di Adriano Fabris
1. Ci sono due aspetti da tenere ben presenti per quanto riguarda la situazione in cui tutti noi, oggi, ci troviamo a comunicare. Il primo è che viviamo una situazione complessa e articolata, come mai in precedenza, anche per quanto riguarda le nostre esperienze comunicative. Il secondo è che questa situazione, con la quale interagiamo, incide quotidianamente sui nostri comportamenti e li modifica in profondità.
Analizziamo in breve questi aspetti. Essi rimandano, per un verso, al formarsi di una vera e propria cultura digitale e, per altro verso, al suo intrecciarsi sempre più stretto con la dimensione antropologica che propriamente ci caratterizza. Tutto ciò, naturalmente, non può non avere conseguenze sia sulle dinamiche dell’apprendimento che sulle forme della didattica.
La complessità della situazione comunicativa in cui oggi viviamo è il risultato, anche, dei recenti sviluppi non solo della comunicazione interumana, ma anche, più in generale. di quella che interessa comunque e coinvolge gli esseri umani, pur essendo prodotta da apparati tecnologici. Da un lato, tali sviluppi sono caratterizzati dal moltiplicarsi degli strumenti e dei dispositivi attraverso cui avviene la comunicazione, i quali s’intrecciano e si combinano tra loro in nuovi apparati ormai capillarmente diffusi. Dall’altro lato, il comunicare stesso, anche grazie al proliferare di tali apparati, è radicalmente mutato: da modalità di relazione esso si è trasformato in ambiente di vita.
Gli strumenti e i dispositivi, naturali e artificiali, di cui facciamo uso comunicando sono ad esempio, nell’ordine in cui si sono storicamente presentati, la parola parlata e la parola scritta (ad esempio in un libro), i suoni diffusi via radio e le immagini trasmesse in televisione, i dati condivisi telematicamente e tutto ciò che consente di diffonderli e di rilanciarli. Riguardo al loro uso abbiamo tutti una qualche competenza: maggiore o minore a seconda della nostra più o meno grande capacità d’interagire con determinati apparati. In ogni caso è inevitabile, oggi, avere una certa familiarità nei confronti di ciascuna di queste modalità comunicative. Siamo infatti – così si dice – multitasking. E lo sono, sempre di più, i nostri ragazzi. Ma tutti, sia noi che loro, dobbiamo essere in grado di utilizzare appropriatamente questa molteplicità di strumenti. Dobbiamo saper parlare e saper scrivere, saper decodificare le immagini e saper navigare su Internet[1].
L’espressione “appropriatamente”, tuttavia, non rimanda solo a una competenza tecnica. Indica, ancor di più, la consapevolezza del significato e delle conseguenze nell’uso di certi strumenti. Implica una preparazione e un’educazione specifiche. È questa la chiave di volta di ogni competenza comunicativa. È questo ciò su cui, anche e soprattutto, dobbiamo insistere per delineare forme di apprendimento adatte alle trasformazioni in corso.
Oggi, tuttavia, si verifica anche qualcos’altro. Ce ne accorgiamo proprio nel mentre che comunichiamo. Quando infatti, giovani o adulti, condividiamo per esempio un post, carichiamo una foto su Instagram o informiamo di qualcosa il nostro gruppo su WhatsApp, ciò che facciamo non è solo l’utilizzo di un dispositivo. Piuttosto, grazie all’uso del dispositivo stesso, è l’occasione di abitare una serie di contesti che integrano la mia vita quotidiana (quella al di fuori della rete, cioè quella offline) e che, in alcuni casi, a essa si sovrappongono e con essa si confondono. Si tratta di un aspetto specifico, ulteriore, che ci viene offerto dalle tecnologie. Queste ultime, infatti, non vengono semplicemente utilizzate dagli esseri umani, non dipendono solo da essi per il loro funzionamento, ma offrono, in maniera quasi indipendente, specifici contesti all’interno dei quali gli stessi esseri umani possono esprimersi e sviluppare relazioni. Sono, ripeto, nuovi spazi da abitare[2]. E coloro che anzitutto li abitano, quotidianamente, sono appunto i nostri ragazzi. Soprattutto fuori, ma anche dentro gli ambienti scolastici.
Con tali situazioni, certo, abbiamo imparato a convivere. Ciò si verifica a maggior ragione in quanto i due aspetti che ho segnalato – la comunicazione come strumento e la comunicazione come ambiente – sono in realtà strettamente intrecciati fra loro. Proprio per questo le nostre competenze nel campo della comunicazione hanno dovuto, di necessità, ampliarsi. Non ci siamo certo dimenticati di come si fa a parlare quando abbiamo imparato a scrivere; non abbiamo cessato di leggere e scrivere quando ci siamo messi davanti alla televisione (anche se abbiamo dovuto comunque dividere il nostro tempo tra le relazioni faccia a faccia, i libri e la tv, disimparando magari, a forza di stare davanti allo schermo, il piacere della lettura o dell’incontro interpersonale). E indubbiamente continuiamo a guardare la televisione, a leggere e a parlare, anche se passiamo molto tempo collegati ai Social Network.
Proprio qui, comunque, emerge il fatto che la comunicazione, anche in questi suoi aspetti, possiede una ben marcata valenza antropologica, riguarda cioè l’essere umano in quanto tale e nella molteplicità delle sue espressioni. Non si tratta certo di una novità, dal momento che già Aristotele aveva definito l’uomo, nella sua essenza, come un «animale dotato di logos», cioè di capacità comunicativa. Oggi tuttavia questo si verifica in maniera molto più articolata e complessa di quanto non accadesse ai tempi di Aristotele: alla comunicazione, di nuovo, si accede attraverso molti dispositivi e, nel contempo, si vive come ambiente. Oggi ci troviamo sempre di più immersi in quella che è una vera e propria cultura digitale. Si tratta di qualcosa che ci sfida non solo nella vita quotidiana, ma anche e soprattutto nella nostra missione di insegnanti.
2.In tale quadro emergono alcune sfide ben specifiche che è inevitabile assumere nell’ambito della didattica, affinché i processi dell’apprendimento non risultino scollati dalle esperienze quotidianamente vissute dagli studenti. Ciò da cui bisogna partire è proprio il fatto che gli strumenti che usiamo per comunicare non sono semplicemente mezzi di comunicazione, ma danno accesso a un ambiente che è caratterizzato da una grande attrattività e che incide in maniera profonda sulle vite delle giovani generazioni. Esso dunque non può essere semplicemente rigettato o messo in concorrenza rispetto all’ambiente scolastico. La competizione, infatti, sarebbe già perduta in partenza: basti guardare l’interesse quasi esclusivo che i nostri ragazzi prestano alle forme di comunicazione offerte dalle reti sociali (rispetto alle interazioni faccia a faccia); basti vedere come essi considerino scontato, “naturale”, adattarsi alla loro logica (rinunciando senza problemi alla privacy, alla riservatezza, finanche al senso del pudore).
Rispetto a ciò è necessario pensare a una scuola che includa, non già che escluda l’utilizzo dei devices tecnologici, e che se ne serva per i propri scopi. Dev’essere perseguita cioè una vera e propria integrazione del loro uso nei contesti di apprendimento. Ciò non vale solo allo scopo di favorire una didattica più efficace e meno avulsa da ciò che comunemente viene vissuto da tanti studenti. Ciò mira, più in generale, al raggiungimento del benessere e dell’equilibrio psicofisico di tutte le persone coinvolte negli ambienti scolastici: in primis gli insegnanti. Non è possibile infatti introdurre una tensione fra ciò che accade nella scuola e la vita quotidiana, tra l’impegno e lo svago, tra la realtà e i mondi virtuali.
La questione centrale, però, riguarda come dev’essere concepita e realizzata, in forme concrete, tale inclusione. Ecco l’aspetto decisivo. Ci dev’essere infatti un punto di equilibrio tra le esigenze dell’apprendimento e le opportunità a cui danno accesso gli apparati tecnologici. Tali opportunità hanno di solito risvolti di carattere ludico oppure commerciale. L’apprendimento, invece, è ben altra cosa.
Sorgono dunque domande specifiche, che risultano, oggi, ineludibili. In che modo, anzitutto, l’uso dei dispositivi tecnologici può contribuire all’apprendimento nel caso delle giovani generazioni, senza produrre distrazioni o provocare conflitti con la didattica tradizionale? Ciò può accadere nel caso di tutte le discipline? Può verificarsi qualunque sia l’età degli studenti?
Si tratta di domande che da tempo stanno interessando, certamente, pedagogisti, psicologi, esperti di comunicazione, studiosi delle tecnologie, ma che anzitutto sono decisive per gli insegnanti. Le risposte che a esse sono state finora date, in vari paesi del mondo, risultano talvolta diverse fra loro. Comune, però, è la consapevolezza che sia necessario affrontare il problema, e che si debba giungere in maniera condivisa a forme concrete di regolamentazione. In Italia il MIUR ha istituito qualche tempo fa un gruppo di lavoro, che alla fine dei suoi lavori ha proposto alcune linee guida sull’argomento. Esse saranno offerte al dibattito pubblico. Presentati già alla stampa sono stati invece dieci punti più sintetici relativi al tema: una sorta di “decalogo” che può fornire ai docenti interessati, e mettere al vaglio del loro libero giudizio, alcune indicazioni di fondo[3].
In ogni caso, al di là delle legittime preoccupazioni che sull’argomento sono condivise dalle famiglie e dagli insegnanti, la questione di fondo è proprio la seguente: l’uso dei dispositivi digitali nella scuola può comportare rischi in ambito educativo solo se non viene adeguatamente regolamentato. È necessario dunque lavorare a una regolamentazione, non già dar semplicemente voce a un atteggiamento di rigetto. Insomma: il divieto di utilizzo a scuola dei dispositivi tecnologici, in questo caso, non paga. Sarebbe come, di fronte all’indubbia esistenza di disturbi alimentari, se si costringesse tutti quanti al digiuno, invece che educare a corrette forme di nutrizione.
Proprio in relazione a ciò, in conclusione, desidero specificare alcuni criteri di fondo che possono ispirare qualsiasi concreta regolamentazione che possa essere condivisa. Si tratta di criteri in grado di dar adito a specifiche strategie didattiche. Sarà però la creatività dei docenti, nel lavoro in classe, a renderle tali strategie qualcosa di vivo e di efficace.
Bisogna anzitutto insegnare a un uso critico dei dispositivi multimediali e di ciò a cui essi danno accesso. Ciò significa: allenare anche a un distacco da essi, e a una consapevolezza di ciò che “sta dietro” ai loro meccanismi. Tali meccanismi, infatti, non sono mai neutri, ma sono governati da logiche ben precise e spesso motivati da specifici interessi. Emerge così un’attenzione per l’aspetto etico dell’agire comunicativo. Bisogna capire che non basta saper comunicare, anche attraverso i vari devices, ma che bisogna imparare a comunicare bene.
È necessario poi utilizzare questi strumenti all’interno di un progetto didattico ben preciso e subordinatamente a esso. Il che vuol dire: è necessario finalizzare il loro utilizzo inglobandolo nei processi di apprendimento, evitando però che tali apparati siano utilizzati per altri scopi, magari concorrenziali a quelli da raggiungere in ambito scolastico. Ciò può essere ottenuto anche inibendo l’accesso a certi siti o, comunque, definendo regole precise di connessione. Si deve ritmare l’uso e il non uso dei dispositivi digitali.
È necessario infine essere sempre in grado di attivare, nell’utilizzo dei devices digitali, quella che può essere considerata l’opzione finale: il loro spegnimento. L’esperienza di alcune scuole, di promuovere cioè l’astinenza dall’uso di tali strumenti per un certo periodo, può essere considerata certo utile, ma sempre finalizzata a far emergere il significato vero dell’accesso ai mondi virtuali e le conseguenze che tale accesso ha sulla nostra vita. Lo spegnimento, talvolta, può essere inteso anche come una punizione. Ma non va considerata come una forma di rigetto o di demonizzazione a priori. La sfida, infatti, rimane quella d’incanalare in maniera corretta l’uso degli apparati tecnologici in tutte le pratiche della scuola, aprendo grazie a essi ulteriori e feconde possibilità di apprendimento.
[1] Per un approfondimento di queste forme e di questi strumenti del comunicare si veda il Dizionario della comunicazione, a cura di D.E. Viganò, Carocci, Roma 2009.
[2] Sull’argomento si veda A. Fabris, Etica delle nuove tecnologie, La Scuola, Brescia 2012; R. Eugeni, La società postmediale, La Scuola, Brescia 2016.
[3] Esso può essere consultato, in versione ufficiale, in allegato al link: http://www.miur.gov.it/web/guest/-/scuola-fedeli-a-futura-la-sfida-dell-innovazione-si-vince-sviluppando-spirito-critico-e-responsabilita-