nostro strumento di decodificazione del mondo e di previsione degli avvenimenti secondo delle regole prevedibili (ad esempio l’idea di un Cosmo governato da leggi o regole più o meno modificabili).
Immaginiamo i primi agricoltori intenti a scrutare i segni della natura, del cielo e delle piante: dal momento in cui alcuni di essi intuiranno che si verificherà una pioggia qualche giorno dopo aver osservato la presenza di certe nuvole formarsi al di sopra di una collina in lontananza, la dopamina che era stata in origine rilasciata nel momento di una benefattrice pioggia precedente, comincerà ad agire in anticipo sui tempi, nel momento stesso in cui essi cominceranno ad osservare la formazione di quelle strane nuvole in lontananza.
In altri termini, i loro cervelli prevedranno che pioverà. Il vantaggio è evidente, oltre che socialmente decisivo: diventerà possibile assumere delle disposizioni per anticipare un buon raccolto, reclutare un maggior numero di persone per seminare (o raccogliere), prendere delle precauzioni (mettere al riparo i più deboli, ad esempio i neonati).
Il livello di controllo di questi individui sul loro ambiente sarà notevolmente aumentato. E, al contempo, aumenterà un sentimento diffuso di ordine della natura: esistono delle stesse cause che producono degli stessi effetti. Comprendere e prevedere un determinato “ordine degli eventi” diventerà uno strumento essenziale per poter ridurre l’incertezza.
Il nostro bisogno di previsione e controllo, così come la ricerca del piacere associato all’individuazione di un tale schema di controllo degli eventi, è così forte che molto spesso, in molte culture, ci si sforza di trovare dei legami tra eventi che si verificano nel nostro ambiente anche laddove questi non si presentino affatto: la prossima volta che il cacciatore indosserà quella determinata collana di denti di bisonte, si verificherà una scarica di dopamina simile (e anticipata) a quella che si verificherebbe nell’eventualità di riuscire a catturare “realmente” un bisonte di grandi dimensioni. Il cacciatore si sentirà pertanto più fiducioso nel successo della sua impresa futura. Oggi parliamo di amuleti e superstizioni.
La questione più importante da sottolineare, però, resta quella legata al sistema di anticipazione e previsione. La sua fondamentale funzione è quella di ridurre il sentimento d’incertezza, procurando così un notevole vantaggio nella lotta per la sopravvivenza: la capacità di associare dei segnali a degli avvenimenti che li seguiranno nel tempo, ha decisamente favorito la sopravvivenza di coloro che ne erano dotati. In termini neurobiologici, ciò fa ipotizzare che una parte del nostro cervello si sia probabilmente evoluta per adempiere a una tale funzione. Identificare quale sia questa parte potrebbe essere particolarmente importante per comprendere il funzionamento di questo aspetto dell’attribuzione di senso e significato alla nostra esistenza.
- Ansia, angoscia e imprevedibilità
Bisogna sottolineare che quando il legame tra previsione e realizzazione degli eventi previsti si verifica, si manifesta anche un’importante reazione antistress. Il cacciatore persuaso che il suo amuleto gli consentirà di catturare la preda, o che certi gesti rituali diminuiranno il rischio di morire durante l’impresa (infatti aveva seguito pedissequamente i gesti scaramantici l’ultima volta e non era morto…!), avrà un atteggiamento molto più fiducioso e predisposto al successo. In tutte le civiltà, d’altra parte, i rituali rivestono uno stesso ruolo tranquillizzante e rassicurante. Osservare, prevedere e anticipare gli avvenimenti futuri, diminuisce l’angoscia: tutto questo ha molto a che vedere con le questioni legate al “senso” in termini più propriamente esistenziali.
Oggi, grazie alla ricerca neuroscientifica, siamo in grado di sapere cosa accade nel cervello di un mammifero superiore quando una previsione non si realizza. All’interno di una piccola piega della corteccia cerebrale collegata allo striatum, e situata nella regione superiore della superficie mediale dei lobi frontali, sopra il corpo calloso che unisce i due emisferi cerebrali, c’è un’area identificata con il nome di corteccia cingolata anteriore. Tale corteccia si attiva nel momento in cui le aspettative relative a un evento vengono disattese. Ad esempio, se una scimmia è messa in condizione di prevedere l’ottenimento di un frutto (ad esempio ha eseguito un compito assegnatogli in modo corretto) e tale aspettativa viene disattesa, quell’area della corteccia si illuminerà. E lo stesso accade se la scimmia non si aspetta alcuna ricompensa ma, contrariamente a tale aspettativa, riceverà un premio.
In laboratorio, l’attività di quest’area cerebrale può essere osservata in diversi modi, che evidenziano con chiarezza, anche negli esseri umani, l’esistenza di una sorta di “potenziale di segnalazione d’errore”. In altri termini, quando il risultato di un evento atteso viene confermato, l’attività di quest’area è praticamente nulla, come se non fosse presente nessun segnale d’allarme. Se però il risultato non è conforme alle previsioni, la corteccia cingolata emette un evidente segnale (un segnale d’errore di previsione, appunto). Tale fenomeno giunge al suo culmine in quelle situazioni di grande incertezza, quando diventa impossibile prevedere l’esito di un evento: in questi casi la corteccia cingolata non cessa di emettere segnali. L’individuo non riesce infatti a percepire alcun ordine negli eventi (nessuna connessione causa-effetto) ed è continuamente in uno stato d’allerta, alla ricerca di ogni minimo cambiamento o indizio, in una condizione di stress crescente, senza capire in che modo poter reagire.
Qual è la conseguenza del segnale d’errore nella nostra vita quotidiana?
In genere noi trascorriamo gran parte delle nostre giornate ad elaborare – in modo più o meno consapevole – delle aspettative su ciò che ci accadrà… “tra poco”, “domani”, “tra un mese”, “tra un anno” o… “quando andrò in pensione…”.
Quando la massaia si reca al mercato per le spese, prevede ciò che cucinerà a pranzo; il ragazzo sui banchi di scuola, prevede cosa farà in serata, cosa farà durante il periodo di vacanze, cosa farà quando si sarà diplomato, o laureato. Quando l’impiegato arriva in ufficio, si aspetta di incontrare i volti noti dei suoi colleghi, la scrivania con il suo computer, il distributore automatico del caffè nel corridoio. Se incontrerà un collega seduto alla sua scrivania, o il distributore del caffè si tratterrà la moneta senza erogare il caffè, la corteccia cingolata anteriore del nostro impiegato invierà immediatamente un allarmante segnale d’errore di previsione. Se troverà il computer acceso, essendo certo di averlo accuratamente spento prima di andar via, ecco che riceverà ancora lo stesso segnale d’allarme da parte del suo sistema di controllo organico: violazione delle aspettative. Fino a quando tali violazioni dell’ordine previsto saranno relativamente rare, il sistema nervoso si adatterà agevolmente; la situazione continuerà a restare “sotto controllo”. Se però gli errori di previsione diventeranno troppi, sarà sempre più difficile per l’individuo in questione riorganizzarsi, fin quando finirà per sentirsi assalito dall’angosciante dubbio di vivere in una incontrollabile condizione di caos e precarietà.
Vivere a lungo in simili situazioni di incertezza, può condurre un organismo a stati di grande stress: la corteccia cingolata attiverà un circuito nervoso a molteplici nodi che discenderà fino a raggiungere un centro cerebrale coinvolto con le emozioni legate alla paura e all’angoscia – l’amigdala – e da lì proseguirà fino a raggiungere nuclei del tronco cerebrale in grado di rilasciare ormoni quali il cortisolo o la noradrenalina, il cui effetto sarà principalmente quello di predisporre l’organismo alla fuga o alla paralisi, provocando un’angoscia che ben si potrebbe definire di tipo esistenziale.
Tra le conseguenze finora studiate e scientificamente correlate al raggiungimento di una tale condizione organica, troviamo l’emergere di problematiche patologiche che vanno, ad esempio, dall’insonnia alla depressione, passando per disturbi (più o meno accentuati) da stati d’ansia, perdita di memoria, malattie cardiovascolari, diabete.
Ciò che tali esperienze suggeriscono, da un punto di vista più generale, è che la corteccia cingolata anteriore sembra giocare un ruolo determinante nel segnalare un errore che ci avverte che il mondo potrebbe non avere un senso per noi decifrabile. Si tratta di importanti dati di congiunzione tra fenomeni di carattere organico-anatomici e riflessioni relative al senso e al significato della nostra condizione esistenziale: dal momento in cui il grado di ordine e di organizzazione nel nostro ambiente comincia a calare, questa parte profonda del nostro cervello ci avvisa del probabile pericolo per la nostra stessa sopravvivenza.
Nelle società relativamente stabili, in cui gli ambienti di lavoro, le strutture familiari e dei rapporti interpersonali non cambiano in modo repentino, imprevedibile e arbitrario, la corteccia cingolata costituisce un fattore di adattamento assai efficace. Quando, però, tali strutture di protezione si modificano in modo troppo accelerato e inatteso, lasciando l’individuo in preda al dubbio e all’incertezza, quello stesso sistema interno al cervello può spalancare le porte al sopraggiungere del caos, dell’inquietudine e dell’angoscia esistenziale.
- Divenire, dover essere
Riassumendo un discorso difficilmente schematizzabile e certamente in divenire, ritengo sia opportuno ribadire alcune questioni conclusive. Soprattutto vorrei richiamare l’attenzione sull’enorme difficoltà di ogni impresa teorica che si proponga di mantenere vivo un dialogo tra quelle che, per comodità, definiamo ancora scienze hard e soft. Se è vero, come ho provato a descrivere, che ogni tentativo di trovare una relazione di causa diretta tra innovazioni tecnologiche e mutamenti in ambito sociale e psichico, è destinata a scontrarsi con inevitabili problemi legati alla complessità della “natura” umana, l’unica possibilità di far progredire la conoscenza in alcuni settori della ricerca scientifica è quella di sforzarsi di accrescere il dialogo di frontiera tra le diverse discipline, provando ad evitare timori relativi ad eventuali (per quanto, talvolta, inevitabili) “invasioni di campo” tra discipline.
Come abbiamo notato, riferendoci alla brillante distinzione fenomenologica introdotta da Minkowski, sebbene le innovazioni tecnologiche sembrino a volte stimolare una tendenziale crescita delle modalità “attive” di affrontare il futuro, spingendo individui e comunità a programmare il loro divenire al fine di controllarlo e – soprattutto – attribuirgli una direzione, è altrettanto vero che una tale tendenza può anche trasformarsi nel suo opposto, stimolando cioè modalità “passive” di attendere che il futuro si realizzi, in cui cioè ogni eventuale azione di previsione e controllo sembrerebbe destinata al fallimento. L’esempio dell’uso attivo o passivo del telefono o, oggi, dei nuovi media, è un esempio calzante, introducendo una netta distinzione tra chi “produce” l’informazione o i dati (più utili all’adattamento alle diverse, possibili forme di interazione sociale) e chi li “riceve”. Altro esempio inesorabilmente attuale potrebbe essere quello delle reazioni “attive” (scientifiche e farmacologiche), ma anche “passive” (negazioniste e no vax), degli individui e delle comunità nei confronti della pandemia, che ricorda gli esempi precedentemente riportati dei soldati asserragliati in trincea o dei passeggeri del Titanic.
L’elemento che rende impossibile individuare nessi diretti di causalità è soprattutto quello esistenziale, ovvero la necessità – per chi fa ricerca sul comportamento umano – di dover considerare i modi in cui, collettivamente e individualmente, si tende a fornire un senso e un significato alle proprie modalità (dell’attività o dell’attesa) di percepire il divenire, aldilà di ogni possibilità di effettiva o reale capacità di controllo delle circostanze.
Il fatto che le neuroscienze siano oggi in grado di individuare i correlati neurali della produzione di senso, ovvero la possibilità di spiegare in termini scientifici le predisposizioni e le spinte organiche stesse che si trovano alla base di questa vera e propria necessità antropologica (controllare il mutamento e conferire ordine e significato al futuro) di attribuire un “senso” al divenire, può a mio avviso essere considerato uno stimolo assai interessante per aprire inesplorati sentieri di ricerca interdisciplinare e fornire spiegazioni non riduzioniste all’analisi delle complesse interazioni tra gli esseri umani.