di Gianfranco Giudice
“Le differenze tra essenza ed apparenza, causa ed effetto, sostanza ed accidente, necessario e contingente, speculativo ed empirico non istituiscono due sfere e due mondi, – un mondo soprasensibile, a cui appartiene l’essenza, ed un mondo sensibile e cui appartiene l’apparenza; queste differenze sono tutte comprese nell’ambito della sensibilità stessa”
Feuerbach, La filosofia dell’avvenire
- La domanda
Siamo abituati a pensare alla filosofia come ad una attività intellettuale che di tutto si occupa tranne che del corpo; il grande Platone non ci ha insegnato forse che la filosofia è educazione alla morte, proprio perché il corpo (sòma) è tomba (sèma) dell’anima? Dunque, la filosofia non è principalmente educazione dell’anima, ovvero psicagogia ?
In effetti una lunga tradizione, il filone principale della tradizione del pensiero occidentale che ha la sua genesi in Grecia, ci ha insegnato a partire dalla riflessione socratico – platonica che l’essenza dell’uomo è la sua anima, la sua dimensione interiore. Pensiamo poi alla traduzione del pensiero greco nella filosofia cristiana che porterà ad una sostanziale dimenticanza del dogma della resurrezione del corpo. In particolare S. Agostino afferma che l’anima è il riflesso dell’eterno nella temporalità; dice infatti il Vescovo di Ippona: “Noli foras ire, in te redi, in interiore homine habitat veritas “. Una intera tradizione di pensiero si sviluppa a partire da queste premesse; possiamo dire che la grande tradizione del pensiero filosofico e scientifico dell’Occidente trova nell’idea della verità come certezza (soggettiva, interiore) una delle proprie radici fondamentali. Oltre che all’aspetto teoretico, dobbiamo anche pensare alle enormi conseguenze che la sopravvalutazione dell’anima e la svalutazione del corpo avrà sul piano della pratica, ovvero dell’agire individuale e collettivo.
Tornando alla domanda che ci siamo posti inizialmente, possiamo dunque affermare che la filosofia si occupa del corpo fin dal suo sorgere. La filosofia pensa il corpo e la corporeità non solo per la ragione banale che la filosofia essendo esercizio del pensiero può pensare tutto, ma soprattutto perché è a partire dalla individuazione di strategie teoretiche rispetto al corpo che sorge il pensiero filosofico. Dove per corpo possiamo intendere non solo il corpo vivente, bensì hobbesianamente l’essere e la realtà stessa.
E’ fondamentale per introdurre la filosofia del corpo procedere ad alcune precisazioni terminologiche; dobbiamo distinguere il corpo come semplice oggetto (korper), rispetto al corpo inteso come presenza soggettiva ( Leib ). Il termine Leib fa riferimento all’unità profonda del corpo vivente , dell’uomo inteso come intreccio fra coscienza di sé e apertura agli altri. Nella lingua ebraica dell’ Antico Testamento troviamo la parola bàsar per indicare la carne, ciò che in greco indichiamo con la parola sàrx; il termine greco sòma indica invece il corpo vivente. L’ebraico nèfes indica non l’anima, bensì la vita intesa come bisogno e indigenza. Nefès e bàsar non sono per l’ebreo due componenti distinte dell’unità antropologica come lo sono psichè e sòma per il greco, ma sono due espressioni che nominano l’intero uomo sotto il profilo del suo bisogno e della sua indigenza (nefès) o della sua caducità e impotenza (bàsar). Non esiste pertanto nel linguaggio dell’Antico Testamento quel dualismo anima – corpo che interverrà successivamente, grazie all’influenza della filosofia greca e del platonismo in particolare. Il termine ebraico ruah, è reso in greco con il termine pneuma e in latino con spiritus; ruah non è attributo dell’uomo ma di Dio, un attributo che si partecipa all’uomo solo quando questi tiene fede alla sua alleanza con Dio.
Il termine che adoperiamo per nominare l’uomo è anche quello di “ persona “; persona è l’individuo, il suo corpo preso nella sua totalità così come in ogni sua parte. Persona è parola latina che deriva dall’ etrusco phersu (“maschera“); l’equivalente greco è pròsopon che significa “ faccia”, “volto“; la parola è usata solo per l’uomo. Nel Genesi (32, 31), versione dei LXX, troviamo usato proprio il termine greco nell’espressione : “ ho visto Dio faccia a faccia “. Il termine latino persona fa riferimento alla maschera teatrale, tuttavia è evidente il riferimento al corpo, in quanto la maschera è qualcosa di spirituale che aderisce al corpo. Persona e vita corporea si equivalgono, nel senso che possiamo affermare che il corpo è la persona dell’anima.
Si possono cogliere rispetto alla concezione del rapporto anima/corpo delle costanti, al cui interno si inscrivono le differenze nell’ambito della storia del pensiero filosofico occidentale. Come atteggiamento di partenza si può assumere l’elemento della dualità sostanziale tra spirito e corpo, offerto storicamente come abbiamo già detto da Platone e riproposto, seppur in termini diversi nell’ambito del materialismo meccanicistico, da Cartesio. In tal senso Platone e Cartesio rappresentano due momenti centrali nella storia del pensiero, rispetto alla dualità posta tra la dimensione del nous spirituale e la dimensione della corporeità.
- Platone e Cartesio
Platone scopre il soprasensibile, la dimensione metafisica, e su questa scoperta si incardina la concezione dell’immortalità dell’anima; infatti essendo la psiche simile alle idee eterne è anch’essa segnata dall’eternità. Riprendendo la tradizione orfica e pitagorica, Platone come abbiamo già detto definisce il corpo (soma) come tomba (sema) o prigione dell’anima. L’antropologia platonica è dunque segnata da una radicale negazione del corpo e dall’esigenza di una sua purificazione tramite il sapere filosofico. L’educazione per Platone è quel processo di progressiva ascesi ed elevazione dalla buia caverna del corpo alla luce solare della verità incorporea cui solo l’anima può accedere, come appare evidente nel famoso mito della caverna. Lo scritto paradigmatico per quanto concerne il dualismo platonico è il Fedone, dove per esempio possiamo leggere che “ se non è possibile conoscere nulla nella sua purezza mediante il corpo, delle due l’una: o non è possibile raggiungere il sapere, o sarà possibile solo quando si sarà morti: infatti, solamente allora l’anima sarà sola per se stessa e separata dal corpo, prima no . … E, così, liberati dalla stoltezza che ci viene dal corpo, come è verosimile, ci troveremo con esseri puri come noi e conosceremo, nella purezza della nostra anima, tutto ciò che è puro: questa è forse la verità “. Se passiamo a considerare il pensiero di Aristotele, possiamo vedere che lo Stagirita concepisce una unità organica tra anima e corpo; le categorie metafisiche di forma (anima) e materia (corpo) tradotte in termini antropologici non permettono di fatti di pensare l’anima dualisticamente separata rispetto al corpo, semmai si può pensare ad una distinzione di funzioni, non ad una separazione assoluta. Aristotele distingue all’interno dell’anima diverse funzioni ( vegetativa, sensitiva e razionale); il corpo è strumento naturale dell’anima, dunque è inestricabilmente legato con essa. Tommaso d’Aquino sarà profondamente influenzato da questa visione che tuttavia reinterpreterà alla luce del cristianesimo. Resta nella filosofia aristotelica dell’anima un punto poco chiaro, legato alla natura dell’anima razionale. Infatti per Aristotele esiste un intelletto agente e uno passivo; mentre il secondo è legato strettamente col corpo, del primo non possiamo dire esattamente la stessa cosa. Sembrerebbe infatti che quest’ultimo sia eterno e immortale, ed inoltre unico per tutti gli uomini. Per secoli questo aspetto della psicologia aristotelica sarà variamente interpretato, con esiti diversi circa la natura dell’intelletto agente che qualche pensatore identificherà con Dio o con una sostanza universale eterna, e altri come una sostanza individuale eterna. Indubbiamente la teoria aristotelica dell’intelletto agente sembra inficiare l’unità e l’organicità della sintesi anima – corpo, che pure costituisce l’elemento più importante e innovativo dell’antropologia aristotelica.
Leggiamo questo passaggio del De anima: “ Si è detto in generale cos’è l’anima, essa è sostanza nel sesno di forma e cioè quiddità di un corpo d’ una determinata qualità. … Il corpo è ciò che è in potenza, ma come l’occhio è pupilla e vista, così nel nostro caso l’animale è anima e corpo. Dunque che non sia separabile dal corpo l’anima – o alcune sue parti, se è per natura divisibile – non v’è dubbio: in realtà ci sono alcune parti dell’anima la cui entelechia è quella degli organi corrispondenti “ .
Tommaso d’Aquino rappresenta dal punto di vista dell’antropologia filosofica la sintesi tra la tradizione agostiniana della mens – sostanza spirituale e la tradizione aristotelica dell’anima – forma che Tommaso apprende grazie alla filosofia araba. La filosofia cristiana di Tommaso assume il principio dell’anima come forma sussistente, eterna, immortale; d’altro canto la tradizione aristotelica lo porta a pensare l’anima spirituale come forma corporis; l’intelletto agente è individuale ed eterno, intrecciato col corpo come dimostra la teoria della conoscenza tomistica. Infatti il processo di astrazione necessita del concorso dell’immaginazione, la cui origine sta nella sensazione. L’intelletto passivo è esattamente questa funzione astraente intrecciata con la corporeità. Se l’intelletto agente è immortale, quello passivo muore col corpo. Nel pensiero tomistico c’è dunque un tendenziale superamento della dualità anima- corpo, a favore di una visione secondo la quale il corpo dipende ed è intrecciato strutturalmente con l’anima; da questo punto di vista l’uomo è un essere cum – posito. Del resto Tommaso non può rinunciare al dogma cristiano della risurrezione del corpo dopo la morte, il che presuppone una visione della corporeità che in termini ontologici si differenzia nettamente da ogni dualismo. Basti ricordare che per Tommaso è la materia (materia signata ) il principio di individuazione della forma universale; dunque è il corpo ciò che rende l’individuo tale, nella sua irripetibile singolarità. Pertanto senza salvezza del corpo non potrebbe esserci salvezza dell’individuo; non basterebbe per questo l’immortalità dell’anima. A testimonianza della sintesi tomistica, per quanto concerne l’antropologia filosofica, possiamo leggere questo breve passo dalla Summa theologiae: “ L’intelletto umano si trova in una condizione intermedia: non è perfezione di un organo, però è la facoltà di un’anima, la quale è forma [ sostanziale ] di un corpo, come abbiamo dimostrato. Quindi è sua proprietà conoscere le forme che hanno una sussistenza individuale nella materia, ma non in quanto sono in una data materia. Ora, conoscere ciò che esiste in una data materia, non però come si trova in quella data materia, significa astrarre la forma della materia individuale, rappresentata dai fantasmi. Dunque è necessario concludere che il nostro intelletto conosce le cose materiali mediante l’astrazione dai fantasmi, e che da una siffatta conoscenza delle cose materiali possiamo raggiungere una certa conoscenza delle cose immateriali. Al contrario gli angeli conoscono le cose materiali per mezzo di quelle immateriali. Platone invece, considerando la sola immaterialità dell’intelletto umano, senza badare alla sua unione col corpo, conclude che le idee separate sono l’oggetto della nostra intelligenza; e che noi intendiamo non mediante l’astrazione, ma piuttosto col partecipare le idee astratte, come abbiamo riferito in precedenza “.
Per comprendere meglio la differenza tra il concetto di immortalità dell’anima, tipico della filosofia greca e del platonismo in particolare, e la fede cristiana nella risurrezione dei morti, rivolgiamo la nostra attenzione ad un testo celebre del teologo Oscar Cullmann, che si intitola proprio Immortalità dell’anima o risurrezione dei morti. Perché i due concetti sono presentati come alternativi ? Sono alternativi proprio perché implicano un diverso giudizio sulla corporeità, che nel caso del platonismo è negativo, mentre nel caso del cristianesimo (seppur con eccezioni nella storia dello stesso cristianesimo, basti pensare al misticismo e all’ascetismo) è positivo; sia perché il corpo è una creazione divina, sia perché senza la corporeità non c’è individualità e irripetibilità dell’esistenza, e dunque neppure libertà. Per il cristianesimo è la morte, non il corpo, che deve essere vinta dalla resurrezione grazie ad un nuovo atto creatore di Dio. Infatti resurrezione significa nuova creazione. Leggiamo questo passo di Cullmann: “ Nell’impressionante descrizione della morte di Socrate che Platone fornisce nel suo Fedone, leggiamo quanto di più sublime è stato mai scritto sull’immortalità dell’anima. … Non si può immaginare contrasto più grande di quello fra la morte di Socrate e la morte di Gesù. Come Gesù, il giorno della sua morte Socrate è circondato dai discepoli, ma discute con loro sull’immortalità con una serenità sublime; Gesù, poche ore prima della sua morte, trema, implora i suoi discepoli di non lasciarlo solo. […] L’ im – mortalità è in fondo un concetto negativo: l’anima non muore (continua semplicemente a vivere). La risurrezione invece, è un concetto positivo: l’uomo intero, che era davvero morto, è richiamato alla vita da u nuovo atto creatore di Dio. Avviene qualcosa d’inaudito. Un miracolo creatore. Perché prima era pure avvenuto qualcosa di orribile: una vita, creata da Dio, era stata distrutta. Per la Bibbia la morte in sé non è bella, e non è bella neppure la morte di Gesù “.
Nel nostro excursus sommario sulla filosofia del corpo, prendiamo adesso in considerazione Cartesio; il filosofo francese rappresenta infatti dopo Platone lo snodo fondamentale nell’ambito della storia della filosofia occidentale; egli elabora il paradigma filosofico fondamentale dell’età moderna per quanto concerne la dualità di carattere sostanziale fra anima e corpo. L’antropologia cartesiana assume il modello materialistico – meccanicistico come elemento interpretativo della realtà del corpo vivente, umano e non umano. Il principio della metafisica cartesiana, ovvero il Cogito , sulla base della regola dell’evidenza porta alla scoperta della dualità di sostanza tra res cogitans e res extensa. Le due sostanze sono indipendenti; se quello della res cogitans è il regno della libertà, quello della res extensa definisce la sua autosufficienza a partire dalla necessità meccanica. L’uomo è l’unico essere in cui le due sostanze trovano un seppur problematico e contraddittorio, punto di congiunzione. L’idea cartesiana del corpo macchina autosufficiente, autonomo nel suo funzionamento meccanico (da qui nasce l’idea del corpo come automa e degli animali come macchine semoventi ), porta al superamento della concezione del corpo inteso come strumento intrecciato con l’anima che abbiamo visto caratterizzare la tradizione aristotelico – tomistica. La scissione anima – corpo concepita ad Cartesio è tuttavia altra cosa da quella platonica, infatti per il filosofo francese la materia e il corpo sono sostanza autonoma e autosufficiente, dunque non sono macchiate dalla svalutazione ontologica, come invece accade in Platone e nel Neo – platonismo . Da qui partiranno nuove ed originali linee di ricerca sia in campo filosofico per risolvere il radicale dualismo cartesiano che scientifico con la nascita della medicina moderna. C’è tuttavia da precisare che in Platone e nella filosofia greca in generale il corpo, in quanto distinto dall’anima, mantiene una propria consistenza ontologica seppur degradata rispetto all’anima; inoltre il corpo costituisce per l’anima un limite insuperabile. Con la filosofia moderna, e grazie a Cartesio in particolare, avviene invece una esteriorizzazione del soggetto, ovvero una scorporazione dell’anima, in quanto ogni realtà diventa idea e rappresentazione del soggetto. La realtà viene insomma a coincidere con quella “immagine del mondo” che abbiamo costruito a partire dalla nostra anima. Scrive Cartesio nel Discorso sul medoto che “questa verità: Io penso, dunque sono, è così ferma e certa che non avrebbero potuto scuoterla neanche le più stravaganti supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accogliere senza esitazione come il principio primo della mia filosofia. Poi esaminando con attenzione ciò che ero, e vedendo che potevo fingere, sì, di non avere nessun corpo, e che non esistesse il mondo o altro luogo dove io fossi, ma non perciò potevo fingere di non esserci io, perché, anzi, dal fatto stesso di dubitare delle altre cose, seguiva nel modo più evidente e certo che io esistevo; … ne conclusi esser io una sostanza di cui tutta l’essenza o natura, consiste solo nel pensare, e che per esistere non ha bisogno di luogo alcuno, né dipende da cosa alcuna materiale. Questo che dico “io”, dunque, cioè, l’anima, per cui sono quel che sono, è qualcosa d’interamente distinto dal corpo, ed è anzi tanto più facilmente conosciuto, sì che, anche se il corpo non esistesse, non perciò cesserebbe di essere tutto ciò che è “. Nelle Passioni dell’anima, a conferma del rigido dualismo anima – corpo, possiamo invece leggere che “ …la morte non capita mai per colpa dell’anima, ma solo perché si corrompe qualcuna delle parti fondamentali del corpo. E il corpo di un uomo vivo differisce da quello di un morto, come un orologio, o un altro automa ( ossia una macchina che si muove da sé ), quand’è montato e che ha in sé il principio fisico dei movimenti per cui è fatto, con quanto è richiesto alla sua azione, è diverso dal medesimo orologio, o altra macchina, quando è rotto, è il principio del suo movimento smette di funzionare “.
- Spinoza e Leibniz
Se passiamo adesso a considerare il pensiero di Spinoza, troviamo un tentativo forte di risolvere il dualismo sostanziale posto da Cartesio tra res cogitans e res extensa, ponendo la dualità non a livello della sostanza, bensì degli attributi. Per Spinoza esiste un’unica Sostanza che coincide con Dio, la quale si differenzia in infiniti attribuiti, due dei quali sono al materia e il pensiero. Anima e corpo sono modi degli attributi pensiero e materia, radicati nell’unica sostanza divina. Anima e corpo sono come due facce della stessa medaglia, perché tra psiche e soma esiste un parallelismo che affonda le proprie radici nell’unica sostanza. Il meccanicismo cartesiano è fatto proprio da Spinoza per quanto attiene la materia e la natura, tuttavia l’ordine meccanico della natura ha come interfaccia l’ordine logico- razionale della mente e delle idee. Per Spinoza la mente non può che guardare naturalmente il corpo, e ad ogni fatto psichico corrisponde un fatto somatico e viceversa.
Leggiamo dall’ Etica quanto segue: “ L’oggetto dell’idea costituente la Mente umana è il Corpo, ossia un certo modo dell’Estensione, esistente in atto, e nient’altro “ ( Prop. XIII ); “ La Mente umana è atta a percepire moltissime cose, e tanto più è atta quanto più il suo Corpo può essere disposto in moltissimi modi 2 ( Prop. XIV ); “ La Mente umana non conosce il Corpo umano in se stesso né sa che esiste se non attraverso le idee delle affezioni dalle quali il Corpo è affetto “ ( Prop. XIX )
Leibniz va oltre il dualismo cartesiano proponendo una visione unitaria della realtà che ha il suo principio nel concetto di monade, centro di attività, forza ed energia. Spirito e materia sono costituite da monadi, seppur ad un grado diverso di consapevolezza e coscienza di sé (appercezione). Leibniz concepisce la monade come una sostanza semplice, simile all’ entelechia aristotelica; anche il monismo spinoziano viene superato, infatti le monadi sono una pluralità gerarchizzata. Le monadi possono essere semplici o composte in organismo assieme ad altre; nel primo caso abbiamo le sostanze spirituali, nel secondo le sostanze corporee. L’autosufficienza della monade, derivante dalla concezione leibniziana della sostanza, pone il problema del rapporto fra le monadi; questo problema viene risolto con la teoria dell’armonia prestabilita. Lo stesso rapporto anima – corpo va inquadrato all’interno della stessa teoria. In Leibniz corpo e anima si armonizzano come il piano delle cause efficienti e quello delle cause finali. Resta fermo il punto che sia l’anima che il corpo sono sostanza monadica.
Un tentativo di superamento del dualismo anima – corpo è compiuto dal filosofo inglese Berkeley, per il quale unica realtà è quella di Dio, e la materia per quanto possa sembrare paradossale, non esiste. Tanto le qualità primarie che quelle secondarie si riducono alla rappresentazione, cioè alla percezione; da qui il famoso principio della filosofia di Berkeley secondo il quale esse est percipi. La natura viene desostanzializzata, e il discorso sull’essere del corpo si riduce al suo esser – sentito. Berkeley fonda dunque l’ontologia sulla gnoseologia e in ultima istanza sulla teologia. Il filosofo inglese supera pertanto il dualismo cartesiano dalla parte della res cogitans, ma ancora più radicalmente dalla parte dell’unica realtà, Dio. Mentre per Spinoza Dio possiede anche l’attributo della materia, Berkeley attribuisce a Dio più tradizionalmente l’attributo della spiritualità; pertanto tutto è spirito, compreso il corpo.
- Hegel
La filosofia di Hegel rappresenta una grandiosa sintesi di pensiero, in particolare la filosofia dello spirito costituisce la sintesi consapevole di razionalità e realtà. Per Hegel la realtà è Concetto, ovvero Ragione concreta, il che comporta la negazione – superamento di quanto, essendo materialità e corporeità, non è e non potrà mai essere verità. Il corpo ha una funzione dialettica, in funzione del suo superamento – inveramento nella realtà dell’anima e soprattutto dello spirito. Il finito e il corpo in particolare, va superato (aufheben) nell’infinito. Il superamento è anche un conservare, seppure ad un livello più elevato di consapevolezza e verità. L’antropologia hegeliana si fonda sulla ragione negatrice di ogni esserci contingente, come è la corporeità. Per questo Hegel privilegia nell’uomo lo spirito, il sapersi dell’infinito e, quindi, la consapevolezza del finito come apparenza, fenomeno ( da qui il grandioso itinerario della Fenomenologia dello spirito) dell’infinito stesso. Da questo punto di vista, il corpo dell’uomo (Leib) come prima nell’ambito della natura il Korper e l’Organismus, viene negato e superato nell’ idealità. Possiamo dire insomma che in Hegel l’Idea si “ mangia “ la vita !
Leggiamo alcuni brevi passi tratti dall’ opera dove il filosofo di Stoccarda affronta in termini più ravvicinati il tema della corporeità, ovvero l ‘ Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio: “ Il sentire in genere è la sana convivenza dello spirito individuale nella sua corporeità. … I visceri ed organi sono considerati nella fisiologia solo come momenti dell’organismo animale; ma essi formano insieme un sistema della corporeizzazione della spiritualità e, per tal modo, ricevono anche un’interpretazione affatto diversa. […] L’anima, nella sua corporalità del tutto formata e resa sua propria, sta come soggetto singolo per sé; e la corporalità è per tal modo l’esteriorità in quanto predicato, nel quale il soggetto si riferisce solo a sé. … Per l’animale, la forma umana è il modo più alto in cui lo spirito gli appare. Ma, per lo spirito, al forma è solo completa. La figura è, sì, al sua prima esistenza, ma è insieme, nella sua determinazione qualcosa di accidentale. L’aver pensato di elevare la fisiognomica, e più ancora la cranioscopia, a scienze, è stato uno dei vuoti capricci che si possano concepire: ancor più vuoto della signatura rerum, mediante cui dalla figura delle piante doveva esser conosciuta la loro forza curativa. … In sé, la materia non ha nell’anima alcuna verità: in quanto per sé, l’anima si separa dal suo essere immediato e se lo pone di fronte, come corporeità, che non può fare alcuna resistenza al penetrare di lei. L’anima, che ha opposto a sé il suo essere, e lo ha superato e lo ha determinato come l’esser suo, ha perduto il significato di anima, dell’immediatezza dello spirito. […] Tale è la coscienza”.
Esiste nella tradizione filosofica occidentale anche una linea di pensiero che possiamo, semplificando le cose, definire in termini generali materialista; i pensatori che si rifanno a questo orizzonte teoretico superano il dualismo spirito – materia, e conseguentemente anima – corpo, dalla parte della materia e della corporeità, nel senso che l’unica realtà a cui tutto il resto variamente si riduce, è la materia e il corpo. Il primo filosofo che ricordiamo questo proposito e l’inglese Hobbes, per il quale l’unica realtà è il corpo, sia esso naturale o artificiale come lo Stato. L’essere coincide col corpo, e l’unica scienza è scienza del corpo, inteso cartesianamente secondo estensione (anche se per Hobbes materia e spazio non coincidono, pur non essendo possibile svuotare del tutto lo spazio) e movimento. Il corporeismo hobbesiano pone le premesse di ogni successivo materialismo. Per confutare il dualismo cartesiano Hobbes una argomentazione sottile e paradossale, che possiamo leggere nelle Obiezioni alle Meditazioni del filosofo francese: “ ‘ Io sono una cosa che pensa’. Ben detto; poiché, dal fatto che penso o dal fatto che ho un’idea, sia vegliando, sia dormendo, s’inferisce che io sono pensante: poiché queste due cose: ‘ Io penso ‘ ed ‘ io sono pensante ‘ significano la stessa cosa. Dal fatto che io sono pensante segue ‘ che io sono’ , poiché quel che pensa non è un niente. Ma dove il nostro autore aggiunge: ‘ cioè uno spirito, un’anima, un intelletto, una ragione’, là nasce un dubbio. Poiché non mi sembra un ragionamento ben dedotto dire: ‘ io sono pensante ‘, dunque ‘ io sono un pensiero ‘; oppure ‘ io sono intelligente ‘, dunque ‘ io sono un intelletto ‘. Poiché nella stessa guisa potrei dire: ‘ io sono passeggiante ‘ dunque ‘ io sono una passeggiata ‘. […] E’ certissimo che la conoscenza di questa proposizione: io esisto, dipende da questa: io penso, come egli ci ha benissimo insegnato. Ma donde ci viene la conoscenza di questa: io penso ? Certo, non per altra via, se non per il fatto che noi non possiamo concepire alcun atto senza il suo soggetto, come il pensiero senza una cosa che pensa, al scienza senza una cosa che sappia, e la passeggiata senza una cosa che passeggi. E di lì sembra seguire che una cosa pensante è qualche cosa di corporeo […] che non possiamo separare il pensiero da una materia che pensa; sembra doversi dedurre che una cosa che pensa è materiale, piuttosto che immateriale “.
Nell’ambito del materialismo filosofico e antropologico possiamo ricordare una figura emblematica come quella del medico e filosofo francese La Mettrie. Egli concepisce l’uomo come una macchina, riducendo la realtà umana a materia in movimento, coerentemente con i principi del meccanicismo materialistico di impronta cartesiana. Egli riduce l’essere dell’uomo al suo essere macchina, il corpo umano funziona come un orologio perfetto, senza alcun bisogno di ipotizzare l’esistenza di una res cogitans, come ha fatto Cartesio. Gli animali e le piante sono macchine come l’uomo, soltanto meno perfette. Da questa antropologia materialista ne deriva l’idea che fondamento della morale sia il principio del piacere, proprio perché il corpo è autonomo in virtù del principio di ragion sufficiente che guida ogni suo dinamismo.
- Feuerbach e Nietzsche
Una forma di materialismo più matura è quella proposta dal filosofo tedesco Feuerbach, che opera un rovesciamento della teologia filosofica hegeliana dalla parte del finito e dell’uomo, costruendo una vera e propria antropologia filosofica. E’ significativo richiamare il titolo di uno scritto feuerbachiano, Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia, dove è chiaro l’orientamento materialistico e il richiamare l’uomo alla propria interezza, di cui la corporeità rappresenta l’elemento fondamentale. Feuerbach rivendica dunque la centralità dell’uomo in quanto finitezza e corporeità, a fronte di quei filosofi che come Hegel negano la concretezza e l’irriducibile finitezza dell’uomo data dal corpo, a favore dell’astrazione universale. Dio è infatti per Feuerbach null’altro che una proiezione alienata dell’uomo; l’essenza di Dio è data pertanto dall’essenza dell’uomo. Leggiamo in proposito un passaggio dai Principi della filosofia dell’avvenire in cui il filosofo distingue filosofia “ vecchia “ e “ nuova “, proprio a partire dal criterio della corporeità :“La vecchia filosofia aveva come proprio punto di partenza la massima seguente: io sono un essere astratto, un essere esclusivamente pensante, e il corpo non appartiene al mio essere. La nuova, invece, incomincia con quest’altra massima: io sono un essere reale, sensibile, e il corpo appartiene al mio essere, proprio nel senso che il corpo nella sua totalità è il mio stesso io, il mio stesso essere. Di conseguenza, mentre il vecchio filosofo svolgeva il proprio pensiero in una continua contraddizione e in una continua disputa contro i sensi, al fine di difendersi dalle rappresentazioni sensibili, e non contaminare con esse i concetti astratti; la nuova svolge il proprio pensiero in accordo e in pace coi sensi. La vecchia filosofia riconosceva la verità del senso, e la riconosceva nel concetto stesso di Dio che comprende l’essere in sé, […] La nuova filosofia, al contrario, riconosce la verità del senso con piena consapevolezza e con gioia: essa è al filosofia dei sensi, sostenuta cuore aperto “.Il pensiero di Feuerbach assume l’essere corporeo, la sua individualità irripetibile e irriducibile come principio ontologico fondamentale che comporta il superamento del dualismo teologico e metafisico spirito – materia, anima – corpo.
Il materialismo corporeista di Feuerbach sarà criticato da Marx nell’ambito della sua elaborazione della filosofia della prassi e del materialismo storico. Per Marx l’uomo e la sua stessa corporeità, non sono un dato naturalistico, bensì il frutto di una interazione continua con l’ambiente. L’uomo produce e riproduce le condizioni della sua stessa esistenza; il suo corpo è dunque frutto dei concreti rapporti sociali ed economici nei quali si trova storicamente a vivere. Come scrisse Marx nell’introduzione ai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, non è l’anatomia della scimmia a spiegare quella dell’uomo, ma è invece la seconda a spiegare la prima. La liberazione dallo sfruttamento economico per Marx significa anche la liberazione della corporeità da quell’insieme di rapporti alienati che caratterizzano la società capitalistica. Voglio proporre con riferimento alle cose dette solo questa brevissima citazione dai Manoscritti economico – filosofici del 1844, in cui Marx descrive l’uomo liberato: “ Si vede come al posto della ricchezza e della miseria come le considera l’economia politica, subentri l’uomo ricco e la ricchezza di bisogni umani. L’uomo ricco è ad un tempo l’uomo che ha bisogno di una totalità di manifestazioni di vita umane, l’uomo in cui la sua propria realizzazione esiste come necessità interna, come bisogno “.
La filosofia di Nietzsche è costruita sull’opposizione radicale fra sapere tragico (dionisiaco) e socratico (apollineo). Il socratismo è sapere concettuale, razionale, astratto; è il sapere metafisico costruito sul concetto dell’essere eterno contrapposto al divenire e al fluire incessante della vita. La saggezza tragica è l’atteggiamento di chi sa vedere ancora la vita nella propria immediatezza. La saggezza tragica è adesione piena alla terra e ai suoi valori, è libertà positiva e creativa che presuppone la “morte di Dio“ e della metafisica; solo così l’uomo può essere uomo. Secondo Nietzsche la cifra della metafisica è proprio il disprezzo del corpo, che segna la storia della filosofia occidentale da Socrate e Platone in poi. Il corpo è dalla parte della terra, pertanto la sua esaltazione significa affermare un orientamento nuovo sulla realtà. Accettare in pieno la propria corporeità vuol dire per Nietzsche accettare in pieno la propria finitezza, riconciliare essere e divenire, anima e corpo. In Così parlò Zarathustra, il filosofo supera il dualismo spirito – corpo grazie ad una prospettiva organica dell’uomo: “ Ma il risvegliato e sapiente dice: corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro; e anima non è altro che una parola per indicare qualcosa del corpo. […] Persino nella follia del vostro disprezzo, dispregiatori del corpo, voi servite il vostro Sé. Io vi dico: è il vostro Sé che vuol morire e si allontana dalla vita. […] Io non vado sulla vostra strada, dispregiatori del corpo! Voi non siete per me ponti verso il superuomo ! Così parlò Zarathustra “.
La riflessione filosofica sul corpo conosce un approccio nuovo con l’affermarsi della prospettiva fenomenologica ed esistenzialista nel pensiero del ‘900. L’uomo è visto nella propria interezza vissuta, pertanto il corpo non può essere concepito come mero strumento dell’anima, né si può immaginare anima e corpo come due “ pezzi “ separati. L’uomo è l’intero e come afferma Marcel io sono il mio corpo, non un’anima che si serve del corpo come di uno strumento estrinseco. Io sono il mio corpo nel senso dell’ esisterlo; l’analisi fenomenologica, e la fenomenologia del corporeo in particolare, rappresenta la via per cogliere la dimensione antropologica nella sua organicità e interezza aperta sul mondo. Da questo punto di vista appare del tutto superata la problematica del rapporto tra lo spirito e il corpo, dato che sempre in Marcel la nozione di incarnazione è assunta come simbolo dell’esistenza. Scrive Marcel in Esistenza e obiettività: “ Io non mi servo del mio corpo, io sono il mio corpo. In altri termini, qualcosa nega in me l’esteriorità del mio corpo in rapporto a me stesso, esteriorità che è implicata nella nozione puramente strumentista del corpo. … Nella misura in cui il mio corpo si presta a questo trattamento [cioè ad essere ridotto a mero strumento] si trasforma in oggetto; ma sottomettendovelo io cesso appunto di considerarlo come il mio corpo, gli tolgo quella priorità assoluta in virtù della quale il mio corpo si pone come segno di riferimento o centro in rapporto a cui si ordina la mia esperienza, il mio universo”.
- La fenomenologia
Parlando di fenomenologia non possiamo non fare un breve cenno al padre della fenomenologia, ovvero al filosofo tedesco Husserl. Husserl si propone di fondare in senso trascendentale il sapere, approfondisce la teoria intenzionale della coscienza come reciproca implicazione del soggetto – la coscienza – e dell’oggetto. La fenomenologia è per Husserl il metodo di una nuova “ scienza rigorosa “ che fonda le altre scienze particolari. Rispetto alla corpo, per la fenomenologia il corpo assume la peculiarità di essere corpo proprio (Leib), vissuto. La coscienza del corpo proprio è secondo Husserl presente in ogni percezione. Rispetto alle cose, il corpo dell’uomo si impone come Nullpunkt dell’orientamento, ossia ciò che rende possibile l’orientamento spaziale in relazione agli oggetti. Husserl tematizza inoltre l’esperienza interiore o Erlebnis del corpo proprio (Leib), e la distinzione originaria tra corpo proprio e ogni altro corpo ( Korper ).
Sartre è il filosofo che tiene insieme, almeno all’inizio del suo percorso filosofico, prospettiva fenomenologica ed esistenziale. Nella sua opera più importante, L’essere e il nulla, il nulla appare come l’elemento determinante per definire l’uomo in quanto essere per – sé, distinto dalle cose inanimate definite invece come essere in – sé. Il corpo è elemento di mediazione tra il sé e gli altri; è elemento di relazione e utilizzabilità nell’ambito dell’intersoggettività. L’uomo è il proprio corpo, tuttavia per Sartre il corpo è anche l’elemento di inerzia che dobbiamo sempre trascendere, proiettati come siamo verso l’altro. Il corpo esprime sempre la fattità e la contingenza, l’in-sé in cui siamo, e richiama dall’intimo l’annullamento o al tensione di autotrascendenza con cui il per – sé sorge. Ontologia e fenomenologia sono pertanto strettamente intrecciate nella filosofia di Sartre. Leggiamo a testimonianza di quanto abbiamo detto, due passaggi brevissimi da L’essere e il nulla: “ […] avere un corpo, significa essere il fondamento del proprio nulla e non essere il fondamento del proprio essere; io sono il mio corpo, in quanto io sono; io non lo sono in quanto non sono ciò che sono: è attraverso il mio annullamento, che gli sfuggo. […] Io esisto il mio corpo: questa è la prima dimensione d’essere. Il mio corpo è utilizzato e conosciuto da altri: questa è la sua seconda dimensione. Ma in quanto io sono per gli altri, altri mi si manifesta come il soggetto per il quale io sono oggetto “.
Nell’ambito della prospettiva fenomenologica consideriamo infine la figura di un altro filosofo francese, Merleau-Ponty, il quale unisce alla ricerca fenomenologica raffinate analisi psicologiche che si pongono in termini critici rispetto alla scienza psicologica del tempo, proprio per la tendenza oggettivista di quest’ultima che contrasta con l’approccio fenomenologico all’uomo proposto dal filosofo francese. L’uomo non è un soggetto astratto in relazione con oggetti altrettanto astratti,
“esterni” a lui. L’uomo è un concreto essere – inserito nel mondo. Non c’è un cartesiano spirito “ spettatore “ del mondo; la coscienza è sempre anche un coinvolgimento pieno rispetto al mondo. Riprendendo Husserl, Merleau-Ponty parla della coscienza nei termini di una apertura intenzionale rispetto al mondo. La prospettiva dell’essere – nel – mondo ha nel corpo il proprio fulcro; infatti il corpo costituisce l’inserzione della coscienza nel mondo e del mondo nella coscienza. L’uomo è corpo proprio, e c’è perfetta osmosi tra corporeità ed esistenza. Il mio corpo è il mio fatto originario e irripetibile; il corpo è l’unica sintesi a – priori rispetto al mio essere – nel – mondo. Anche in Merleau – Ponty la prospettiva fenomenologica ha come sfondo la filosofia esistenziale. Leggiamo qualche passo della Fenomenologia della percezione : “[…] essere corpo significa essere legato a un certo mondo, e il nostro corpo non è, originariamente, nello spazio, ma inerisce allo spazio. […] La spazialità del corpo è il dispiegarsi del suo essere di corpo, il modo in cui esso si realizza come corpo. Pertanto, cercando di analizzarla, non facciamo altro che anticipare quanto dobbiamo dire della sintesi corporea in genere. […] Il corpo non può essere paragonato all’oggetto fisico, ma piuttosto all’opera d’arte. […] La tradizione cartesiana ci ha abituati a separarci dall’oggetto: l’atteggiamento riflessivo purifica simultaneamente il concetto comune di corpo e quello di anima, definendo il corpo come una somma di parti senza interiorità e l’anima come un essere completamente presente a se stesso senza distanza. […] Per contro, l’esperienza del corpo proprio ci rivela un modo d’esistenza ambiguo. […] Il corpo non è quindi un oggetto. […] La sua unità è sempre implicita e confusa. Esso è sempre altro da ciò che è, sempre sessualità nello stesso tempo che libertà, radicato nella cultura nel medesimo istante in cui si trasforma mediante la cultura, mai chiuso in sé e mai superato. […] Così, l’ esperienza del corpo proprio si oppone al movimento riflessivo che libera che libera l’oggetto dal soggetto e il soggetto dall’oggetto, che ci dà esclusivamente il pensiero del corpo o il corpo in idea, e non l’esperienza del corpo o il corpo in realtà. Cartesio lo sapeva bene, visto che in una celebre lettera a Elisabetta distingue il corpo quale è concepito dall’uso della vita, dal corpo quale è concepito dall’intelletto “.
- I contemporanei
Rivolgiamo adesso la nostra attenzione alla riflessione di alcuni contemporanei attorno al tema della corporeità, e del rapporto tra dimensione somatica e psichica. Diciamo subito che è oggi impossibile riflettere sul tema del corpo facendo riferimento esclusivamente all’ambito della filosofia. E’ necessario infatti integrare la riflessione filosofica, con i contributi che arrivano da ambiti come la psicologia, la biologia e l’antropologia.
Prendiamo in considerazione innanzitutto la riflessione sul tema della corporeità del filosofo e psicologo Umberto Galimberti. Galimberti da tempo riflette su questo tema, con particolare riferimento alla possibilità di comprendere la dimensione antropologica superando quel dualismo anima/corpo, che per secoli ha contraddistinto la tradizione filosofica occidentale. Secondo Galimberti la stessa psicologia va rifondata a partire da una prospettiva che superi l’idea di una psiche come altro dal corpo, e di un corpo visto solo in termini estrinseci. La malattia mentale è incomprensibile se si prescinde dalla quella dimensione di senso che caratterizza il nostro essere – nel – mondo. Galimberti critica ad esempio la psicanalisi, proprio perché non si discosta fondamentalmente da una prospettiva deterministica e naturalistica. Per quanto riguarda le tradizioni filosofiche che abbiamo considerato in precedenza, possiamo dire che nella riflessione di Galimberti la fenomenologia rappresenta indubbiamente l’approccio al quale fare principalmente riferimento nell’analisi esistenziale. Consideriamo qualche passaggio del libro intitolato proprio Il corpo: “[…] non intendiamo rivendicare l’autonomia dello psichico dal fisico, anzi proprio questa tesi cercheremo di demolire […] l’autonomizzazione dello psichico non fa che raddoppiare l’autonomizzazione del fisico su cui, a partire da Cartesio, s’è costruita la scienza. La barra che passa tra lo psichico e il somatico è a sua volta un prodotto della logica disgiuntiva a cui lo psichico deve la sua realtà, come l’organico la deve alla nascita della medicina scientifica. […] La psicologia nasce infatti dalla barra che essa instaura tra sé e la biologia, e sembra che l’una e l’altra rischino di morire dalla loro unione. Per sopravvivere perseverano nella lacerazione del corpo, nella presupposizione fondamentale della dualità che oggettiva il corpo come residuo per far vivere l’anima sulle cui sorti ha un tempo prosperato la religione e oggi la psicoanalisi. Il corpo ridotto a puro organismo non è più reale dell’anima psicologica o spirituale; entrambi risultano da quell’astrazione che s’è alimentata col dissolvimento del simbolico, e con essi le due grandi metafisiche complementari: quella ‘idealistica’ dell’anima con tutte le sue varianti religiosi, morali, psicologiche, e quella ‘materialistica’ del corpo con i suoi prolungamenti biologici e sociologici”. Leggiamo ancora un passaggio: “ Ma da dove la scienza può aver ricavato la sua idea di corpo come aggregato di parti ? Se è vero che non c’è proposizione scientifica che non si attenga rigorosamente all’esperienza, diciamo che l’unica esperienza da cui la scienza può aver tratto il suo concetto di corpo è l’esperienza della sua disgregazione della morte. Non è un caso che proprio dalla sezione dei cadaveri la scienza ha preso le mosse … Ma il cadavere sezionato, svuotato, disgregato non è il corpo, ma un modello di simulazione che solo un sapere che si misura sull’equivalente generale della morte può far passare per vera realtà del corpo. … Ora, ricostruire il corpo dal cadavere è come resuscitare i morti, e resuscitare i morti non è solo attivare organi, ma creare quel vissuto […] Ora finché la scienza continuerà, contro ogni evidenza, a considerare il corpo come un oggetto, come un aggregato di parti, e la società ad attenersi rigorosamente al dettato scientifico, saremo nell’impossibilità di comprendere qualcosa del corpo e della vita “.
La psicologa Ines Testoni nel libro intitolato Il dio cannibale inquadra il nostro tema nell’ambito di una più generale riflessione sulla corporeità femminile e sull’anoressia. L’anoressia si manifesta come un disagio nei confronti degli alimenti, male quanto mai diffusa tra le ragazze di oggi. L’anoressia parla proprio del corpo e del rapporto con la corporeità; l’anoressia, come del resto la bulimia, ha a che fare con una precisa cultura del corpo. La cultura occidentale ha proposto dalle sue origini fino ad oggi diverse culture del corpo, di cui ciascuno è interprete anche se spesso inconsapevole. La donna in particolare ha un rapporto del tutto particolare con la dimensione corporea e materiale ( la radice di “ madre “ è la stessa di “ materia“); è la madre che da la vita al figlio attraverso il proprio corpo; è la donna che tradizionalmente svolge il lavoro di cura e di nutrimento dei corpi; è la donna che ha un rapporto del tutto particolare con la corporeità e con il sangue attraverso il ciclo mestruale che funziona come una sorta di richiamo ciclico ai ritmi biologici, ovvero al fondamento primordiale della vita.
Si parla di donne, tuttavia la Testoni sottolinea coma il tema dell’anoressia riguardando la dimensione della corporeità, interessa anche l’uomo. Considerato che nella nostra cultura ogni immutabile, ovvero ogni verità eterna e definita sembra tramontato per sempre, allora pare davvero che per ciascuno di noi il corpo sia tutto sé stessi, e per questo non ci sia null’altro di cui prendersi veramente cura. La salute del corpo è tutto dato che non esiste alcuna salvezza ultraterrena. L’anoressia va allora interpretata come una malattia dietro cui sta la volontà di annullamento della propria corporeità, la sua completa smaterializzazione e spiritualizzazione (la Testoni ricorda a questo proposito il digiuno di S. Caterina da Siena, che aveva tuttavia come asse di riferimento non un corpo finito, bensì l’eternità), perché solo così è possibile sfuggire alla morte e al divenire che cancella ogni cosa. Per tutti noi è infatti una fede incrollabile quella che ci porta a credere che tutte le cose nascano e muoiano incessantemente. Il digiuno diventa in tal senso per l’ anoressico una forma di salvezza del corpo e dal corpo, per queste ragioni ( inconsce ) ridotto ad una dimensione eterea. Leggiamo a questo punto qualche passaggio da Il dio cannibale: “ L’anoressia è una patologia che consuma in un dolore paradossale donne, le quali vivono nella parte del pianeta in cui più sono state sconfitte le cause naturali della morte e in cui la ricchezza è sovrabbondante, tanto che la fame e la fatica spesa per la sopravvivenza sono problemi che assumono un carattere sempre preoccupante. […] L’angoscia, quella apparsa nel tempo storico del benessere, derivata dal pensiero della morte e dal senso della finitudine assoluta, è divenuta perciò una condizione sempre più difficile da occultare. Le anoressiche vivono in un costante stato di angoscia ed è molto vicino a loro il tema della morte e della fine del mondo. […] Il rifiuto di alimentarsi annuncia quindi, insieme alla negazione dei bisogni primari, il rifiuto dei rimedi che alleviano l’esistenza dinanzi allo spettro del morire. […] In tal senso esso è anche espressione del rifiuto di ciò che è ritenuto ‘naturale’ del comportamento umano, inteso come materna volontà di accogliere e offrire la vita”. La Testoni fa esplicitamente riferimento alla teoresi di Emanuele Severino, con particolare riferimento alla sua analisi del nichilismo; possiamo infatti leggere nel suo scritto il seguente passaggio: “ Poiché il divenire è l’evidenza suprema dell’Occidente […], il dolore estremo della vita, consistente nella vista della consunzione dell’esistenza, si rende comprensibile solo mantenendo l’ idea di Dio – ossia di un Essere che si nutre dell’essere -, un Dio al quale siamo chiamati a rendere l’essere tramite la sofferenza necessitata dal rinunciare a vivere, ovvero dal rinunciare all’essere. Affinchè il rimedio mantenga il proprio significato autentico, ossia affinchè l’idea di Dio sia salva, è necessario vivere rinunciando alla ricerca di rimedi. La gioia quindi per l’uomo si celebra solo tramite l’adesione a ciò che più teme, l’adesione al ‘nulla’“. Il nichilismo è dunque lo sfondo, o meglio il destino necessario entro cui si inscrivono l’antropologia e la psicologia.
- prime conclusioni
Concludiamo questa rassegna sommaria sulla filosofia dell’ anima e del corpo, con un richiamo ad alcune riflessioni di carattere scientifico. Oggi sarebbe impensabile non fare riferimento anche nell’ambito della riflessione filosofica, alle acquisizioni del sapere scientifico e nel nostro caso agli sviluppi della biologia e delle scienze cognitive. Vale la pena ricordare che la psiche, qualunque cosa si voglia intendere con questo termine così carico di storia, ha la propria sede biologica nel cervello, dunque in ultima istanza l’anima ha la propria sede nel corpo, in un certo senso è corpo, come aveva già detto Feuerbach. Diciamo che l’anima è “ in un certo senso “ corpo, poiché in effetti ciò che chiamiamo mente e anima è frutto di un intreccio assai complesso di funzioni cerebrali e nervose, al punto che sembra qualcosa di autonomo e indipendente. E’ un po’ come l’alfabeto rispetto a tutto ciò che possiamo costruire con esso; infatti se ogni scrittura, compresa la Divina Commedia, è in ultima istanza solo un insieme di lettere dell’alfabeto composte insieme secondo le regole della sintassi e della semantica; è chiaro che rispetto alle semplici lettere dell’alfabeto, un romanzo così come un semplice discorso, si presenta come qualcosa di assai più complesso, al punto che può essere considerato in autonomia. Fuor di metafora, ciò significa che se la mente è in ultima istanza cervello, il suo modo di strutturarsi ci mostra un organismo assai complesso di funzioni che possiamo considerare come se fosse un’entità che vive di vita propria.
Leggiamo quanto scrive in proposito il biologo Edoardo Boncinelli nel suo bel libro su Il cervello, la mente e l’anima: “Ogni singola rappresentazione, alla stessa stregua di ogni singolo stato d’animo, sembra proprio incarnare quello che […] abbiamo chiamato uno psicostato, cioè uno stato della mente. Questo stato non è per niente facile da definire e si contrappone a un neurostato che è invece concretamente costituito da un complesso discreto di livelli di eccitazione nervosa, che viaggiano insieme dai sensi al cervello o che circolano tra le varie regioni del cervello stesso. Un neurostato, abbiamo visto, è un complesso di n valori, che indicano altrettanti livelli di eccitazione nervosa dei vari recettori che sono stati esposti a un dato stimolo sensoriale. […] Il punto cruciale è che questa formulazione del problema non lascia adito a dubbi sulla corrispondenza numerica fra neurostati e psicostati. Non si tratta di una corrispondenza biunivoca, cioè di uno- a- uno, ma di una corrispondenza univoca, di molti – a –uno nella direzione che va dai neurostati agli psicostati“. E’ evidente che questa situazione ha una evidente ripercussione sul dibattito filosofico che concerne il rapporto tra il fisico e il mentale; infatti non avrebbe alcun senso qualunque forma di dualismo, poiché il mentale non avrebbe nulla di diverso dal fisico, ovvero nel nostro caso dal biologico e in particolare dal neurale.
Nella specie umana l’evoluzione biologica conquista l’intelligenza e la coscienza di sé, ovvero l’autocoscienza. Indubbiamente ciò rappresenta un salto qualitativo di enorme rilevanza, infatti grazie all’intelligenza nell’uomo alla biologia si aggiunge la cultura, dunque per comprendere l’uomo non basta l’evoluzione biologica ma dobbiamo fare riferimento all’ evoluzione culturale, la quale a sua volta è in grado di modificare la stessa base biologica. Sembrerebbe proprio che la coscienza di sé sia ciò che definisce l’anima, ovvero il centro del nostro essere viventi come ci ha insegnato una lunga tradizione filosofica da Platone in poi. Tuttavia biologicamente parlando non è possibile individuare alcun centro della vita; scrive in proposito Boncinelli: “ Non esiste un centro biologico del corpo. Se per alcune funzioni il cervello e la corteccia agiscono come centro regolatore e pera altre funzioni esiste di volta in volta una centralizzazione delle reti regolative, la stragrande maggioranza degli eventi cellulari, nella vita adulta come durante lo sviluppo embrionale, va avanti da sé. Ciascuna cellula sa quello che deve fare e lo fa, consultando le istruzioni del proprio patrimonio genetico e calibrandone volta per volta la realizzazione sulla base dei segnali che giungono dalle altre cellule. Per quanto strano tutto ciò che possa sembrare, la biologia moderna ci dice che è così. Si direbbe che ci si trovi in presenza di una sorta di armonia prestabilita che regola il comportamento delle cellule presenti nei vari distretti del nostro corpo. Proprio colui che introdusse il concetto di un’armonia prestabilita per spiegare la regolarità degli eventi del mondo, cioè il grande matematico e filosofo Gottfried Leibniz, formulò una delle prime argomentazioni interessanti contro la riducibilità della coscienza a fenomeni materiali “.
Alla fine del nostro percorso poniamoci dunque questa domanda: dov’è l’anima ? Leggiamo la risposta di Boncinelli: “ Siamo giunti fino a questo punto senza aver mai scomodato il termine anima, anche se abbiamo utilizzato in qualche circostanza il termine psiche in funzione di un braccio secolare e operativo. Non abbiamo avvertito una terribile necessità di utilizzare il termine, ma forse ora lo potremmo definire come l’insieme delle percezione e delle intenzioni consce e inconsce che caratterizzano la nostra vita interiore e che hanno la facoltà di affacciarsi talvolta alla coscienza. Possiamo insomma definire l’anima come il risultato della sintesi dell’aspetto computazionale e di quello fenomenologico della mente e contenente almeno una provincia necessariamente cosciente e accessibile all’introspezione. In questo senso il concetto di anima comprende quello di mente e abbiamo già visto che, se è ragionevole assumere che la mente risieda nel nostro cervello, possiamo anche vedere l’anima come potenzialmente coincidente con una parte rilevante del nostro corpo. Il problema è che se il concetto di mente è piuttosto sfuggente, quello di anima è addirittura inafferrabile”. L’anima è un concetto inafferrabile, tuttavia la biologia ci dice che non è definibile a prescindere dal corpo, così come ci avevano detto anche alcuni filosofi.
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