EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Bateson e Winnicott: il gioco e i mondi intermedi

 

di Alfonso Maurizio Iacono

 

Ripropongo qui un argomento che ho già affrontato in anni precedenti a proposito della mia teoria dei mondi intermedi (Iacono, 2005; 2010). In essa è centrale la teoria del gioco di Gregory Bateson che qui metto in relazione con la teoria del gioco di Donald Winnicott. I bambini giocano non solo perché si divertono, ma anche e soprattutto perché apprendono ad entrare e ad uscire dalle cornici di senso. Questo vale, come ha mostrato proprio Bateson, anche per i cuccioli dei mammiferi superiori e non saprei dove segnare il confine della scala evolutiva. È comunque grazie a questo procedimento sociale e interattivo che le bambine e i bambini come le donne e gli uomini, i cuccioli come i mammiferi adulti, creano i mondi intermedi, mondi che imitano altri mondi ma che, nello stesso tempo, diventano creativamente autonomi. Il mordicchiare del gattino che gioca con un altro gattino è l’atto che, limitando un’azione (un mordere – non mordere) e collocandola nell’unità degli opposti, dà senso all’universo del gioco in quanto distinto da quello del non gioco.

Gregory Bateson tende a interpretare il gioco come mimesi, anche se tale interpretazione comporta, a sua volta, un’idea particolare di mimesi, che si presenta come un riferimento rispetto a cui può prendere corpo la nozione di differenza. Imitare una guerra per gioco, non significa fare la guerra, ma fare, per così dire, la non-guerra. L’imitazione della guerra, infatti, è come una copia che non intende confondersi con il modello, ma che anzi se ne vuole distinguere per differenza. E poiché noi sappiamo che, per Bateson, la differenza ha a che fare con l’informazione, una copia che implica in sé, in quanto copia, la differenza dall’originale, comporta sia informazione sia comunicazione:

 

“…per creare una differenza occorrono almeno due cose. Per produrre notizia di una differenza, cioè informazione, occorrono due entità (reali o immaginarie) tali che la differenza tra di esse possa essere immanente alla loro relazione reciproca: e il tutto deve essere tale che la notizia della loro differenza sia rappresentabile come differenza all’interno di una qualche entità elaboratrice di informazioni, ad esempio un cervello, o forse un calcolatore. Vi è un problema profondo e insolubile a proposito della natura di quelle ‘almeno due’ cose che tra loro generano la differenza che diventa informazione creando una differenza. È chiaro che ciascuna di esse, da sola, è – per la mente e la percezione – una non-entità, un non-essere. Non è diversa dall’essere e non è diversa dal non-essere: è inconoscibile, una Ding-an-sich, il suono dell’applauso di una mano sola. La materia prima della sensazione, dunque, è una coppia di valori di una qualche variabile, presentati in un certo arco di tempo a un organo di senso la cui risposta dipende dal rapporto tra i due elementi della coppia” (Bateson, 1979).

 

Ora, l’idea di Bateson di concepire il gioco entro il rapporto fra mimesi e differenza deve essere messa in relazione con la terza area di Winnicott.

Cos’e’ la terza area di Winnicott?

Nello scritto La sede dell’esperienza culturale, Winnicott (1971) fa riferimento a una poesia di Tagore (1990), o, più precisamente, a una parte di Gitanjiali: “Sulla spiaggia di mondi senza fine, i bambini si incontrano”. Essa, secondo Winnicott, significa: il mare e la spiaggia rappresentano gli infiniti rapporti tra uomo e donna; il bambino emerge da questa unione e, dopo un breve momento, diventa a sua volta adulto e genitore. L’interpretazione che Winnicott dà di Tagore porta a fare emergere il punto di vista del bambino, che è qualcosa di diverso da quello della madre e da quello dell’osservatore:

 

“ci potrebbe essere un punto di vista non complesso da parte del bambino, un punto di vista differente da quello della madre e dell’osservatore, e questo punto di vista del bambino potrebbe essere utilmente preso in esame. Per lungo tempo la mia mente rimase in una condizione di non-sapere, e questa condizione si cristallizzò nella mia formulazione di fenomeni transizionali. Nel frattempo giocavo con il concetto di ‘rappresentazioni mentali’, e con la descrizione di queste in termini di oggetti e di fenomeni situati nella realtà psichica personale ritenuta interna; inoltre ho seguito l’effetto di come operino i meccanismi mentali della proiezione e dell’introiezione. Mi sono reso conto, tuttavia, che il gioco non è di fatto una questione di realtà interna, e neppure una questione di realtà esterna” (Winnicott, 1971).

 

Per Winnicott il gioco è, dunque, in quel momento in cui il bambino è bambino, qualcosa di diverso dalla sua realtà interna, così come dalla sua realtà esterna. Ma dov’e’ allora il gioco? Esso si trova nel terreno comune tra bambino e madre, in un contesto dove unione e separazione tra bambino e madre coesistono. Un terreno comune dove il rapporto madre-bambino è costruito su una “separazione che non è una separazione ma una forma di unione” (Winnicott, 1971). È in tale spazio che acquista significato il ruolo dell’oggetto transizionale, cioè nel terreno comune in cui separazione e unione coesistono e caratterizzano la terza area che mette in relazione bambino e madre.

L’oggetto transizionale che determina la differenza tra il Sé e il non-Sé, “è nel luogo, in termini di spazio e tempo, in cui la madre è in transizione dall’essere, nella mente del bambino, fusa col bambino, all’essere per contro vissuta come un oggetto che viene percepito piuttosto che concepito. L’uso di un oggetto simbolizza l’unione delle due cose ora separate, il bambino e la madre, al punto, in termini di spazio e di tempo, in cui ha inizio il loro stato di separazione”. (Winnicott, 1971).

Sia nella teoria del gioco di Gregory Bateson sia in quella di Winnicott sono centrali la relazione, il riconoscimento e il contesto. Inoltre, identità e alterità coesistono nello spazio e nel tempo. È la relazione in cui essere e non essere stanno insieme.

Sia la cornice di Bateson e sia la terza area di Winnicott implicano il mantenimento di unione e separazione, di identità e alterità.

 

Bateson indica tre tipi di messaggi animali:

1) i messaggi in quanto segni d’umore;

2) i messaggi che simulano segni d’umore (gioco, minaccia, istrionismo);

3) i messaggi che permettono di distinguere tra segni di umore e segni che imitano i segni di umore.

Il messaggio “Questo è un gioco” è del terzo tipo (Bateson, 1972). Esso permette di comprendere che la mimesi è appunto mimesi di qualcosa o di qualcuno (e non è il qualcosa o il qualcuno). Permette di accettare la mimesi come forma di comunicazione senza perdere di vista la cornice. Un po’ come il quadro di Magritte Condition Humaine, del quale il pittore dice:

 

La condizione umana fu la soluzione al problema della finestra. Misi di fronte a una finestra, vista dall’interno d’una stanza, un quadro rappresentante esattamente la parte di paesaggio nascosta alla vista dal quadro. Quindi l’albero raffigurato nel quadro nascondeva alla vista l’albero vero dietro di esso, fuori della stanza. Esso esisteva per lo spettatore, per così dire, simultaneamente nella sua mente, come dentro la stanza nel quadro, e fuori nel paesaggio reale. Ed è così che vediamo il mondo: lo vediamo come al di fuori di noi anche se è solo d’una rappresentazione mentale di esso che facciamo esperienza dentro di noi. Allo stesso modo a volte situiamo nel passato una cosa che accade nel presente. Il tempo e lo spazio perdono così il loro significato grossolano, l’unico di cui l’esperienza quotidiana tenga conto” (Magritte, in Gablik, 1988).

 

In questo gioco di mimesi, nascondimento, differenza fra modello e rappresentazione, nella messa in evidenza del contrasto tra spazio tridimensionale e tela piatta, Magritte aspira a mostrarci gli artifici e le ambiguità della rappresentazione. In un contesto simile, come ha osservato Michael Kubovy, la finestra funziona solo se non è del tutto trasparente: “per vedere il mondo dobbiamo percepire la finestra” (Kubovy, 1992). Magritte trasforma in rappresentazione artistica ciò che è oggetto di una ambiguità epistemologica. Siamo di fronte alla possibilità di distinguere concettualmente ed epistemologicamente tra illusione e inganno, una distinzione che troviamo già in Kant a proposito della poesia.

Scrive Kant:

 

“Vi sono alcune apparenze delle cose con le quali la mente gioca, ma dalle quali non è ingannata. Colui che le suscita non vuole, tramite loro, produrre errori negli incauti, ma verità; è una verità rivestita di una veste di apparenza, la quale non nasconde la sua stessa, più intima natura, ma la sottopone, abbellita, davanti agli occhi. Essa non inganna gli inesperti e i creduloni con ornamenti e illusioni, al contrario, con l’ausilio dei lumina sensuum, porta sulla scena, immersa nei loro colori, una scarna e arida apparenza di verità. Se in tali apparenze vi è qualcosa che, come si dice comunemente, inganna, dovrà piuttosto essere chiamata illusione” (Kant, in Kant/Kreutzfeld, 1998).

 

La distinzione tra illusione e inganno viene ulteriormente teorizzata e precisata nell’Antropologia pragmatica a proposito del gioco: “Illusione (illusio) è quel gioco che rimane anche quando si sa che il presunto oggetto non è reale […] L’inganno dei sensi invece si produce quando, appena si sa come è il rapporto con l’oggetto, anche l’apparenza viene a cessare” (Kant, 2001).

Il gioco, in quanto mimesi, può essere considerato un’illusione, ma non un inganno: in Bateson, la differenza consiste nel fatto che nell’illusione è presupposta la percezione consapevole del contesto, mentre nell’inganno è al contrario esclusa la percezione del contesto.

Si può interpretare la riflessione di Winnicott sul gioco e sulla relazione primaria madre-bambino, immaginando che il ruolo della madre è quello di insegnare al bambino la distinzione tra illusione e inganno come momento necessario per lo sviluppo dell’autonomia di quest’ultimo. Autonomia nella relazione, dove “il compito della madre è di disilludere gradualmente il bambino, ma essa non ha speranza di riuscire a meno che non sia stata capace da principio, di fornire sufficiente opportunità di illusione” (Winnicott, 1971). Nella dialettica illusione-disillusione dove la presenza della madre comincia a determinare la capacità del bambino di stare solo ma senza che ciò implichi una perdita della relazione, può riscontrarsi l’inizio della distinzione kantiana tra illusione e inganno che si svilupperà poi nel processo di maturazione emotiva e intellettuale e di autonomizzazione del bambino, in grado ormai di attraversare i mondi intermedi di quelle diverse realtà che Winnicott concepisce come illusioni condivise. “Sto studiando la sostanza della illusione, quella che viene concessa al bambino e che, nella vita adulta, è parte intrinseca dell’arte e della religione, e che tuttavia diventa il marchio della follia allorché un adulto pone un eccesso di richieste alla credulità degli altri costringendoli a condividere un’illusione che non è quella loro”. (Winnicott, 1971). Porre un eccesso di richieste alla credulità degli altri implica il fatto che vi possano essere richieste non eccessive, compatibili con quella che Coleridge a proposito della poesia ha chiamato “temporanea sospensione dell’incredulità” e che è ciò che noi facciamo normalmente quando entriamo in un mondo intermedio, per esempio quello dell’arte.

La distinzione concettuale tra illusione e inganno implica dunque un disporsi diversamente da un punto di vista cognitivo quando si è coinvolti emotivamente e intellettualmente nella rete di relazioni della cosiddetta realtà. L’apprendimento è anche la capacità di saper entrare nelle illusioni rimanendo se stessi. In questo senso l’apprendimento è apprendimento della propria autonomia in mondi di illusioni condivise. In ciò consiste la sua verità.

Bisogna a questo punto mettere in relazione e comparare il concetto di terza area di Winnicott con il concetto di terzo tipo di messaggi di Bateson. Bisogna cioè mettere in relazione e comparare l’illusione e la capacità di star soli in presenza della madre secondo Winnicott con la cornice e il “questo è un gioco” secondo Bateson.

Rispetto alla riflessione di Bateson a proposito di illusione, tuttavia, il concetto di terza area di Winnicott segnala una diversità. Nel gioco secondo Bateson vi è un’accettazione consapevole dell’illusione, così come può accadere nella poesia, a teatro o a cinema: la cornice o il contesto sono sia avvertiti sia non avvertiti. Nella relazione tra bambino e madre secondo Winnicott, l’illusione vissuta dal bambino in un certo senso sembra precedere la condizione descritta da Bateson a proposito del gioco.

Secondo Winnicott, i fenomeni transizionali costituiscono la fase di apprendimento del bambino all’uso dell’illusione ed è fondamentale perché lo aiuta a mediare fra il suo primordiale senso soggettivo di onnipotenza e la prova della realtà oggettiva. “L’area intermedia a cui io mi riferisco – scrive Winnicott – è l’area che è consentita al bambino tra la creatività primaria e la percezione oggettiva basata sulla prova di realtà. I fenomeni transizionali rappresentano i primi stadi dell’uso dell’illusione, senza la quale non vi è significato per l’essere umano nell’idea di un rapporto con un oggetto che è percepito dagli altri come esterno a quell’essere umano”. (Winnicott, 1971). Da questo punto di vista, il gioco nel senso di Bateson, dove vi sono già le capacità dei partecipanti di fare metacomunicazione, di comunicarsi fra loro cioè la frase “questo è un gioco” e poi, in una dimensione ancora più complessa e avanzata, la frase “questo è un gioco ?”, appartiene a uno stadio più avanzato dello sviluppo della facoltà di apprendimento e di comunicazione: esso presuppone un’autonomia dei partecipanti che non si dà ancora nella relazione madre-bambino secondo Winnicott, il cui scopo è appunto la formazione dell’autonomia del bambino. Un’autonomia che si crea all’interno della relazione stessa che è destinata a mutare pur restando tale.

Tenendo conto di quanto accennato finora, si può ipotizzare che il messaggio “questo è un gioco” sia alla base di ciò che può essere provvisoriamente chiamato coinvolgimento consapevole, dove la cornice è, nello stesso tempo, avvertita e non avvertita.

Il coinvolgimento consapevole, a sua volta, potrebbe trarre origine dalla capacità del bambino di star solo in presenza della madre, in una relazione dove l’aspetto illusorio a cui è sottoposto il bambino gioca un ruolo decisivo nel processo di apprendimento e di autonomizzazione che, a loro volta, si caratterizzano nella facoltà di saper creare e attraversare i contesti.

Se dunque si colloca il concetto di terza area di Winnicott in una fase dell’evoluzione dell’apprendimento e dell’autonomizzazione precedente al concetto di cornice/contesto secondo Bateson, se cioè teniamo conto di questa differenza, allora forse è possibile mettere in relazione un momento decisivo della riflessione teorica sull’apprendimento e l’autonomia.

L’unione-separazione secondo Winnicott è infatti epistemologicamente analoga alla cornice che è avvertita e non avvertita secondo Bateson. 

Dove non c’è possibilità di controllo del coinvolgimento nell’illusione, ci si avvicina all’inganno oppure al delirio e alla follia. Quest’ultima può dipendere dal fatto che l’illusione non è condivisa, perché non viene percepito il gioco unione-separazione e, di conseguenza, la cornice non viene percepita.

L’illusione, concepita nei termini della terza area di Winnicott e/o dei messaggi del terzo tipo di Bateson, sembra corrispondere ai processi di organizzazione e di autorganizzazione metaforica degli universi di significato che determinano la comunicazione.

L’apprendimento è tale se si sviluppa in ciò che si potrebbe chiamare pratica dell’illusione e che tutti sperimentiamo a partire dai racconti di fiabe e di miti. Questi infatti altro non sono che storie di credenze condivise grazie a cui ci addestriamo al principio di realtà, imparando a distinguere tra le diverse accezioni che assume il concetto di verità. Tutto ciò presuppone il fatto che è errato identificare illusione con inganno, mentre è più interessante mettere in relazione l’illusione con la verità attraverso l’apprendimento della pratica del coinvolgimento consapevole. È su questo terreno che si misura la pratica dell’autonomia all’interno della complessità delle relazione in cui siamo immersi e dentro cui riusciamo perfino a essere soli.

 

 

 G.Bateson, A Theory of play and Fantasy, in Steps to an Ecology of Mind, Chandler, San Francisco 1972 (Trad. it., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976).

G. Bateson, Mind and Nature. A Necessary Unity, Dutton, New York 1979 (Trad. it., Mente e Natura, Adelphi, Milano 1984).

A.M. Iacono, Universi di significato e mondi intermedi, in A.G. Gargani, A.M. Iacono, Mondi intermedi e complessità, ETS, Pisa 2005.

A.M. Iacono, L’illusione e il sostituto, Bruno Mondadori, Milano 2010.

I.Kant, Inganno e illusione, in Kant/Kreutzfeld, Inganno e illusione, Guida, Napoli, 1998.

I.Kant, Antropologia pragmatica, § 13, Laterza, Roma-Bari, 2001.

M.Kubovy, La freccia nell’occhio, Muzzio, Padova, 1992.

R.Magritte in S.Gablik, Magritte, Rusconi, Milano, 1988.

R.Tagore, Gitanjiali, 60, in Poems-Poesie, Mursia, Milano, 1990, pp. 86-87.

D.W. Winnicott, Playing and reality, Tavistock, London 1971 [Trad. It. Gioco e realtà, Armando, Roma 1974.

 

 

 

 

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