EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Ascoltare la narrazione dell’omicida

di Federica Biolzi

La narrazione è un punto di ingresso imprescindibile nella comprensione del fenomeno criminale. La Criminologia narrativa ci ha aiutato a fare numerosi passi in avanti in questo campo. Con Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, autori di Io volevo ucciderla, per una criminologia dell’incontro (Cortina Editore), abbiamo voluto approfondire questo interessante approccio.

Il vostro è, con evidenza, un libro ricco e interessante per i tanti spunti che fornisce al lettore in un campo spesso tanto citato come quello della criminologia. E’ il frutto, come ben evidenziato, anche di un approccio che definite interazionista radicale aperto a nuovi orientamenti quali la criminologia narrativa e quella filosofica. Aiutateci a orientarci in questi filoni di analisi.

– L’attenzione che abbiamo posto, fin da subito, alla dimensione esistenziale dell’agire umano, anche criminale, ci posiziona e ci avvicina in modo esplicito ad alcuni approcci che hanno provato a comprendere il “come” e il “perché” della violenza. In particolare, la tradizione dell’Interazionismo Simbolico, nella sua versione Radicale, rappresenta per noi la prospettiva fondante per articolare uno sguardo aperto al fenomeno violento, capace di osservare il mondo dalla prospettiva di chi compie gesti efferati. Su questo terreno, per noi vitale, si sono innestate due sensibilità del panorama criminologico internazionale. Ci riferiamo, innanzitutto, a quell’ambito di ricerche che si riconoscono sotto l’ombrello concettuale noto come Criminologia Narrativa (Presser and Sandberg 2015a; 2015b), e che individuano nelle “narrazioni” e nelle “storie” una dimensione essenziale per comprendere e spiegare le condotte criminali. Il secondo innesto, più emergente ed embrionale, è stato definito con l’espressione Criminologia Filosofica (Millie, 2016). Con quest’ultimo orientamento, si intende dare rilevanza alle connessioni tra l’interrogarsi filosofico e l’indagine criminologica, intesa quale ricerca delle ragioni alla base del comportamento criminale. La direzione scelta è stata dunque quella di avvicinare, con una sensibilità “narrativa”, le storie di vita di coloro che nel corso delle loro esistenze hanno agito la violenza, e di intercettare i processi che le accompagnano dal punto di vista dell’immagine di sé, dell’interazione sociale, e da quello simbolico e culturale. Sono queste le coordinate che, a nostro avviso, possono diventare un vero e proprio punto di svolta utile per (ri)orientare la nostra visione su un tema così difficile da osservare.

Più analiticamente, il nostro obiettivo è stato quello di ascoltare i vissuti dei loro autori per comprendere cosa pensano e cosa provano anche in termini di emozioni prima, durante e dopo l’agire violento. Per noi, comprendere le biografie e le narrazioni di chi ha commesso gesti atroci significa, per prima cosa, ascoltare i loro vissuti, e mettere a fuoco le lenti cognitive, emotive, mnestiche e culturali che organizzano le loro esperienze sociali violente. Prestare ascolto al materiale narrativo raccolto attraverso lo strumento (e la forma) dell’intervista in profondità – riconoscendo alle parole del narratore/“io narrante” una potenzialità euristica pari o talvolta più ricca di quella delle narrazioni “scientifiche” – permette di illuminare i nessi che intercorrono tra alcune dimensioni cruciali che si situano nel cuore delle azioni violente: i processi interpretativi, i flussi emozionali, il terreno del conflitto, le dimensioni culturali. Si tratta, in altre parole, di provare a intravedere quei processi psico-sociali che animano e muovono condotte che, per la loro efferatezza, introducono quote di opacità e zone d’ombra che chiedono di essere avvicinate.

In questo volume, avete utilizzato la voce narrante di una donna omicida,  Stefania Albertani, incontrata durante il periodo pandemico all’interno della casa di reclusione di San Vittore. Perché questa scelta?

– La narrazione-intervista con Stefania Albertani si inserisce – lo ricordiamo – in un percorso di ricerca che abbiamo intrapreso, congiuntamente, nel 2018 presso la Casa Circondariale di San Vittore a Milano, al fine di esaminare empiricamente le ipotesi sviluppate negli anni successivi alla pubblicazione del nostro libro intitolato Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali (Cortina, 2009).

Grazie alla disponibilità del Direttore del carcere di San Vittore, Giacinto Siciliano, abbiamo potuto individuare quattro autori di omicidi o tentati omicidi, commessi rispettivamente da due maschi, una transessuale e una donna. Tutte le interviste svolte con queste persone hanno fornito svariati elementi in grado di suffragare le nostre ipotesi iniziali. È però nel corso degli incontri con Albertani che è maturata – in ragione della potenza trasformativa che ha contrassegnato l’evoluzione dei colloqui – la volontà condivisa di rendere pubblico il contenuto dei nostri dialoghi, destinato inizialmente a dover rimanere confidenziale, fatta eccezione per quei frammenti narrativi necessari per vagliare la consistenza della nostra ipotesi teorica.

A partire dal mese di gennaio del 2020, i primi tre colloqui con Stefania Albertani si sono svolti in una stanza accogliente – pur in una istituzione tradizionalmente “inospitale” quale è il carcere – all’interno della Sezione femminile della Casa Circondariale di San Vittore. Dopo una pausa forzata durata più di tre mesi dovuta all’esplosione dell’emergenza pandemica da Covid-19 e l’inizio del lockdown, gli incontri successivi sono avvenuti tutti da remoto, garantendo anche in questo nuovo “setting” uno spazio il più possibile protetto e sensibile. Durante gli undici incontri, abbiamo costantemente e attivamente accompagnato Albertani a ripercorrere nell’interezza il cammino che, a partire da alcuni episodi dell’infanzia – via via più nitidi e riconoscibili nella sua mente –, è sfociato nell’attacco violento agito nei confronti della sorella.

Occorre ribadire che l’obiettivo principale del nostro lavoro è, anzitutto, quello di immettere l’intervistato/a in un flusso narrativo per lui/lei significante, affinché possa entrare in contatto, riflessivo, con la propria verità narrativa, su di sé e sul fatto.

Tra i molti punti di interesse della storia di Stefania Albertani, vi è certamente il fatto che il “caso Albertani” riguarda l’attacco mortale al corpo di una donna da parte di un’altra donna. La ricerca criminologica insegna, inequivocabilmente, che questo crimine non è statisticamente significativo. Il fatto che gli uomini delinquano più delle donne – il cosiddetto fenomeno del gender gap – è una delle (poche) certezze granitiche della ricerca in questo campo.

Sappiamo che quando le donne entrano nel frame crimine nel ruolo di autrici di reato sorgono dibattiti – soprattutto a livello mass-mediatico – su come siano diventate sempre più capaci di avventurarsi nel mondo della trasgressione violenta, propria del comportamento maschile. In questi casi si scontrano letture che valorizzano l’agency femminile con quelle che adottano una prospettiva definibile come “anti-agentic “(Kruttschnitt, C. & Carbone‐Lopez, K. 2006), che nega alle donne la possibilità di giocare un ruolo attivo anche nell’agire criminale.

Il nostro approccio interazionista radicale e la metodologia di intervista adottata, dando rilevanza ai pensieri e alle emozioni di chi vive in prima persona e come attore l’esperienza della violenza quale attacco al corpo, ha mostrato come sia possibile inaugurare una strada per valorizzare il ruolo attivo e riflessivo – che richiama il piano dell’“agency” – anche della donna che commette un reato, sfidando quelle narrazioni processuali, mediatiche e scientifiche che leggono i comportamenti criminali femminili unicamente come patologici  o disfunzionali rispetto a dei modelli culturali profondamente radicati nell’immaginario sociale.

Il cercare di comprendere gli atti violenti apparentemente insensati è una delle opzioni di ricerca che avete fatto in questa opera. In particolare nell’ evitare la netta cesura tra l’ambito intrapsichico e quello sociologico. Cosa ha comportato questa scelta?

– Entrambi lavoriamo da anni sul tema della violenza a partire da una prospettiva criminologica che prendere le distanze da letture eccessivamente lineari che individuano nella (psico)patologia o, viceversa, nella patologia sociale la causa principale all’origine di condotte violente difficilmente comprensibili. Attingendo all’Interazionismo radicale (Athens 1992, 1997, 2007, 2015, 2017), nel corso delle nostre ricerche abbiamo provato a comprendere e a dare un senso ad atti violenti apparentemente “insensati”, lasciandoci definitivamente alle spalle quel modo di pensare binario che vede le dimensioni psicologiche (Sé, emozioni) e quelle sociologiche (socialità, dominio, genere, classe) come ermeticamente separate (Gadd e Corr 2015). Al contrario, abbiamo suggerito che le persone sono irriducibili all’ambito intrapsichico o, viceversa, a quello sociale. Di più: sono attori – nel senso che prendono parte attiva e diretta a una vicenda della vita reale – in grado di esercitare un certo grado di auto-riflessione che restituisce loro una capacità di scelta – sebbene in circostanze che la delimitano – in relazione ai loro mondi interni ed esterni.

Ancora, noi sosteniamo che ogni attore sociale (violento o non) costruisce, nel corso della sua esistenza, una vera e propria “cosmologia”, che altro non è che un tentativo di creare un possibile ordine e una trama narrativa nei suoi universi personali – simbolici, emozionali, etici e normativi –, nel mezzo del caos e dell’ordine dei mondi socio-culturali. Questa ricerca individuale non è isolata dal resto della vita e non avviene in una sorta di “terra di nessuno” ma è, al contrario, “situata”. Detto altrimenti, la conoscenza di sé stessi è il risultato di un processo basato sulle nostre negoziazioni riflessive con altri attori sociali in contesti situazionali che sono strutturati in termini di dominio. L’ordine viene così ricreato continuamente nell’interpretazione delle situazioni, nella preparazione di un atto, nella sperimentazione del proprio corpo e di quello dell’altro, nell’uso di un vocabolario personale e nell’esecuzione più o meno sistematica di determinati comportamenti. L’ordine – infine – trova espressione nella classificazione morale degli esseri umani. Tutto ciò significa che mentre noi ci raccontiamo la nostra storia, stiamo al tempo stesso lottando per creare il nostro universo.

Cito una frase del testo che mi ha particolarmente colpito: “L’esito brutale è sempre figlio di una complessa articolazione di elementi, in divenire e in costante interazione […] fino alla performance finale”. Aiutateci a comprendere meglio questo processo.

– Questa domanda riguarda il core del nostro pensiero. Come si sarà inteso, noi siamo ben lontani da ogni pretesa “eziologica”, e ci dirigiamo verso un paradigma “processuale”, che individua nel percorso di “violentizzazione” quel cammino che conduce una persona inizialmente non violenta – per esempio un adolescente che proviene da una famiglia normo-costituita, e che frequenta con profitto la scuola di un quartiere problematico – a diventare un “pericoloso criminale”. Le fasi di questo cammino possono essere immaginate come una serie di stanze, ognuna delle quali ha due porte, una di entrata (verso la costruzione di un Sé violento) e l’altra di uscita. Per arrivare all’ultima – che corrisponde a una identità di sé violenta – bisogna passare attraverso ciascuna delle precedenti, ma vi è anche la possibilità che non vi si giunga mai. Tenendo conto di questa complessità, se nel corso della vita il – quel centro di convergenza, rifrazione e orientamento attraverso il quale leggiamo riflessivamente (ma mai in modo del tutto “trasparente”) noi stessi e il mondo esterno – non “slitta”, attraverso interazioni significative e prolungate nel tempo, verso una composizione valoriale e simbolica di segno violento, l’attore potrà continuare a rivolgersi in modo sufficientemente consonante, in situazioni critiche, frasi del tipo: “Lascia perdere gente come questa!”. Ma dopo essersi inoltrato in un percorso di “violentizzazione”, aver internalizzato “altri-significativi” brutali e/o aver interpretato drammaticamente una certa situazione (per esempio una grave minaccia) un individuo potrà, rimanendo sempre in ascolto di sé stesso, offrirsi frasi del tipo: “Fallo a pezzi senza pietà!”.

Il libro pone, tra l’altro la questione, di grande attualità, della Giustizia riparativa. Si tratta di un percorso non facile e anche a volte di difficile accettazione. Perché intraprenderlo? A che prezzo e con quali benefici?

– La risposta a questa domanda la vogliamo legare proprio alla vicenda di Stefania Albertani. La Giustizia riparativa – ormai è noto – è un modello di giustizia contraddistinto dal prendersi cura delle conseguenze negative prodotte da un fatto di reato, dal promuovere la rigenerazione dei legami sociali a partire dalle ferite che l’illecito ha originato, e dal favorire un ruolo attivo alle vittime, ai rei e alle comunità,nella ricerca di possibili soluzioni per riparare il danno e per ricomporre la frattura sociale prodotta dal gesto deviante. Si tratta, dunque, di un paradigma che prova a superare la logica del castigo, muovendo da una lettura relazionale del fenomeno criminoso, inteso primariamente come un conflitto che provoca la rottura di aspettative sociali simbolicamente condivise.

Negli ultimi anni abbiamo maturato definitivamente la convinzione che le pratiche di Giustizia riparativa, in generale, e di mediazione – identificate qui soprattutto nel momento puntuale del colloquio diretto, faccia a faccia, tra le parti – possano (rectius: debbano) essere precedute, quando si tratta di casi gravi quali i crimini violenti, da un lavoro individuale – diverso dalla psicoterapia, naturalmente – da svolgere entrando in dialogo con chi ha attaccato il corpo di un’altra persona. Va (quasi) da sé che il medesimo lavoro possa (debba) essere svolto anche con chi la violenza l’ha subita. Intervistando Albertani abbiamo avvicinato la genesi e le fasi di evoluzione della sua cosmologia violenta, fino a raggiungere l’istante in cui ha preso corpo la volontà di uccidere. La conquista di questa consapevolezza rappresenta il vertice del suo percorso auto-riflessivo e di auto-responsabilizzazione. È a partire da quel turning point, infatti, che Stefania ha iniziato a intravedere dentro di sé una possibile transizione dalla “morale della colpa” a un “etica del danno”, costituita da quelle pratiche di Giustizia riparativa che – solo giunti a questo punto – sono divenute per lei comprensibili e concretamente percorribili. È proprio la maturazione riflessiva avvenuta nel corso dei colloqui ad aver generato in lei un “desiderio ragionato” di trovare possibili forme di riparazione quali contrappunti al gesto omicida.

Ciò che più conta è che nella nostra visione, sia nelle “interviste trasformative” – e quella condotta con Albertani è un esempio paradigmatico –, così come negli eventuali successivi incontri di mediazione tra reo e vittima, la “responsabilità” diventa qualcosa di più e di diverso dalla presa di consapevolezza che le scelte operate tramite il gesto violento erano riprovevoli e non dovevano accadere. Favorire e sostenere una responsabilità “riflessiva” significa, diversamente, riconoscere e rispettare l’unicità delle cosmologie degli attori violenti aiutando, chi ne è proprietario, a promuovere uno slittamento del suo parlamento interiore, affinché possa ospitare altre/nuove parole in grado di esprimere ciò che non può esprimersi in quelle esistenti. Senza l’assunzione di una “responsabilità riflessiva” da parte del reo (e della vittima) per le sue azioni dannose, è improbabile che un “semplice” dialogo con la vittima riesca a proiettare le parti verso un esito trasformativo e neppure ad attivare in loro cambiamenti significativi nelle modalità di gestione dei conflitti che siano alternative all’uso della violenza.


Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali

Io volevo ucciderla

Per una criminologia dell’incontro

2022, Raffaello Cortina Editore

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