di Francesca Rifiuti
“Quando ero piccola
stavo sul marciapiede
e guardavo il mondo.
Da lì sembrava sicuro.”
(Un’improvvisa felicità – G. Kuijer)
La storia di Anneke
Quando ho incontrato Anneke per la prima volta, mi è sembrata fin dal primo momento molto stanca e demotivata. È arrivata da me per difficoltà nello studio, nell’organizzazione del materiale e nella comprensione e memorizzazione dei contenuti. L’esame di terza media si stava avvicinando e Anneke aveva bisogno di qualcuno che le desse una mano per trovare una giusta strategia e un buon metodo per ripassare tutto il vastissimo programma scolastico.
Nella sua famiglia (i Mannucci), la scuola e i voti hanno un’importanza enorme e il padre in particolare, preciso e organizzato, è molto esigente nei suoi confronti: passa molto, forse troppo tempo ad aiutare Anneke nello studio, spiegandole gli argomenti e affiancandola nello svolgimento degli esercizi. Anneke tuttavia, nonostante intere giornate e interi fine settimana passati sui libri a studiare, non riesce a raggiungere risultati all’altezza di queste aspettative troppo elevate. Questo la rende sempre insoddisfatta e demotivata nei confronti del suo futuro scolastico e non. La madre, di origini olandesi, è invece più simile a lei, poco organizzata negli impegni e un po’ “con la testa fra le nuvole”. Anneke ha anche un fratello, Andrea, che è uguale al padre, meticoloso e bravissimo a scuola: “È proprio un Mannucci!”, dice Anneke di lui. Durante un colloquio individuale, alla domanda “Come ti immagini tra qualche anno, alla scuola superiore?”, Anneke risponde: “Mi immagino più Mannucci! Brava a scuola e sempre organizzata. È così che dovrei essere per facilitarmi la vita”.
Anneke è una ragazza insoddisfatta, poco sicura di sé e con uno scarso livello di autostima, che tende ad arrendersi con molta facilità e ad avere una visione pessimistica del suo futuro. Ha imparato alcune cose di se stessa durante la scuola media: “non sono brava a scuola”, “non ha senso impegnarsi”, “ho poche capacità”, “non valgo quanto mio fratello”, “non sarò mai all’altezza delle aspettative di mio padre”.
Anneke non ha molti amici: è una ragazza solitaria, che ha difficoltà a socializzare e che viene spesso esclusa dalle attività di gruppo.
Un giorno Anneke torna da scuola, accende il suo smartphone e si accorge di quel bollino rosso sull’icona di Whatsapp. Il numero scritto sopra è incredibile: 150 messaggi non letti.
Quando apre l’app, scopre che alcuni dei suoi compagni di classe hanno creato un gruppo dal titolo inequivocabile: “Gruppo contro Anneke!”. E lei è una dei membri.
All’interno del gruppo, Anneke legge messaggi offensivi, trova fotomontaggi imbarazzanti e decine di inviti a suicidarsi e a farsi del male. Si chiede perché, si domanda quali possano essere le ragioni di un’azione simile; non trova spiegazioni che la soddisfano pienamente, quindi dà la colpa a se stessa, perché sente di essere una nullità e pensa che forse i compagni hanno ragione, farebbe meglio a togliersi dai piedi, in fondo loro neanche se ne accorgerebbero.
Anneke vive in completa solitudine questa esperienza, non racconta niente ai genitori, ma inizia a rispondere a tono, ad avere scatti di rabbia e di aggressività prima assenti. Fa la terza media e non vede l’ora di andarsene da quella scuola che le ha fatto vivere tre anni infernali, all’insegna delle prese in giro, dell’isolamento e della totale noncuranza dei professori, attenti solo ai suoi brutti voti e al suo scarso impegno nello studio. Anneke è forte, resiste. Il gruppo su Whatsapp viene cancellato e la situazione migliora, anche se questa esperienza resterà indelebile nella sua storia e avrà sempre un peso nelle sue relazioni con i pari: Anneke farà fatica a fidarsi e ad affidarsi, si sentirà spesso minacciata, avrà il timore di essere pugnalata alle spalle, continuerà probabilmente a isolarsi il più possibile, in modo da non incorrere di nuovo in sofferenze così forti.
Secondo il vocabolario Garzanti (www.garzantilinguistica.it), la parola “virtuale”, nella sfumatura utile per far luce sull’argomento di questo articolo, significa simulato, riprodotto per mezzo di strumenti elettronici e informatici (un incontro di calcio virtuale; realtà virtuale, amicizie virtuali strette in chat, community ecc.). Ma è davvero così? Un atto di bullismo praticato in rete o attraverso smartphone e computer, può davvero essere considerato semplicemente simulazione del bullismo nella sua accezione classica? C’è davvero questa forte distinzione oggi, tra ciò che accade a scuola, in casa, ai giardini, a lavoro e quello che invece ci succede online, sui Social Network, nelle community?
Il cyberbullismo è un fenomeno nuovo e complesso, poco controllabile, subdolo. Tante ricerche sono state portate avanti nell’ultimo periodo, per far luce su questa problematica, presente già da alcuni anni. Oggi viviamo in un mondo in cui le nuove tecnologie sono indispensabili e irrinunciabili, in cui, se non siamo multitasking, ci perdiamo qualcosa e non riusciamo a stare al passo con ciò che succede. La tecnologia e la nostra identità virtuale ci permettono di ampliare la rete di conoscenze, di trovare lavoro, di cercare l’amore, di essere al corrente di tutte le notizie, di creare, pubblicizzare, fotografare, filmare, giocare…chi più ne ha, più ne metta.
Ma la velocità con cui questo avviene, i rapidi cambiamenti nelle tecnologie di cui facciamo uso, ci hanno fatto perdere un po’ la bussola, dobbiamo ammetterlo: non abbiamo avuto il tempo di fermarci a riflettere su cosa è lecito e cosa no, su cosa è troppo e cosa invece è accettabile. Posso postare foto dei miei figli minorenni sul mio profilo? Posso rispondere a tono a quel post che mette in discussione il mio pensiero? Quali impostazioni della privacy posso lasciar perdere e quali invece sono indispensabili?
Quante domande…ma ce le facciamo veramente, oppure prendiamo quello che viene, ci fidiamo del nostro istinto e non prestiamo troppa attenzione? È difficile capire quali siano i comportamenti potenzialmente dannosi che possono essere messi in atto in rete e tramite telefoni e computer, difficile e pericoloso stabilire il confine.
Un po’ di teoria…
Cyberbullismo è un termine coniato nel 2002 da Bill Belsey, un educatore canadese. La definizione che nel 2006 ne ha dato Smith è quella di una particolare tipologia di bullismo, ovvero una modalità volontaria di prevaricazione dell’altro, ripetuta nel tempo, messa in atto attraverso l’utilizzo di uno strumento elettronico, singolarmente o in gruppo, con lo scopo di ferire e umiliare la vittima, che si ritrova a essere indifesa di fronte a questo comportamento.
Willard (2006) descrive alcuni tipi di cyberbullismo sulla base della tipologia di comportamento messo in atto:
– Flaming, ovvero la trasmissione di messaggi violenti, che hanno lo scopo di suscitare litigi e discussioni infervorate.
– Denigration: insulti e diffamazioni inflitti attraverso la pubblicazione o l’invio di pettegolezzi e bugie crudeli che mirano a danneggiare la reputazione della vittima e i suoi rapporti interpersonali.
– Harassment: invio ripetuto nel tempo di messaggi offensivi a una persona.
– Impersonation: furto di identità che avviene tramite l’appropriazione indebita di nickname e password per poter accedere agli account della vittima allo scopo di danneggiarne l’immagine.
– Outing and Trickering: diffusione dei segreti della vittima, di immagini personali o informazioni in qualche modo imbarazzanti, estorte alla persona con l’inganno.
– Exclusion: l’esclusione intenzionale di qualcuno da una chat di gruppo o da una lista di amici.
– Cyberstalking: il continuo invio di messaggi con contenuti minacciosi e offensivi.
Cyberbullismo senza confini
Come possiamo distinguere i fenomeni di bullismo e cyberbullismo? Quali sono le particolarità del cyberbullismo e perché questo tipo di comportamento è considerato così allarmante?
Il bullo è una figura che esiste da sempre, le prevaricazioni e i comportamenti aggressivi nei confronti di soggetti fisicamente più deboli e psicologicamente più fragili sono da sempre presenti, sin dai primi anni di esperienza scolastica. Ma cosa succede quando il bullo reale può conquistare anche spazi virtuali? Il raggio d’azione aumenta, si dilata nel tempo e nello spazio: il bullo non è più tra le mura scolastiche. È dappertutto.
Il virtuale ha questa dolorosa caratteristica per le vittime di bullismo: non ci sono confini fisici, non ci sono limiti d’orario. Il suono della campanella non ferma gli atti di prevaricazione e le umiliazione. Anzi, molto spesso è proprio al termine della giornata scolastica, durante il pomeriggio, che tutto questo inizia a prendere vita e a sfuggire al controllo di tutti. Per le vittime, casa non è più sinonimo di porto sicuro, di intimità e di protezione. Neanche a casa ci si sente tranquilli e non c’è luogo dove ci si possa rifugiare e dove si possa essere certi di non essere trovati.
Il cyberbullo può essere sia una persona conosciuta dalla vittima, la cui identità è palese oppure nascosta da un profilo falso, sia qualcuno di lontano e di sconosciuto, talvolta irrintracciabile e impensabile.
Inoltre, quando ciò che viene utilizzato per umiliare la vittima finisce in rete, difficilmente può essere rimosso: foto, messaggi, offese, video imbarazzanti, fotomontaggi, tutto rimane lì, a portata di chiunque. Il bullo non deve fare altro che premere “invio”, niente di più.
Ecco che allora possiamo parlare di un’altra fondamentale caratteristica di questo fenomeno: la possibilità di anonimato e il disimpegno morale. Postare, inviare messaggi e contenuti multimediali, anziché compiere direttamente atti di prevaricazione, abbassa il livello di responsabilità e permette a chiunque di danneggiare gli altri nascondendosi dietro una falsa identità, dietro un avatar che non corrisponde alla realtà, dietro un nick-name che non provoca sospetti. Il senso della corporeità, del reale e del relazionale viene meno: non ci sono feedback osservabili e tangibili da parte della vittima e questo rende ancora più difficile e improbabile che il bullo riesca a mettersi in contatto empatico con la vittima e ne comprenda le sofferenze.
Tutto avviene lontano dagli occhi e dalle orecchie del prevaricatore e questo genera un disimpegno e una deresponsabilizzazione che sono probabilmente l’aspetto più preoccupante del fenomeno: i cyberbulli molto spesso non hanno le capacità per rendersi conto della gravità dei loro atti e ciò non fa altro che incrementare l’aggressività e la disinibizione.
Chi è il cyberbullo?
Quando ci chiediamo che cosa sia un fenomeno e che cosa possiamo fare per far sì che questo non abbia gravi conseguenze sulla vita delle persone e sulla società, dobbiamo prestare attenzione a tutti gli attori coinvolti. È importante capire il bullo, andare oltre la nostra rabbia, oltre il nostro risentimento e oltre la necessità di trovare la giusta punizione.
Il bullo, solitamente è un bambino o un ragazzo con scarsa capacità di controllo degli impulsi, con bassa tolleranza alla frustrazione e un livello di autostima che ha bisogno di essere nutrito costantemente. È difficile che il bullo riesca a entrare in contatto con le emozioni altrui e a mettersi nei panni dell’altro.
Questi bambini e ragazzi spesso vivono in un contesto familiare caratterizzato da scarso coinvolgimento emotivo e da uno stile educativo permissivo o eccessivamente coercitivo.
In tali tipologie di ambiente non viene certo facilitato lo sviluppo di un buon ascolto empatico, né viene interiorizzato un livello accettabile di regolazione emotiva; anche la capacità di rispettare con serenità le regole e di assumersi le proprie responsabilità è poco incentivata.
Chi è la vittima di cyberbullismo? Torniamo a Anneke…
Anneke è l’esempio che, nella maggior parte dei casi, le vittime non vengono scelte a caso. I bulli molto spesso si scagliano contro ragazzi e ragazze in qualche modo diversi dagli altri, che hanno origini diverse, un altro credo religioso o hanno particolari caratteristiche fisiche. La vittima non riesce facilmente a socializzare e a fare amicizia, per questo solitamente è difficile che trovi un supporto che la aiuti a uscire dalla prevaricazione; il suo livello di autostima è molto basso, il tono dell’umore è spesso depresso e la sensazione è quella di vivere in un costante e infinito stato di solitudine, che da una parte uccide e impaurisce, ma dall’altra parte è vissuta in qualche modo come salvifica, perché protegge da relazioni che sicuramente prima o poi risulterebbero deludenti.
Anneke, in una ricerca scolastica, scrive della terribile esperienza vissuta da Anne Frank, che ha trascorso un lungo periodo nascosta in casa, cercando di sfuggire alla deportazione. Secondo Anneke però, Anne Frank ha in qualche modo avuto fortuna: è riuscita a proteggersi dai dolori che i suoi coetanei avrebbero potuto causarle.
Le emozioni che prendono vita nella vittima sono spesso ambivalenti: c’è rabbia nei confronti degli adulti di riferimento, che non si accorgono della sua sofferenza, ma c’è anche forte senso di colpa perché in qualche modo si responsabilizzano per ciò che sta succedendo loro, non riuscendo a trovare altre spiegazioni.
Prevenzione e contrasto del cyberbullismo: in Italia è legge
“È essenziale potenziare le azioni di prevenzione e di contrasto del cyberbullismo a causa delle conseguenze gravi che possono prodursi: gli episodi di bullismo “virtuali” possono essere più dolorosi di quelli reali, perché l’offesa e la denigrazione hanno, per chi li subisce, un’amplificazione immediata che non si cancella nel tempo.” (DL n. 1261)
In una ricerca di Ipsos per Save the Children, si legge che il 12,5% del campione studiato riconosce di aver utilizzato canali digitali per inviare e diffondere messaggi offensivi nei confronti dei coetanei. Possiamo dedurre allora che la parola “bullo” sia un’etichetta appiccicata addosso ai ragazzi a posteriori, perché nella maggior parte dei casi il bullo non sa di essere tale.
Egli agisce senza riuscire a concedersi un momento di riflessione, pubblica immagini rubate in momenti di debolezza oppure ride di fronte a ciò che gli altri condividono e scrivono riguardo alla vittima: non è consapevole del dolore e della sofferenza che questi atti infliggono, non sa che un gesto, ai suoi occhi privo di importanza, risuona come un’eco in tutti gli ambiti della vita di chi lo subisce, generando solitudine e inettitudine. Non sa di essere responsabile di qualcosa che potrebbe avere gravi ripercussioni nell’esistenza di persone particolarmente vulnerabili.
Sono molti ormai gli studi che associano episodi ripetuti di cyberbullismo a stati depressivi, ansia sociale, condotte auto-aggressive e tentativi di suicidio. Sempre la stessa ricerca italiana di Ipsos evidenzia che questo fenomeno è vissuto dalla maggioranza dei minori come la più grande minaccia al benessere psicofisico e sociale e al rendimento scolastico.
Piano piano si inizia a fare chiarezza riguardo ai rischi del “bullismo virtuale”. In Italia è stato appena approvato dal Senato e dalla Camera all’unanimità, un disegno di legge tra i primi in Europa, per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo. Nel testo si evidenzia la necessità di attivare programmi di prevenzione che non demonizzino l’utilizzo di internet e degli smartphone, ma che ne valorizzino le risorse e le possibilità. Come potrebbe essere altrimenti? Siamo immersi in un contesto in cui il confine tra virtuale e reale è sempre più sfumato, dove se non sei su Facebook non esisti, dove la connessione è indispensabile per la scuola, per il lavoro, per il tempo libero…Come potrebbe il sistema educativo negare l’esistenza di tutto questo?
La priorità è coinvolgere la scuola e le famiglie, i due contesti più importanti in cui i bambini e i ragazzi vivono le loro giornate. È urgente e necessario dare in mano agli adulti di riferimento gli strumenti per riconoscere e contrastare questi fenomeni, affinché possano offrire accoglienza, ascolto e sostegno alle vittime e possano individuare quelle situazioni di rischio, in cui è necessario prendere contatti con professionisti esperti e creare una rete di salvataggio.
Oltre a sottolineare l’importanza di proteggere le vittime e di accertare e reprimere gli illeciti, il Disegno di Legge evidenzia quindi la necessità di avviare prima possibile programmi di educazione ai new media per i minori e di formazione specifica per i docenti delle scuole italiane. È di fondamentale importanza che la Social Media Education sia focalizzata sulla responsabilizzazione e la consapevolezza e sulla capacità di riconoscere che il comportamento messo in atto online è qualcosa che ha ripercussioni nel mondo reale e sulle persone reali.
Ascoltare e connettersi insieme: il ruolo della famiglia
«E se nessuno ti parla, allora ti tocca pensare. E io non facevo altro, allora.
Pensavo tanto che mi faceva male la gola, perché è lì che si fermano le tristezze.»
(Stefano Benni, La Grammatica di Dio)
Molto spesso, come per esempio nel caso di Anneke, i fenomeni di cyberbullismo rimangono nell’ombra: i ragazzi non ne parlano con i genitori, un po’ per i loro vissuti di colpa e vergogna, un po’ anche per il timore di non essere compresi, di sentire minimizzati i loro tormenti e le loro angosce. Chiedere aiuto diventa sempre più difficile e se prima questo poteva essere attribuito al grande divario di conoscenze informatiche e tecnologiche tra le generazioni, adesso non sempre è così. Ora i genitori (in alcuni casi anche i nonni) utilizzano le nuove tecnologie ogni giorno e sanno come muoversi all’interno di questo mondo nuovo. Il risultato? Negli ultimi tempi sono pochi i momenti di condivisione e di dialogo all’interno della famiglia. Anche qui il “virtuale” ha preso il sopravvento sul reale: ognuno ha i suoi spazi, ognuno il suo videogioco, il suo Ipad, il suo smartphone, la sua tv in camera.
Sarebbe importante, adesso più che mai, riprendere contatto con gli aspetti reali delle relazioni: le mille esperienze online di oggi ci fanno perdere il contatto con la corporeità, con l’affetto condiviso e manifestato. Valutiamo ciò che gli altri pensano di noi attraverso il numero di like sotto le nostre foto; “parliamo” di cose anche molto importanti scrivendoci su whatsapp. Tutto questo manda nel dimenticatoio la bellezza dell’incontro tra i corpi, degli abbracci e delle carezze, dei baci della buonanotte. Il virtuale ci fa dimenticare che per raggiungere la connessione utile per nutrire noi stessi e per vivere con maggiore serenità, non serve il wi-fi.
E allora cerchiamo di nuovo questa connessione reale, ascoltiamo veramente i bambini e i ragazzi al ritorno dalla scuola o dall’allenamento, quando chiediamo loro com’è andata; consumiamo i nostri pasti tutti insieme, a tv spenta, con i telefoni lontani dal tavolo. Può sembrare banale, ma la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo iniziano proprio da questi momenti e dalla famiglia stessa, che può imparare a creare contesti e momenti in cui i bambini possono sentirsi al sicuro, contenuti e protetti, liberi di poter manifestare le loro preoccupazioni, le frustrazioni, le insoddisfazioni, le paure e i conflitti. Con la certezza che saranno accolti, compresi e aiutati.
Riferimenti bibliografici
Ferrara, E. et al. (2014). Disegno di Legge n° 1261, consultabile online al link: http://bit.ly/2sftRrA
Olweus, D., (1978), Aggression in the schools: bullies and whipping boys. Washington, D. C:
Hemisphere.
Orietti, F. (2015). Social Network, tra opportunità e rischi. Tesi di Laurea (Università degli Studi di Firenze) consultabile online al link: http://bit.ly/2qHfFps
Pratelli, M., Rifiuti, F. (2016). I Bisogni Educativi Speciali: diagnosi, prevenzione e intervento. Franco Angeli.
Willard N., (2006), Cyberbullying and Cyberthreats. Effectively managing internet use risks in
schools. Retrieved august, 20, 2007