di Bruno Mastroianni
Una delle modalità distruttive che getta abitualmente scompiglio nelle discussioni online e offline è il ricorso a giudizi formulati in modo apodittico, cioè privi di ragioni o prove a supporto[1]. Si tratta di espressioni puntute e altamente valutative (spesso svalutative) prive di elementi che dimostrino o possano dare contenuto argomentativo a ciò che si sostiene.
Ad esempio sono affermazioni come le seguenti, tratte dalla rete e utilizzate in vari contesti:
Il vostro buonismo è la vostra condanna!
Queste idee sovraniste sono la rovina del paese.
La carriera di questo cantante è finita.
Trovo insopportabili i tuoi post!
Il vostro pesce crudo fa schifo!
Io ho studiato, altri mostrano di non averlo fatto.
Eccola la sciocchezza che mancava nel mare di ovvietà già sentite.
Sui social o in dibattiti mediatici, il ricorso a questo tipo di affermazioni provocatorie ottiene un effetto evasivo e distraente. Di solito impedisce alla discussione di essere realmente contraddittoria (cioè di affrontare il merito di una questione fino in fondo) per trasformarla in una contrapposizione[2].
Questo tipo di affermazioni, infatti, ha un duplice effetto: da un parte opera una riduzione[3] rispetto alla complessità di cui si sta discutendo, dall’altra ha in sé una carica aggressiva che sposta l’attenzione dal tema in oggetto all’interlocutore a cui sono rivolte. Dal contenuto si passa a discutere della relazione[4] (che si deteriora) tra i disputanti. Il risultato è quello di passare dalla messa alla prova delle idee a un’azione diversa: quella di drenare e raccogliere il consenso di una fetta di pubblico che condivide la stessa opinione e lo stesso quadro valoriale di riferimento[5].
Prendendo gli esempi che abbiamo fatto possiamo osservare questi due effetti secondo diverse tipologie:
- Generalizzazioni indebite
Il vostro buonismo è la vostra condanna!
Queste idee sovraniste sono la rovina del paese.
Riduzione: qualsiasi affermazione dell’altro viene ricondotta alla tipologia buonista o sovranista[6], cioè le eventuali ragioni presenti vengono scartate perché attribuite a uno schema (inadeguato) già noto che porta condanna o rovina.
Attacco: l’attacco è la classica generalizzazione che usa la presunta appartenenza a un gruppo o a uno schieramento come spia di un difetto nel ragionamento[7].
- Messa in dubbio delle capacità
La carriera di questo cantante è finita.
Riduzione: la frase presume che si possa dare un giudizio immediato e sintetico su una questione ampia come la carriera artistica di un cantante.
Attacco: l’affermazione postata negli account online del cantante in questione ne mette in dubbio le capacità oltre a intaccare i fan che si sentiranno colpiti dalla valutazione negativa.
- Impressioni personali che minacciano la reputazione
Trovo insopportabili i tuoi post!
Il vostro pesce crudo fa schifo!
Riduzione: il criterio dell’insopportabilità (non chiarito se sia di natura emotiva, morale, cognitiva o altro) e del disgusto percepito soggettivamente sono elevati a criteri di valutazione oggettivi.
Attacco: il gusto/sentimento/impressione negativi di un utente espressi in pubblico e scritti creano immediatamente una sorta di voragine di reputazione. Si pensi al secondo commento se postato negli account di un ristorante di sushi.
- Indignazione
Io ho studiato, altri mostrano di non averlo fatto!
Eccola la sciocchezza che mancava nel mare di ovvietà già sentite!
Riduzione: un ragionamento viene ridotto a “mancanza di studio” oppure a “sciocchezza” con grande facilità, come il “mare di ovvietà” con cui si definisce un indefinito numero di affermazioni simili non meglio specificate.
Attacco: sia il “non studiare” che il “dire sciocchezze nell’ovvietà” qui hanno anche l’elemento moralistico, non vengono presentate solo come mancanze personali (come nei casi C), ma alludono al tradimento di un presunto modo di ragionare e di agire corretto.
Un sinistro-destro dialettico
Questo doppio colpo riduttivo-aggressivo assomiglia a un “sinistro-destro” di boxe che spinge spesso chi ne è vittima a replicare in modo inefficace. Nella boxe la combinazione di due colpi ravvicinati serve di solito a fare in modo che nel parare il primo l’avversario si scopra ricevendo tutta la potenza del secondo. Anche in questa mossa dialettica l’attacco personale serve per portare a segno la ben più perniciosa riduzione che fa fallire il confronto.
La reazione, infatti, è innescata di solito dalla questione prioritaria che si avverte intaccata: la propria identità. In una discussione chiunque, anche il più distaccato, porta sempre nelle sue argomentazioni ciò che lo rappresenta e che rappresenta il suo mondo. Quando qualcuno sostiene qualcosa sta dicendo “Ecco come mi vedo in rapporto a te in questa situazione”[8]. Ciò induce, quando attaccati in pubblico, a sentire un disconoscimento o un rifiuto della propria identità con una fortissima pressione psicologica a replicare ripristinando il proprio buon nome. È questa tensione che spinge, solitamente, a compiere una manovra difensiva di replica controproducente.
Quando la reazione si concentra sul rispondere all’attacco personale, infatti, ci si scopre sul lato ancora più delicato, quello razionale, finendo intrappolati nel vicolo cieco creato dalla riduzione. Concentrati a parare l’attacco ad hominem, ci si dimentica di guardare al “bersaglio grosso” dell’abbassamento del livello razionale delle argomentazioni. In questo modo avviene una specie di accettazione tacita dello schema riduttivo dell’oppositore che prende il sopravvento e sostituisce il centro della questione che si stava affrontando.
Vediamolo attraverso uno degli esempi precedenti:
Eccola la sciocchezza che mancava nel mare di ovvietà già sentite!
Se il destinatario di questa provocazione si concentrasse sull’attacco personale risponderebbe qualcosa del tipo: “Sciocchezza sarà per lei!”, “Come si permette a darmi dello sciocco?”, “Non mi pare affatto né sciocca né ovvia!”, e così via.
Cosa otterrebbe? Anzitutto di aver accettato la cornice semantica dell’aggressore: si sta parlando ormai di “sciocchezza”, di “sciocco” e non più del tema iniziale che aveva fatto scaturire il giudizio. Quindi il contenuto dell’argomentatore è stato rimpiazzato da quello del provocatore. Ma soprattutto si è passati dal discutere delle idee alla messa in discussione delle persone: si è ormai nella contrapposizione tra due interlocutori.
Una mossa di difesa che è doppiamente inefficace: perde il tema e perde anche la qualità della discussione. Un vicolo cieco di un dibattito in cui non ci sono più ragioni o prove, ma affermazioni di posizione da parte di ciascun contendente. Il “destro” dell’attacco personale ha permesso al “sinistro” di andare a segno: la questione complessa su cui forse valeva la pena discutere è stata rimpiazzata da una forma di alterco verbale altamente spettacolare, ma poverissimo dal punto di vista del confronto[9].
Capire il meccanismo di questa arma dialettica, ampiamente utilizzata nelle interazioni online e offline, è fondamentale per disinnescarne la forza e non finire nel gioco deteriore di chi ne fa uso. Però non basta. A questo primo piano pragmatico, che può alimentare la consapevolezza sulle dinamiche dialettiche, va aggiunto qualcosa che aiuti a non rimanere puramente nell’ottica della replica brillante.
La soluzione non è tattica, ma virtuosa
A motivare a non raccogliere le polemiche non può essere una pura scelta tattica. Anzi, se ci muovessimo in base a un puro criterio utilitaristico, improntato al calcolo costi/benefici, dovremmo riconoscere che adeguarsi alla polarizzazione e portare lo scontro a una richiesta di approvazione pro/contro da parte del pubblico è vantaggioso dal punto di vista della raccolta dei consensi. Non è un caso che gran parte del dibattito politico e pubblico avviene proprio in questi termini binari[10], producendo una spettacolarizzazione dei confronti che mette in secondo piano la discussione sul merito dei temi.
Cadono nella trappola utilitaristica spesso persino i sostenitori dell’importanza dei confronti razionali. Nell’affrontare il tema solo dal punto di vista delle mosse e contromosse efficaci finiscono per cedere alla tentazione di usare lo stesso meccanismo. È il caso di alcuni “paladini blastatori”[11], che si ergono a difensori della scienza, della lingua, della buona politica, utilizzando il metodo del giudizio apodittico per azzittire le controparti opposte quando affermano qualcosa di scorretto o infondato.
Facciamo un esempio tratto dalla rete:
Oppositore no-mask: Lei ci può assicurare che le mascherine ci proteggono al 100%?
Esperto: L’unica cosa che posso assicurare al 100% è la sua ignoranza.
Così il metodo destro-sinistro (attacco personale – riduzione della questione) diventa plausibile e accettabile anche da parte di chi in origine era partito con la motivazione di difendere la razionalità nei confronti. Provocando una notevole contraddizione: per difendere la ragione vengono usate armi dialettiche tipiche della mancanza di ragione. È come scegliere di difendere la verità con l’uso dei carri armati per dissuadere eventuali eretici dall’esprimere le loro obiezioni infondate. Non si è risolta l’ignoranza, si è solo ottenuto di metterla a tacere (che poi in un mondo di iperconnessione e di microinterazioni incontrollabili l’efficacia di questa messa a tacere andrebbe discussa). In ogni caso un’operazione che ha a che fare più con il consolidamento del consenso tra i sostenitori della ragione e della scienza, che con la diffusione del sapere e della razionalità che in queste dinamiche è minima, se non assente.
Il problema dell’ottica utilitaristica è che essa stessa ha una visione riduttiva della complessità di ciò che comporta l’argomentare in una discussione. Muovendosi nella prospettiva costi/benefici rimane a un puro livello orizzontale del dibattito giudicandolo in base alle categorie del vincere/perdere, ottenere risultati o non ottenerli. Serve allora un punto di vista diverso e allargato capace non solo di tenere testa alle manovre riduttive dei giudizi apodittici, ma di andare oltre, per generare possibili repliche in grado se non di risanare, per lo meno di dare nuovo slancio alle interazioni che finiscono nel vicolo cieco delle contrapposizioni prive di ragioni.
In anni recenti un filone di studi sulle virtù dell’argomentazione[12] ha iniziato a muovere passi in una prospettiva davvero proficua per la comprensione dei confronti dialettici. Secondo questa impostazione un dibattito va giudicato non solo nei suoi elementi inferenziali, argomentativi e dialettici, ma soprattutto considerando l’agire degli argomentatori dal punto di vista delle virtù o dei vizi di argomentazione che presentano, ossia valutando quanto le loro mosse siano guidate dalla ricerca o meno del bene della discussione.
Ponendo che il bene della discussione sia quello di diffondere conoscenza attendibile[13], cioè che l’azione di confrontare le idee abbia come suo esito ideale quello di metterle alla prova (farne un collaudo[14]) per capire meglio qualcosa, le azioni virtuose saranno quelle che contribuiranno il più possibile a questo bene, le viziose quelle che se ne discosteranno.
Se superiamo l’ottica puramente utilitaristica possiamo considerare ciò che abbiamo detto finora sui giudizi apodittici dal punto di vista delle virtù. La mossa è viziosa perché nel suo produrre un attacco e una riduzione distoglie dal tema oggetto di contesa e trasforma il confronto di idee in una contrapposizione tra persone. Insomma ostacola il raggiungimento del bene di una migliore conoscenza dell’argomento. È viziosa anche nel fatto che il bene che ricerca non è quello proprio di una discussione (il collaudo delle idee), ma quello del consenso che di fatto adultera la qualità del confronto. Lo stesso si può dire della risposta che si difende dall’attacco: è viziosa perché cede alla perdita del tema e alla contrapposizione di posizioni invece che alla contraddizione di idee nel confronto.
Chiedere ragioni o prove
Questo excursus ci serve per una ragione molto pratica. La valutazione di questo tipo di scambi nell’ottica delle virtù ci permette di trovare la via più efficace per replicare in queste situazioni. Riconoscendo come limitati i criteri orizzontali dei costi/benefici, ci si può rivolgere al criterio del bene possibile della discussione come punto di riferimento per l’azione.
Se la dinamica del giudizio apodittico produce un attacco personale e una riduzione di complessità, la risposta virtuosa cercherà di ottenere dalla replica non una difesa, ma un ripristino del confronto di idee e un ritorno alla questione nella sua complessità. Come? In realtà il modo è più semplice e immediato di quanto non possa sembrare. È un tipo di replica antico e classico, da sempre noto a chi studia le dinamiche dialettiche: il chiedere ragioni o prove[15].
Quando ci si trova di fronte a un giudizio apodittico polemico, invece di lanciarsi subito in una replica difensiva (che darebbe rilevanza all’attacco e alla riduzione prodotta) sarebbe molto più efficace riportare nel campo del contendente l’onere della prova. Chiedere ragioni, prove, dati, fatti a supporto del giudizio espresso è la migliore mossa non solo per schivare il destro-sinistro ma, come vedremo fra poco, per servirsi della forza dell’affondo per tornare a discutere sul tema. In un sol colpo si ottiene di non dare peso all’attacco personale, che cade ignorato, e di rimettere il confronto sul livello della razionalità e delle idee.
Riprendiamo da un esempio precedente, il più concreto, per mostrare che anche in casi molto specifici si possono osservare risultati interessanti:
Il vostro pesce crudo fa schifo!
In un’ottica virtuosa il ristorante, invece di difendersi dall’attacco infondato, risponderebbe: “Ci può spiegare cosa ha trovato che non andava nel nostro sushi?”. Una replica di questo tipo otterrebbe diversi effetti:
- Mostrerebbe che il ristorante è votato al tema, cioè disposto a discutere della qualità del pesce, visto che è il cuore delle sue attività.
- Non cederebbe alla contrapposizione utente vs ristorante, ma manterrebbe il confronto sul piano della qualità del pesce.
- Lascerebbe l’onere della prova nel campo dell’oppositore: per tutti quelli che assistono sarà evidente che non è stato ancora dimostrato che il pesce sia di scarsa qualità.
È importante considerare questi tre effetti per non confondere l’ottica della virtù con una prospettiva buonista o accondiscendente. Replicare in modo virtuoso, con il focus sul bene della discussione, non significa essere remissivi ed evitare il conflitto con l’altro, ma l’esatto contrario. Secondo l’ottica aristotelica la virtù è ciò che porta a condurre un’azione in modo eccellente[16], in questo caso l’argomentatore virtuoso è eccellente se riesce a mantenere lo scambio nel conflitto e nella contraddizione per andare fino in fondo. Dal punto di vista del ristorante, la richiesta di fornire le “ragioni dello schifo” costituisce una replica critica e altamente contraddittoria che costringe chi ha sollevato l’obiezione a farsene carico, pena il risultare infondato agli occhi del pubblico che assiste. Una mossa tutt’altro che accondiscendente o pacifista.
La risposta virtuosa al giudizio apodittico, insomma, non è una vera e propria difesa, ma assomiglia di più a un contrattacco che, con la sua richiesta di ragioni o prove, ribalta la prospettiva dialettica e, come vedremo, ha l’effetto di smascherare gli attacchi indebiti senza dare loro eccessivo spazio nello scambio, anzi sottraendogli terreno.
Prima però dobbiamo considerare un altro tipo di attacco apodittico che a volte può andare a segno in modo diverso da ciò che abbiamo visto finora. In certi casi, infatti, i giudizi apodittici non sono solo ad hominem, indignati, generalizzanti o diffamatori (come negli esempi A, B, C, D) ma fanno riferimento a principi pertinenti rispetto all’argomento in discussione e, come tali, appaiono coerenti rispetto alla questione che si sta dibattendo.
I principi usati come arma
In questi casi la qualità pretestuosa dell’attacco è molto meno evidente rispetto agli esempi che abbiamo visto. È importante considerarli ora perché ci dicono qualcosa in più sull’efficacia della scelta di replicare secondo l’ottica delle virtù.
Facciamo alcuni esempi:
Un “Non è giusto!” riferito a un’affermazione su una proposta o su una decisione che riguardi il bene di altre persone: non è solo una dissociazione apodittica aggressiva, ma un attacco basato su un principio pertinente nella discussione (quello della giustizia).
“Questo è relativismo!” riferito a un’affermazione che affronta il tema della conoscenza della verità: non è solo indignazione, ma un giudizio che implica un principio riguardante l’oggetto di discussione.
“Tipico di quelli di sinistra prendere le difese degli immigrati a prescindere” in replica a un’affermazione in cui una persona di orientamento progressista sta parlando di temi legati alle migrazioni: non è solo una generalizzazione indebita, ma una precisa accusa sul tradimento di un principio oggetto di discussione (trattamento dispari o equo).
Insomma in tutti quei casi in cui si viene attaccati in base a un principio attinente all’argomento di cui si sta parlando è molto più difficile scorgere la scorrettezza dell’attacco, soprattutto da parte di chi assiste alla discussione. Questo perché i principi in ballo di solito sono quelli che danno corpo ai valori in conflitto in ogni confronto[17]. Riconoscere la loro consistenza, anche in un atto aggressivo, è la strada per poter proseguire la discussione e tirarla fuori dal pantano di una contrapposizione litigiosa.
In questa mossa il principio è usato come un’arma e non come un argomento. Nei casi che abbiamo visto concetti di giustizia, verità e equità vengono adoperati come manganelli sbattuti addosso all’interlocutore per produrre un danno – come al solito più di reputazione che di razionalità – alla sua argomentazione.
In una dinamica di discussioni pubbliche online e offline il fautore della mossa del principio usato come arma può ottenere facilmente il consenso di altri omogenei che si riconoscono negli stessi valori e sentono il richiamo a schierarsi a difesa di quel principio. Così come può insinuare il dubbio nei non schierati perché, introducendo un’opposizione che appare pertinente alla discussione, dà la sensazione che quel principio non sia rispettato dal ponente nella sua argomentazione.
Insomma nei casi in cui il giudizio apodittico tocchi principi pertinenti, è particolarmente importante la modalità di replica “dubitante” atta riguadagnare terreno e ad allontanare il sospetto del mancato rispetto di principi condivisibili. Come al solito la strada non è quella di denunciare e rifiutare la mossa scorretta – ciò la metterebbe solo al centro dei riflettori – ma chiedere ragioni o prove per costringere il titolare dell’obiezione a uscire allo scoperto.
La forza di chi eccepisce sui principi, infatti, si basa soprattutto sul permettersi il lusso di non argomentare: l’accusa viene fatta attraverso un’affermazione di principio, appunto, che non mostra la sua validità e fondatezza:
– “Non è giusto!” non dice il perché dell’ingiustizia.
– “Questo è relativismo!” non spiega dove veda tale mancanza di fiducia nella verità.
– “Difendere gli immigrati a prescindere” non argomenta le ragioni che sostengono una tale affermazione.
Il gigante con i piedi di argilla
Come in tutte le forme apodittiche, il “gigante” della denuncia del principio disatteso ha i “piedi d’argilla” nella mancanza di argomentazione. Su quella debolezza va colpito. In tutti questi casi un semplice: “dove trovi ingiustizia?”, “dove sta il relativismo?”, “in che senso difesa a prescindere?”, sono il modo migliore per far notare a tutto il pubblico che l’attacco è manchevole (vizioso) e, allo stesso tempo, per invitare a tornare a ragionare sul principio in oggetto (da cui può venire il bene della discussione).
Tra l’altro tale modalità virtuosa ha un ulteriore effetto importante: se l’opponente si fosse fatto sfuggire un giudizio apodittico solo perché trascinato dalla fretta o dall’emotività (cosa che online accade spesso), si ritrova offerta una seconda chance per spiegarsi meglio e articolare più adeguatamente il suo dissenso. Insomma l’azione virtuosa introduce anche un principio di indulgenza che accetta l’errore e l’imperfezione, riconoscendo all’altro lo status di interlocutore valido anche qualora commetta infrazioni. Una modalità molto adatta a ridare fiato ai confronti reali in cui questo tipo di deviazioni è all’ordine del giorno.
Una replica di questo tipo è il giusto mezzo tra due eccessi: da un lato quello della irrazionalità dialettica che azzittisce l’altro o lo porta fuori strada attaccandolo, e dall’altro quello della razionalità intellettualistica che non riesce a convincere con la sola forza della ragione. La virtù dell’argomentazione punta invece sul riconoscimento della priorità dell’argomentatore sull’argomentazione: permette di concentrarsi sulla realtà imperfetta, ma realistica, delle persone portatrici di idee, qualunque esse siano, anche quando scomposte[18].
Con la sua azione indulgente fa cadere le cariche polemiche e invita ad articolare il dissenso, anche il più aggressivo, attraverso argomentazioni su cui riflettere. Nel farlo l’argomentatore virtuoso mostra al pubblico (la moltitudine silenziosa[19] che partecipa pur senza palesarsi), che per discutere ragionevolmente non si può che passare dalla ricerca del bene delle persone coinvolte. Per tutto il resto c’è il litigio che drena consensi, ma che non produce passi avanti nella conoscenza della realtà in cui, alla fine, siamo tutti coinvolti.
[1] Cfr. significato 2 di “apodittico” in https://www.treccani.it/vocabolario/apodittico/]
[2] Su contraddizione e contrapposizione cfr. Bruno Mastroianni, Dalla contrapposizone alla contraddizione. Come ridare fiato al dibattito in stallo, in ExAgere https://www.exagere.it/dalla-contrapposizione-alla-contraddizione-come-ridare-fiato-al-dibattito-in-stallo/
[3] Sul tema della “riduzione” rispetto alla complessità cfr. Piero Dominici, La complessità della complessità e… l’errore degli errori, in Treccani.it Magazine “La lingua italiana”, http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/digitale/5_Dominici.html, 24.12.2018.
[4] Cfr. Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, (1971) Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi delle patologie e dei paradossi, Astrolabio, Roma, pp. 73-74.
[5] Cfr. Bendetta Baldi, Comunicazione politica e società. La semantica del potere, in corso di pubblicazione 2020, cap: Comunicazione politica richiamo al frame culturale.
[6] Cfr. Andrea Granelli, Flavia Trupia, La retorica è viva e gode di ottima salute, FrancoAngeli, Milano, 2019, capitolo: Reductio a Hitlerum e ad radical chic.
[7] Cfr. Bruno Mastroianni, La disputa felice. Dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico, Cesati, Firenze, 2017, pp. 71-72.
[8] Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, (1971) Pragmatica della comunicazione umana, cit., p. 74.
[9] Cfr. Bruno Mastroianni, Litigando si impara. Disinnescare l’odio online con la disputa felice, Cesati, Firenze, 2020, pp. 23 e seg.
[10] Cfr. Giovanna Cosenza, Semiotica e comunicazione politica, Roma-Bari, Laterza, 2018, versione ebook, capitolo: Le classificazioni binarie.
[11] Blastare: annichilire verbalmente l’oppositore in una disputa, solitamente da una posizione di superiorità (cognitiva, sociale, culturale); cfr. Vera Gheno, Bruno Mastroianni, Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello, Longanesi, Milano, 2018, p. 263
[12] Cfr. ad esempio Daniel Cohen, Now THAT was a Good Argument! On the Virtues of Arguments and the Virtues of Arguers, International Conference on Logic, Argument, and Critical Thinking, Sanitago, Chile, 2008; Daniel Cohen, Virtue, In Context, Informal Logic, Vol. 33, No. 4, 2013; Andrew Aberdein, Virtue in Argumentation, Argumentation, January 2010; Andrew Aberdein, In defence of virtue: The legitimacy of agent-based argument appraisal, Infomal Logic, 34(1), 2014.
[13] Andrew Aberdein parla di “propagate truth” cfr. Andrew Abedein, Virtue in Argumentation, cit., p. 16.
[14] Cfr. Adelino Cattani, Botta e risposta. L’arte della replica, IlMulino, Bologna, 2001, pp. 15-24.
[15] Cfr. Ibid., pp. 163-187 e Adelino Cattani, Dibattito. Doveri e diritti, regole e mosse, Napoli, Loffredo, 2012, p. 57; è la modalità confirmetur quia dubito tratta dalle mosse-risposte principali della disputa scolastica: transeat, concedo, distinguo e nego.
[16] Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, Roma-Bari, Laterza, 1990, libro I, 8-9, pp. 25-27.
[17] Cfr. Bruno Mastroianni, Litigando si impara, cit., p. 26.
[18] Cfr. Bruno Mastroianni, From the virtues of argumentation to the happiness of the dispute, in corso di pubblicazione, FUP, Firenze.
[19] Cfr. Vera Gheno, Bruno Mastroianni, Tienilo acceso, cit., p. 226.