di Antonio La Spina
Per il sociologo l’identità è uno dei temi più importanti e multiformi. Ciò sia quando si ha a che fare con identità collettive – così come quando entrano in gioco realtà quali Stato, nazione, patria, famiglia, gens, tribù, casata, stirpe, clan, movimento, partito, classe, ceto, etnia, razza, gruppo religioso, organizzazione, contrada, sindacato, associazione, club e così via -, sia anche quando si guarda all’identità individuale, che sembrerebbe in prima battuta un campo più pertinente alla psicologia e alla filosofia.
L’id-entità sarebbe ciò che rende un ente uguale, anzi identico, a se medesimo. Ma in effetti siccome tutto cambia, non solo nel contesto esterno all’ente, ma anche dentro, per così dire, l’ente stesso, ecco che l’identità dovrà risultare necessariamente da una selezione problematica di elementi strutturali stabili nei flussi del divenire.
Al riguardo, le identità collettive sono un ovvio terreno di analisi. Intuitivamente, esse postulano la continuità nel tempo di certi capisaldi, pur in soggetti che si vanno trasformando entro un mondo che a propria volta è mutevole. Il che pone la necessità di raccordare e tenere contemporaneamente connessi elementi e livelli che potrebbero entrare tra loro in conflitto, mettendo in crisi l’identità collettiva e la sua percezione. Ad esempio, la Francia che emerge e si consolida durante il medioevo come entità politica autonoma, con i suoi confini, la sua capitale, la sua lingua, la sua storia, Giovanna d’Arco, attraversa la guerra dei cent’anni, l’assolutismo, gli Stati generali, la rivoluzione, cinque “repubbliche”, conservando un filo identitario che tiene insieme realtà empiriche tra loro assai distanti, anzi sotto certi profili antitetiche. Ovvero il partito socialdemocratico tedesco, che ha ancora nelle proprie sedi i ritratti di Marx ed Engels, è anche “lo stesso” di Bad Godesberg, di Willy Brandt, e poi di Schroeder e delle riforme Harzt, oggi di Schulz. Così come il partito laburista inglese ha avuto, nella propria storia e nel proprio Pantheon, soggetti che vanno da Bevan a Kinnock, a Blair, a Corbyn. O quello democratico negli Stati Uniti ha espresso presidenti che vanno, tra gli altri, da Wilson a F.D. Roosevelt a Truman, Kennedy, Clinton, Obama. Per non dire dei repubblicani in cui da Lincoln a partire dal secondo dopoguerra si è passati per Eisenhower, Nixon, Reagan, i due Bush, fino a un Trump che indubbiamente scuote dalle fondamenta certi capisaldi di quella identità programmatica (ad esempio in politica estera o in politica economica).
Nella medesima indentità collettiva sono quindi spesso compresenti, talora in momenti diversi nel tempo, talaltra anche sincronicamente, elementi diversissimi tra loro, che se presi a due a due sarebbero non di rado reciprocamente incompatibili. Eppure, in qualche modo si intravede un filo che si dipana e tiene uniti, saldamente, i diversi e addirittura gli opposti. Fermo restando che le identità collettive possono anche crollare, a un certo punto, per sopravvenuta incapacità di far fronte alle sfide di un ambiente turbolento, o per consunzione interna, o perché entrano in campo conflitti irriducibili, ma non sempre necessariamente “identitari”.
Inoltre, per quanto sia oggi in atto, com’è noto, un revival di spinte di volta in volta neo-nazionaliste, sovraniste, protezioniste, volte alla chiusura nei confronti della dimensione globale, ciò non deve farci dimenticare che sono sempre di più i problemi che emergono nelle società contemporanee cui si deve necessariamente far fronte con una visione planetaria e, auspicabilmente, con modalità di intervento conseguenti: dal mutamento climatico alle migrazioni, dalle crisi umanitarie al terrorismo, dalla criminalità transnazionale alle esigenze di regolazione del world wide web, dalla finanziarizzazione dell’economia agli obiettivi di sviluppo sostenibile. Pertanto, sempre di più vi è ragione di pensare a indentità collettive sovranazionali (come quella europea) ovvero mondiali, come quella cosmopolita di membri del genere umano e titolari dei relativi diritti, nonché di componenti dell’ecosistema globale, possibilimente tenuti ai relativi doveri di tutela e conservazione verso le altre specie viventi e verso la natura.
Venendo alle identità individuali, l’analisi micro-sociologica ci mostra individui che entrano ed escono da ruoli sociali più o meno cristallizzati – figlio, genitore, studente, lavoratore, elettore, consumatore, credente o meno, membro di corpi intermedi, cittadino, e così via – conservando presumibilmente una loro irripetibile identità. Se però si scava più a fondo, come ha fatto Goffmann, si potrebbe dipingere un attore sociale che si muove costantemente tra un palcoscenico, o meglio tanti palcoscenici, e i relativi backstages, non sempre ritrovando facilmente se stesso tra i tanti personaggi che incarna e copioni che recita.
Le teorizzazioni dell’alienazione, dell’homo sociologicus, della oversocialized conception of man, della società massificata tempo addietro hanno posto per parte loro l’accento proprio sulla perdita o il depotenziamento dell’individualità, quindi dell’identità individuale.
Ma ciò non è durato molto, in effetti. Già a partire dagli anni sessanta emergevano sia le critiche allo struttural-funzionalismo, sia via via le teorizzazioni del “piccolo è bello”, dei localismi, delle “piccole patrie”, del narcisismo e dell’io minimo, di Lasch o Sennett. Si intravedono così soggettività individuali che, talora orfane appunto di identità collettive capaci di durare secoli o millenni, o comunque in media meno condizionate da esse, cercano gratificazione nel presente, nella soddisfazione immediata, in sequenze di stati d’animo e sensazioni, in un bricolage identitario. Per un verso, quindi, le identità individuali non risultano affatto schiacciate da quelle collettive o appiattite su di esse. Per altro verso, però, la saldezza e, talora, il prestigio che possono derivare dall’adesione a certe identità collettive, che può offrire spessore, prospettiva e riconoscibilità anche alle identità individuali, per molti (ma non per tutti) vengono meno, il che può comportare sì un’esaltazione della dimensione soggettiva, ma anche, a seconda dei casi, qualche difficoltà nell’individuazione e nel mantenimento di identità individuali durevoli. Specie se ciò avviene nel contesto di liquidificazione delle relazioni sociali di cui ha scritto Bauman.
Alcuni sociologi – Pizzorno, tra gli altri – hanno trattato la distinzione tra una logica dell’utilità e una logica dell’identità, che a sua volta si riallaccia, non coincidendo con essa, all’altra distinzione, weberiana, tra razionalità rispetto alla scopo e razionalità rispetto al valore. Chi si muove secondo l’utilità cerca le alternative che massimizzano il ritorno economico, o comunque la soddisfazione di interessi materiali, essendo in linea di massima disponibile a scambiare le “merci” che detiene, contrattando i corrispettivi più vantaggiosi. Chi invece si muove in base all’identità (che può anche essere la stessa persona, a seconda delle occasioni) è mosso dall’esigenza di esprimersi e di riconoscersi in certi simboli, azioni, collettività. Per chi opera secondo la logica dell’utilità ciascuna azione comporta un costo, che deve valere la pena di sostenere se vi è l’attesa di un beneficio superiore, sicché la partecipazione a un’azione collettiva verrà meno se non è giustificata dall’utilità attesa. Ecco perché gli egoisti razionali di cui ha parlato Olson spesso si comportano da free riders. Per chi opera secondo la logica dell’identità, invece, certe azioni hanno in sé, per così dire, la loro ricompensa. Nel caso puro la partecipazione, allora, non sarà il frutto di un calcolo quale quello anzidetto, bensì l’esito di una spinta interiore.
L’indentità individuale ha a che fare con la storia delle persone, nel senso che ciascuno racconta se stesso e viene raccontato da altri in certi modi, non sempre tra loro convergenti. Le storie presuppongono una memoria, che per sua natura è selettiva, lascia cadere certi fatti e ne tiene a portata di ricordo altri. Talora (ma non sempre, non per tutti) vi è anche una certa capacità di mentire, anzitutto a se stessi. C’è anche il passare del tempo. Dopo trenta o quarant’anni si è le stesse persone che si era trenta o quarant’anni prima? Magari Ego lo crede, ma se si reincontra con Alter con cui si conosceva bene tanto tempo fa, questi potrà rendersi conto, più o meno facilmente, più o meno dolorosamente, che Ego adesso ha altre priorità, altri valori, non è più lui, non è più quello di una volta ed è pronto, possibilmente senza ammetterlo con se stesso, a sacrificare ricordi, rapporti, valori di un tempo (quindi pezzi della sua identità) a vantaggio di convenienze e urgenze dell’oggi. D’altro canto, vi sono anche persone che avvertono acutamente la necessità della coerenza, e sono quindi più adatte a certe rinunce o a certi sacrifici, che sono pronte a compiere proprio per mantenere la propria identità.
Siamo così arrivati a toccare il tema della percezione della nostra identità da parte degli altri (oltre che attraverso la nostra stessa auto-percezione). Si parla quindi del modo in cui noi cerchiamo di rappresentarci, il che ha anche a che fare con le reputazioni, più o meno evanescenti, più o meno solide. La costruzione dell’identità di cui al titolo di queste note si può intendere in senso lato. Non solo costruzione come faticoso processo che parte dalla nascita e si compie in genere durante l’adolescenza, attraverso il quale l’individuo apprende e in parte decide chi è, che cosa vuole, come intende vivere la propria vita. Nell’idea di costruzione c’è anche quella di artificio, di qualcosa che viene assemblata in un certo modo, ma avrebbe potuto essere messa insieme anche diversamente, e magari lo sarà in futuro. Si può avere anche modificazione, manipolazione, distorsione, financo decostruzione, distruzione, ricostruzione di un’identità. Talora da parte nostra, ma spesso da parte di altri.
In taluni casi ciò avviene in modo cooperativo e a fin di bene. Si pensi al collaboratore di giustizia inserito in un programma di protezione, che appunto assume un’altra identità, cambia residenza insieme ai propri familiari, cambia vita, diventa un altro.
Ma possono darsi anche casi in cui l’identità del soggetto viene repressa, violata, negata, come è talora avvenuto nelle istituzioni totali, o al massimo grado nei campi di concentrameno e nei gulag.
Anche nella vita di tutti i giorni possono avvenire, più in piccolo, casi più o meno interessanti di decostruzione e rifacimento delle identità. Talora in base a strategie dei loro titolari. Talaltra perché vi sono altri interessati a farlo. Le nuove tecnologie offrono possibilità inedite al proposito, alle quali ancora non siamo abituati (almeno, alcuni di noi non lo sono). È facilissimo, oggi, rilevare, ritagliare e riproporre un’immagine, un atteggiamento, un momento intimo, un brano di conversazione, una dichiarazione che qualcuno ha fatto o scritto senza pensarci molto su, e consegnarla per l’eternità al web (o magari minacciare di farlo), immortalando in un certo modo un dato individuo, inchiodandolo quindi a una certa versione della sua identità, anche se il più delle volte nella sua vita normale questi si conduce e si atteggia in modo affatto differente. Come dicevo, l’identità è composta di memoria, ma la memoria non può e non deve essere totalizzante. Le cose meno importanti, così come le cose che appartengono alla sfera privatissima, vanno depurate, dovrebbero essere, se del caso, oggetto di un oblio anche istantaneo, ovvero messe nella loro giusta collocazione.
Non è facile essere autentici. La precondizione è, anzitutto, di sapere bene chi siamo. Occorre poi voler difendere questa nostra identità. Non tutti sono in questa condizione, non tutti sanno farlo, o decidono di farlo. Ciononostante, anche in un mondo in cui una certa inautenticità è piuttosto diffusa, credo sia ancora difendibile l’idea che il padrone della propria identità dovrebbe essere ciascun individuo, non qualcun altro al suo posto.