EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Criminologia e Criminologia mediatica, un difficile parallelismo

di Edoardo Orlandi e Barbara Gualco

 

Potrebbe essere definito come un fatto, di quelli vicini al livello di certezza, dimostrabile quotidianamente: quel fascino oscuro nascosto dietro il fenomeno criminale ha portato ad una dicotomia tra la figura – effettiva – del criminologo e quella idealizzata da parte dell’opinione pubblica.

Ed è un fatto, riscontrabile attraverso la semplice accensione dell’apparecchio televisivo e la sintonizzazione di questo su un qualunque canale ed in una qualsiasi fascia oraria. Perché quella che era la fascia protetta – ormai – rappresenta un confine labile, soggetto ai più mutevoli e confusi arbitri.

Cinema e Serie tv, hanno da sempre raccolto l’eredità di quella letteratura – splendida – dalla copertina gialla e dalle tinte noir, assumendo ad oggetto delle loro pellicole il fenomeno criminale e facendone, oltretutto, un filone prolifico e di successo regalando alla memoria del pubblico capolavori immortali. Hanno poi descritto, spesso come protagonisti, affascinanti figure, chiamate criminologi, con abilità e caratteristiche molto più vicine a quelle del medium o del veggente, rispetto a quelle dello studioso del fenomeno criminale. Soggetti capaci di immedesimarsi nell’omicida rivivendo in prima persona le dinamiche del fatto delittuoso e riuscendo a carpire da una forchetta spostata su un tavolo perfino le preferenze culinarie dell’assassino ed anche relative intolleranze alimentari. Il tutto, ovviamente, avvalorato dal finale del film che porta le intuizioni del criminologo di turno all’effettivo ritratto minuzioso e certosino del colpevole, dell’assassino seriale che trovava così nell’astuto e scaltro criminologo la sua nemesi.

Risultato, questo, che se fosse rimasto incasellato all’interno del mero immaginario cinematografico non avrebbe recato alcun danno alla figura del criminologo, ma anzi, forse ne avrebbe accresciuto l’interesse attorno alla professione.

Il problema è che così non è stato.

Questo filone romanzato della figura del criminologo è esondato dai sui argini fino a travolgere ed insinuarsi all’interno dell’immaginario collettivo, che vede, ora, il criminologo come solo colui che dà la caccia ai serial killer, andando bene oltre quindi, quella criminologia immaginata dai propri fondatori convenzionalmente ed universalmente riconosciuti come Cesare Lombroso, Enrico Ferri e Raffaele Garofalo[1].

Ed è a ben vedere che, forse, gli effetti negativi sono stati – sfortunatamente – maggiori.

Ha creato, difatti, proiezioni – sbiadite – di quei criminologi protagonisti dei film che oggigiorno cavalcano i mass media sfruttando quell’appeal cinematografico identificandosi così in un criminologo mediatico lontano dai canoni della criminologia – quella vera – e più vicino ai loro colleghi in carta di cellulosa.

Fenomeno, quest’ultimo, che crea, oltretutto, un circolo vizioso, ove, un già errato convincimento, viene alimentato da soggetti che si presentano e si muovono come rappresentazioni di quell’erroneo immaginario.

Il criminologo mediatico sembra, appunto, farsi latore di una forma di criminologia molto più vicina a quella del criminal profiling, che si identifica ed esaurisce nella solo pratica abduttiva. Lungi dal voler etichettare come inutile la pratica di profiling, ne critichiamo qui l’uso distorto che ne viene propinato e pubblicizzato. Si perviene, difatti, al rischio che la criminologia venga identificato come sinonimo di criminal profiling ed il criminologo come il solo profiler. Eppure, tale rischio, non viene considerato da chi, su quelle poltrone parla quotidianamente del fatto delittuoso, livellandolo ad una problematica di gossip o mondanità ove lo share rappresenta il vero indice della qualità di un prodotto.

Il profiling si pone l’obiettivo di individuare, attraverso l’analisi di fatti noti risultanti dalla scena del crimine consistente nelle dinamiche omicidiare e caratteristiche vittimologiche, l’ignoto autore materiale dei fatti, tracciandone appunto un profilo[2]. E’ uno strumento, pregevole ed interessante e bisognevole sicuramente di maggior attenzione, che tenta di ricostruire attraverso la casistica la figura di un soggetto sconosciuto autore di un fatto delittuoso ma senza aver l’ardire o la pretesa di professarsi come necessario mezzo di prova.

Così però non sembra per la criminologia mediatica che addita il mancato apporto nell’indagine del profiling come un imperdonabile errore che – inspiegabilmente – viene commesso ogni volta.

Ed allora il seme del dubbio inizia a propagarsi divenendo baluardo primo dei cortei che richiedono la figura di quell’esperto profiler – visto in televisione come personaggio di fantasia ed incarnato poi in vere persone fisiche nell’ambito dei programmi a tema noir – come l’unica portatrice di quella verità che i ciechi inquirenti ancora non riescono a vedere.

Ed allora è questo forse il terreno più fertile della criminologia mediatica: il dubbio.

I casi irrisolti, di quelli privi di confessione e quindi con sentenze frutto del processo probatorio, i “grandi misteri d’Italia”. Questi sono preda della criminologia mediatica che non perde occasione di professarsi come perito del caso ma poi si inoltra in un campo scientifico che o non gli compete o viene trattato con superficialità e banalità.

Si arriva, conseguentemente, perfino a svilire l’operato della giustizia ordinaria, di quei soggetti che sul campo sono i veri ed univi protagonisti della fase prima d’indagine e poi dibattimentale, creando ed alimentando una nuova verità, indicibile, nascosta, celata da un velo d’omertà, che solo la loro figura di criminologo riesce a scoprire e vedere.

Sembrerebbe, quindi, che la criminologia mediatica concentri il suo operato sul solleticare l’interesse dello spettatore sventagliando l’ipotesi del sospetto, del complotto.

 

In quella che è la patria del criminal profiling, questa metodologia è impartita a quei soggetti che operano direttamente sul campo nel locus commissi delicti. Avvicinandosi quindi a quella che è la criminalistica più che la criminologia.

E qui si apre un altro problema. Più di definizione ma che spesso genera confusione.

Criminologia e criminalistica sono due discipline diverse. La seconda, seppur tante volte confusa con la prima, rappresenta l’insieme delle tecniche di indagine volta alla individuazione del soggetto autore materiale del reato[3].

Si comprende quindi come già dalla seppur abbozzata definizioni di cui sopra come il profiling si avvicini più alla seconda che alla prima essendo d’aiuto, più che per lo studio del fenomeno deviante, per la ricerca del colpevole.

E sembra strano che quella criminologia mediatica che propina e decanta il profiling – o meglio, una sua nostrana rivisitazione da salotto utile solo allo share ed all’innalzare la vendita di un libro – come la soluzione ai problemi d’indagine, dimentichi di sottolineare come questo sia un aspetto che riguarda un campo profondamente diverso dalla criminologia.

 

Quanti sono i programmi e le pagine di giornale che ogni giorno trattano casi di cronaca, “vendendoli” – e mai termine potrebbe essere più adeguato – a quel pubblico così avido di macabro intrattenimento?

Quanti sono i libri che troviamo nelle librerie, dalle copertine accattivanti, che sotto la firma di criminologi trattano, rivedono, riscrivano – come portatori di nuove verità – casi di cronaca nera vecchi anche di decine e decide di anni?

Sappiamo, è cosa nota ormai, come all’attività investigativa degli inquirenti durante le fasi processuali se ne affianca un’altra, parallela ma invadente, condotta dai media.

E’ una fase di indagine che gode, fra i tanti, del privilegio della non contingenza del caso. Non si attiva al compimento del fatto delittuoso, né tantomeno si esaurisce con questo, ma permane nel tempo, affrontando e discutendo casi di cronaca anche decenni dopo il loro accadimento.

L’interesse per il nero non celebra alcun pensionamento. Permane sempre, alimentato dal fuoco del mistero che viene tenuto vivo dall’opera dei media generando ed instillando così un costante dubbio sulla ricostruzione della verità del corpo inquirente.

Pensiamo a quanto pericoloso sia attaccare costantemente quella verità in cerca di costruzione, magari influendo negativamente sulle indagini e su quel processo di formazione e decisione che – ricordiamo – dovrebbe essere terzo ed imparziale.

Quanto può essere opportuno bombardare mediatamente quell’opinione pubblica di cui fanno parte quegli stessi soggetti protagonisti dell’indagine che – immaginiamo – con estrema fatica e professionalità devono riuscire ad isolarsi da tale “propaganda”.

E’, davvero utile, mercificare l’evento di reato ricostruendo un sistema processuale attraverso servizi e programmi che sotto il paravento del “diritto di informazione” livellano eventi che sfortunatamente riguardano la vita delle persone, ad un discussione da salotto. Quanto la vita di una persona può essere stressata dalla continua discussione mediatica. E soprattutto, a che prezzo. Forse fino a quello in cui a venire mitizzata è la figura del reo e non della vittima. E’ l’assassino il protagonista, che rimane impresso nella memoria delle persone oltrepassando anche i secoli, mentre quello della vittima gradualmente scompare, ci sfugge, come preso da un vortice e spinto là, più lontano.

Potremo giocare a ricordarci i nomi degli assassini, che rimangono nel tempo e constatare invece come quelli delle vittime, piano piano si perdono nel tempo. Restano vividi solo agli inizi, spesso accostati ad un “chi ha ucciso X?”, ma poi si perdono nei meandri della memoria rimanendo impressa solo in quella dei cari che ne hanno subito la perdita.

Ma il nome dell’assassino no. Quello rimane, indelebile, nella mente di tutti.

Possiamo, allora, escludere con assoluta certezza che il bombing mediatico non sia, per l’omicida, che magari vi assiste, una valorizzazione della sua posizione. Ci è davvero permesso il lusso di non considerare l’ipotesi che la continua trattazione giornaliera non sia una spinta per l’omicida impunito ad uccidere di nuovo, per l’indagato a cavalcare il consenso dell’opinione pubblica o a rimenavi irrimediabilmente compromesso, o – non dimentichiamocelo – per la vittima a sentirsi ancora più tale[4].

E la figura dell’indagato o imputato?

Quanti possono essere dati in pasto al pubblico stigmatizzati come mostri, come colpevoli, come bestie dai giornali, tv e programmi per poi risultare, magari, come innocenti.

Al giorno d’oggi, con l’avvento di forme di medianicità più invasive (social network), non possiamo non considerare quanto questo aspetto entri prepotentemente e dannosamente all’interno di quel processo che scaturisce da un fatto di reato fino alla sua risoluzione. Il tutto, oltretutto, spacciandolo talvolta per una criminologia costituita esclusivamente dal “parlare di casi di omicidio”.

Ci troviamo ora di fronte alla estrema necessità di individuare nettamente quali siano i confini tra quella che è criminologia-scientifica e quello spauracchio costituito dalla dannosa criminologia mediatica.

L’apporto della criminologia, in quanto materia per sua natura multidisciplinare, può e deve ricoprire i più vari aspetti che attorniano il fenomeno criminale, che sia questa operata attraverso il profilo del giurista, dello psicologo, dello psichiatria, del medico-legale o dell’assistente sociale. Ed ognuno di questi profili contribuisce allo sviluppo della scientificità e serietà della materia.

La criminologia ha una sua componente operativa, positiva, senza trascurare quella importantissima, di studio, volta alla prevenzione dello stesso fenomeno criminale. E’ un criminologo, di quelli veri, il ricercatore universitario in tale ambito, il docente, il perito, il medico, lo psichiatra, lo psicologo che svolge la sua professione criminologica al fine di giungere ad una componente fattuale di prevenzione del reato.

Ed è forse qui che possiamo trovare uno forte quid di demarcazione tra le due criminologie.

Una di queste, studia il fenomeno criminale per comprenderlo e per trovarne quegli aspetti caratteristici ove poi improntare la strategia di prevenzione e repressione; è l’altra criminologia quella che studia l’evento delittuoso al fine di individuare un errore degli inquirenti e poter affermare una propria verità. E’ l’altra criminologia quella che si focalizza su un fatto storico per poter evincere i soli aspetti macabri da gettare in pasto all’opinione pubblica.

E’ la criminologia che studia l’evento criminale evidenziandone gli aspetti riconducibili a medicina, psicologia, psichiatria, sociologia così da trarne linfa per lo studio e la scienza. E’ l’altra criminologia quella che usa il delitto per sedersi in poltrona ed a telecamere accese puntare il dito contro il mal operato altrui o verso un colpevole “evidente” – per loro – sfuggito alle indagini.

E’ la criminologia che si sviluppa in una ottica quindi di prevenzione non solo primaria, ma anche terziaria – che rappresenterebbe una ghiottissima opportunità per trasformare l’esperienza scientifica in concrete ipotesi di trattamento – ed allontanarsi così dai rischi di accomunamento con l’altra criminologia magari, ora, in onda.

 

 

[1] Fornari, U., Trattato di Psichiatria Forense, Utet, 2008.

[2] Palermo G., Offender Profiling: an introduction to the sociopsychological analysis of violent crime. Spriengfield, 2005

[3] Gianniti F., Criminalistica. Le discipline penalistiche e criminologiche nei loro collegamenti, Milano, Giuffrè, 2011

[4] Bandini T., e altri, Il contributo della ricerca alla conoscenza del crimine e della reazione sociale, Giuffrè, Milano, 1991

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