di Gianfranco Brevetto
La figura di Albert Camus,intellettuale, militante lucido e mai schierato a priori, è sempre fonte di nuove interessanti analisi e approfondimenti. Domenico Canciani, docente universitario, nel suo Albert Camus, l’inferno e la ragione, ci introduce in una dimensione nuova e delicata di questo protagonista, non solo letterario, del secolo scorso.
– Lei, sin dalle prime pagine del suo libro su Albert Camus, esprime una sorta di familiarità, affezione, verso gli scritti di questo scrittore. Mi sentirei di chiederle cosa c’è nell’opera di Camus che ci conduce ancora oggi, a più di sessant’anni dalla morte, a rivolgerci a lui, al suo pensiero?
In prima istanza posso dire le ragioni della mia affezione per Camus. Essa è nata molto presto, leggendo i suoi libri direttamente in francese, affascinato da una lingua al tempo stesso suntuosa e limpida. Attraverso i romanzi e i saggi lirici sono entrato in un contatto vivo, diretto, con un uomo a più dimensioni, una figura d’intellettuale non ideologicamente schierato, ma partecipe dei drammi del suo tempo(i totalitarismi, la guerra di Spagna, la Resistenza…), capace di interpretarli al di fuori di ogni conformismo, pronto a pagare il prezzo della solitudine e dell’incomprensione, fedele alle sue origini popolari, radicato nell’humus di una cultura mediterranea in cui la luce, la solarità convivono con l’orrore di ingiustizie e conflitti sanguinosi. Al tempo stesso, ho sempre apprezzato la sua lungimirante visione politica di Europa unita e solidale e la volontà di promuovere il dialogo tra gli individui, tra oriente e occidente, tra cristianesimo ed islam, tra mondo laico e spiritualità religiosa. Questa sorta di innamoramento mi ha spinto a leggerlo in modo sistematico, a studiarlo a fondo, fino a farne, insieme all’opera di Simone Weil, di cui egli è stato il primo editore presso Gallimard, l’oggetto privilegiato del mio insegnamento. Quando si ama, si sente il bisogno di comunicare quel che appassiona. L’interesse manifesto con cui i miei studenti seguivano le lezioni è probabilmente lo stesso che sollecita oggi, a più di sessant’anni dalla morte, gli uomini del nostro tempo, così inquieto e travagliato, a rivolgersi al suo pensiero e a cercare nelle sue parole, non la risposta ai loro interrogativi, ai loro problemi, ma la spinta a farsene carico con la stessa generosità e lo stesso atteggiamento solidale.
– Lei passa sapientemente in rassegna alcuni tratti fondamentali dell’opera del nostro autore. Mi ha colpito, in modo particolare, il capitolo in cui lei ne mette in evidenza l’infanzia. Come ha influito e come si è tradotta nell’opera del premio Nobel questo periodo della vita di questo ragazzo algerino?
L’infanzia è indubbiamente l’età favolosa a cui Camus non ha mai smesso di riferirsi. L’impronta solare, mediterranea che caratterizza tutta la sua scrittura ha la sua fonte, la sua scaturigine nell’infanzia algerina. I ricordi della fanciullezza e dell’adolescenza occupano molte pagine de Il diritto e il rovescio, tornano con nostalgia nei successivi saggi lirici, fino a diventare la sostanza stessa del romanzo incompiuto Il primo uomo. Questo romanzo, che rappresenta solo il primo volet dei tre previsti, se non fosse sopravvenuta la tragica morte, ha permesso a Camus, nel momento più doloroso e tragico della sua esistenza, quello della lotta di liberazione, di riconciliarsi con il popolo algerino: coi piccoli coloni cui apparteneva la sua famiglia e coi mussulmani poveri, entrambi vittime delle malefatte del colonialismo. Tornare all’infanzia non è stato per Camus un escamotage per sfuggire alla dolorosa realtà della tragedia algerina, patita come una lacerazione, ma l’occasione per indagare ciò che non ha funzionato nel rapporto tra la Francia e l’Algeria.
Il ragazzo del quartiere povero di Belcourt ha compiuto un lungo periplo: ha partecipato alle vicende del suo tempo, si è opposto alla guerra, ha abbracciato la Resistenza, ha inventato una forma di giornalismo etico, si è mescolato agli scrittori più in vista del suo tempo, Malraux, Sartre, Simone de Beauvoir, Merleau-Ponty, ma in fondo non è stato né capito né amato o accolto da loro. Ciononostante, non si è chiuso nel rancore, non s’è sottratto alle pesantezze della storia, senza tuttavia cedere alle sue derive. Nell’infanzia felice, vissuta tra cielo e mare nella luce di un’Algeria favolosa, ha trovato la sua salvezza: «All’inizio – ha confidato in un’intervista – il mondo non m’è stato nemico. Ho avuto un’infanzia felice, felice nella povertà, malgrado la povertà».
– Sappiamo che Albert Camus ha attraversato uno dei momenti più importanti e tragici del secolo scorso. Le guerre e soprattutto le vicende legate all’indipedenza algerina. Come il nostro autore è riuscito a coniugare la scrittura con un impegno sempre attivo nella società e nella politica?
In più di una occasione, è scritto nei Taccuini, Camus si è interrogato sulla necessità di conciliare la sua scrittura con l’impegno civile, al quale, al pari di ogni uomo, non ha mai pensato di sottrarsi. Attraverso la collaborazione, non occasionale ma costante, a quotidiani e riviste – «Alger républicain», «Combat», di cui, insieme a Pascal Pia è stato il creatore, «L’Express»… – ha dato il suo contributo di pensiero e di riflessione nei momenti più drammatici o difficili della storia del suo paese e dell’Europa. Durante gli anni giovanili ha scritto alcuni memorabili reportage sulla miseria dell’Algeria coloniale, sulle inadempienze dei governi francesi, incapaci di ascoltare le giuste aspirazioni all’autonomia del popolo algerino. Nei mesi della Resistenza, e poi nell’immediato dopoguerra, i suoi editoriali, apprezzati o criticati, hanno animato il dibattito politico sui temi della giustizia e della libertà, sul delicato problema dell’epurazione, sulla pena di morte, sui totalitarismi, di destra e di sinistra, sulla necessità per l’Europa di dotarsi di istituzioni federali al fine di salvaguardare la pace minacciata dalla guerra atomica. Non ha mai vantato alcuna specifica competenza in quanto scrittore ma, al pari di ogni uomo, non si è sottratto al suo dovere di cittadino in «servizio militare permanente» nella polis.
Va da sé che in questa prospettiva, con queste premesse, non per costrizione, ma per un’intrinseca necessità, la sua scrittura creativa – romanzi, racconti, pièces teatrali…– si è spontaneamente posta a servizio dell’uomo, di tutti gli uomini. Nel discorso di ringraziamento per il conferimento del Nobel, che pronuncia nel pomeriggio del 10 dicembre 1957, delinea con sconcertante chiarezza la sua concezione al tempo stesso etica ed estetica del mestiere di scrittore: l’arte non è un piacere solitario che lo situa al disopra della condizione di tutti, ma un mezzo per offrire agli uomini, a tutti gli uomini, «un’immagine privilegiata delle sofferenze e delle gioie comuni». Imbarcato come ogni altro uomo sulla galera del suo tempo, l’artista deve remare continuando però a vivere e a creare. Per questa ragione non c’è stata alcuna contrapposizione tra la dedizione all’opera creativa e l’impegno attivo nella società e nella politica. Di più, tra il lavoro giornalistico e la scrittura si è venuta a creare una osmosi naturale, un mutuo arricchimento: condizione non facile, all’origine di molte inquietudini, molte domande, come testimoniano i Taccuini, che tuttavia non hanno mai ostacolato l’adempimento del suo mestiere d’uomo o compromesso il suo lavoro di scrittore.
– Restiamo sull’Algeria, le cui vicende occupano una significativa parte dei suoi scritti, per chiederle se la posizione di Camus, lucida e autonoma, sia effettivamente stata compresa dai suoi contemporanei.
Domanda impegnativa, a cui nel libro ho dedicato ben tre capitoli. La guerra d’Algeria, aspramente combattuta ad Algeri e all’interno del paese, caratterizzata da un lato da attentati terroristici, dall’altro da una repressione che non s’è fermata neppure di fronte alla tortura, ha investito Camus in modo lacerante, fino a fargli dire d’essere divenuto lui stesso il campo di battaglia. All’inizio degli scontri (1° novembre 1954), ancora animato da una tenue speranza, si è battuto sui giornali, denunciando i colpevoli ritardi del governo francese: nessuno meglio e più di lui ha condannato, fin dagli anni giovanili, la politica coloniale della Francia, fatta di promesse reiterate e mai mantenute, di statuti varati e subito sabotati, di elezioni indette e sistematicamente truccate. Una politica asservita agli interessi dei grandi coloni, padroni di tutta la ricchezza del paese, indifferente di fronte alla miseria degli arabi ed alla povertà di piccoli coloni, vittime sacrificali di una politica iniqua. Questo contenzioso, a partire dall’anno successivo all’insurrezione, affiora nella prosa sferzante e dolente degli articoli pubblicati per quasi due anni su «L’Express». Convinto dei disastri prodotti dal nazionalismo fino alla catastrofe della seconda guerra mondiale, Camus implora gli Algerini di non imboccare quella strada, risparmiando al loro paese il dispotismo totalitario. A questo scopo, propone una riforma di tipo federale, capace di trasformare l’Algeria in uno Stato federato all’interno di una «Federazione francese». Questo progetto avrebbe consentito di accordare ai mussulmani l’autonomia per la quale lottavano e ai coloni francesi, insediati da decenni in Algeria, di continuare a vivere su un territorio sentito come la propria patria. Nel nuovo Stato algerino, Arabi e Francesi, non più prigionieri di rancore e disperazione, lentamente avrebbero potuto riconciliarsi, imparando a convivere.
Soluzione sensata, che però giunge in ritardo: il vento della storia sta soffiando in tutt’altra direzione. A Parigi, gli intellettuali più in vista firmano Appelli in favore dell’indipendenza, i suoi migliori amici, come lui figli dell’Algeria coloniale o cabili, uno dopo l’altro s’arrendono all’ineluttabilità dell’indipendenza. A Camus rimane solo il silenzio, che non è né resa né disperazione. Nella sua casa di Lourmarin, in Provenza, sforzandosi d’andare oltre il risentimento, cercando di comprendere le gravi tensioni che abitano le due comunità viventi su una stessa terra, nel 1959, l’anno che precede la morte, riprende il romanzo al quale più o meno consapevolmente ha lavorato per tutta la vita, Il primo uomo. In questo libro, rimasto incompiuto, pubblicato solo nel 1994, alla madre, icona degli ultimi, ai piccoli coloni, agli arabi poveri, egli offre una patria, la sola possibile, fragile, incompiuta, come tutto ciò che è umano.
-L’ultima domanda può apparire scontata. Come si può coniugare l’eredità di Albert Camus col prossimo futuro. Come sottrarre il suo magistrale insegnamento alla polverosità delle biblioteche.
Non c’è alcun bisogno di andare tra gli scaffali polverosi di una biblioteca in cerca degli scritti di Albert Camus. Nelle librerie, i suoi libri non mancano mai e, se c’è qualche vuoto sugli scaffali, viene subito riempito. Durante i mesi del covid, La Peste ha conosciuto un’impennata di vendite: seimila studenti delle superiori hanno letto e discusso il romanzo nella nuova traduzione presente nelle Opere complete, nelle quali figurano anche gli scritti giornalistici, che Bompiani periodicamente aggiorna.
Se le opere di Camus si continuano a leggere, se questo scrittore, a differenza di altri suoi contemporanei, trova sempre nuovi lettori tra la gente comune, significa che è sentito come un nostro contemporaneo, qualcuno con cui entrare in dialogo, qualcuno che ha ancora molto da dirci. I suoi scritti nutrono la nostra capacità di indignarci, di opporci alle ingiustizie. In quelli giornalistici, in cui riflette sul lascito della Resistenza, riscopriamo le ragioni per opporci all’oppressione, alla rassegnazione, all’indifferenza. Del resto, la rivolta, la capacità d’indignazione, presente nei romanzi e negli scritti filosofici di Camus, non ha mai cessano d’ispirare uomini e donne in lotta contro regimi liberticidi o totalitari: nei paesi socialisti dell’est, in Spagna e, ai nostri giorni, in Russia, in Cina, ed ora, di nuovo, nella sua Algeria, investita negli ultimi anni da una nuova fase di terrorismo.
A conti fatti, la saggezza che c’è nei suoi scritti, semplice, «modesta», come amava definirla, può essere riassunta così: se non sappiamo dare agli uomini la felicità, possiamo almeno ridurne le sofferenze praticando la solidarietà: questo dovrebbe essere il fine stesso della politica. Per garantire oggi questo obiettivo minimo, Camus ce lo ricorda, occorre battersi per la pace, condizione preliminare di ogni politica. Concepire la pace significa smettere di guardare al mondo attraverso il prisma della guerra. Quello a cui assistiamo in Ucraina in questi atroci giorni sta mettendo a repentaglio l’intero lascito della civiltà europea: mobilitarsi in vista di una tregua civile, come Camus implorava nel cuore del dramma algerino, ritrovare le vie del dialogo è diventato per l’Europa un imperativo non più procrastinabile. Affinché la catastrofe, paventata da Camus al momento del lancio dell’atomica su Hiroshima e Nagasaki, non diventi oggi una ben più tragica realtà, visti i progressi nelle tecnologie militari, occorre che tutti i popoli della terra si mobilitino e impongano ai governanti di «scegliere definitivamente tra l’inferno e la ragione».
Domenico Canciani
Albert Camus, l’inferno e la ragione
2023, Castelvecchi