EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Da Bateson a Morin: epistemologia della complessità e pedagogia dell’impegno

 

di Valentina Casirati

 

 

Scriveva Bateson nel 1972: “Io credo che questa massiccia congerie di minacce all’uomo e ai suoi sistemi ecologici sorga da errori nelle nostre abitudini di pensiero a livelli profondi e in parte inconsci” (Bateson, 1976, pp. 507-508). Una simile affermazione rivela come alla base del pensiero di questo autore vi sia un fondamento di natura epistemologica, considerato il punto di partenza imprescindibile per qualsiasi pratica che voglia porsi come realmente ecologica. In questo la concezione di Bateson appare sorprendentemente simile a quella elaborata alcuni decenni più tardi da Edgar Morin, esponente di rilievo di quella pedagogia della complessità che negli ultimi anni tanto ha fatto parlare di sé. Entrambi i pensatori, infatti, elevano il mondo delle idee costruito nel corso delle nostre interazioni quotidiane, e i meccanismi mentali attraverso cui diamo forma al reale, a oggetto privilegiato di indagine, in un’ottica complessa volta a mettere in luce l’empasse rappresentazionista a cui secoli di meccanicismo cartesiano ci hanno abituati.

In un’epoca come quella odierna, in cui il tema ecologico pervade lo scenario immediato e futuro delle nostre esistenze, intrappolate in un mondo sempre più caldo e sempre più inquinato, ostaggio dell’effetto serra e di una minaccia nucleare che si fa sempre più reale, il richiamo a tali riflessioni, lungi dall’essere demodé, diviene forse ancora più significativo. Grazie ai contributi di pensiero di questi due autori l’ecologia comunemente intesa amplia il proprio significato di scienza dedita agli effetti dell’azione umana sull’ambiente, aprendosi a logiche sistemiche che pongono in primo piano il ruolo svolto dai processi conoscitivi nel determinare gli esiti esistenziali della specie umana e del pianeta nel suo insieme. Il valore attuale delle loro elaborazioni, dunque, è una ricaduta sul piano dell’agire concreto in direzione di una realizzazione personale che non può essere concepita avulsa dal più ampio contesto in cui viviamo e di cui siamo “parte interagente”[1]. Di più, una simile concezione complessa, introducendo il tema della responsabilità che scaturisce dall’essere inseriti in una rete di dinamiche planetarie, spiana la strada a una reale trasformazione socio-culturale in cui gli individui, armati di un’identità fluida e aperta a continue rinegoziazioni, ritrovano il senso del loro esistere nell’appartenenza ad una specie in stretta relazione con il mondo che la accoglie.

Ma approfondiamo la disamina delle analogie che avvicinano le elaborazioni teoriche dei nostri due eclettici pensatori, accomunati dalla volontà di mettere in luce la “struttura che connette”[2] e che reinserisce l’essere umano in una rete ecosistemica caratterizzata da una inevitabile “comunità di destino” (Morin, 2001, pp. 120-121).

Innanzitutto la questione metaconoscitiva, che come già accennato rappresenta le fondamenta dell’elaborazione teorica di entrambi gli autori. Laddove Bateson introduce un’“ecologia della mente” (Bateson, 1972) incentrata su una nuova idea di cognizione, da lui proposta quale criterio unificante dell’insieme dei viventi e definita come la capacità di percepire “differenze”[3], ovvero costruire relazioni di tipo mentale tra sé e il mondo esperito, Morin fa riferimento ad una vera e propria sfida epistemologica che costringerebbe l’essere umano a riapprendere ad apprendere, riconoscendo errori ed illusioni insiti nei nostri meccanismi conoscitivi e abituandosi ad “attendersi l’inatteso”. Inoltre, come la distinzione-connessione tra Creatura e Pleroma (la materia inerte priva di qualsiasi istanza informazionale e comunicativa) proposta da Bateson, scavalcando la riduzionistica dicotomia mente-corpo, reinserisce l’uomo all’interno della rete vivente – creaturale, appunto – di cui è parte, una rete di esseri-in-relazione legati da dinamiche interattive in un’incessante “danza”[4] coevolutiva, la pedagogia della complessità moriniana pone l’accento sull’avventura di co-pilotaggio che lega gli esseri umani, abitanti di una “Terra-Patria” (Morin, 2001, p. 77) in pericolo proprio perché dominata da un pensiero atomistico-disgiuntivo che ne maschera la dimensione intimamente relazionale.

In effetti la nostra stessa natura ci porta ad essere vittime compiacenti di un inquinamento mentale che misconosce la matrice sostanzialmente interattiva dei costrutti che utilizziamo per muoverci nel reale; ciò ci rende soggetti ad accecamenti paradigmatici[5] che ci spingono verso l’adesione a Verità incondizionate e trasformano le idee in Miti autoconvalidantisi. Così il Rigore dell’umana ratio, perduta l’Immaginazione che gli faceva da contraltare, si trasforma in Razionalizzazione; e noi, dimentichi delle lenti deformanti che accompagnano il nostro sguardo e grazie a cui, paradossalmente, diamo forma al mondo, cristallizziamo il nostro credere in Dottrina lasciandoci dominare da Idee su cui abbiamo perduto ogni potere.

Ma da quando l’uomo ha perso la sua capacità di revisione critica delle idee che lo abitano? Rifiutando di riconoscerle come parti-in-interazione di sistemi di significato più ampi, abbiamo cancellato in toto la loro natura di costrutti sociali, storici e contestuali, che acquisiscono il loro senso attraverso gli scambi comunicativi. Si tratta di un vero e proprio “peccato” (Manghi, 2000, p. 39) epistemologico che costituisce la pesante eredità lasciataci da quel dualismo cartesiano che, affermatosi con forza nel corso degli ultimi secoli, ha condizionato l’intera storia culturale della nostra specie e il pianeta nel suo insieme; esso ha infatti contribuito a legittimare un pensiero costruito intorno a polarità antinomiche, contrapposizioni inconciliabili riconducibili a quella distinzione di fondo tra res cogitans e res extensa che sancisce la separazione sostanziale dell’uomo dal più vasto mondo che lo accoglie. Tale paradigma di natura rappresentazionista, istituendo una frattura tra essere umano e ambiente, si è rivelato funzionale a logiche di dominio e di controllo proprio perché fondato sull’assunto di un mondo-là-fuori completamente scisso dall’organismo percipiente, e pertanto considerabile altro-da-sé. In pratica, il meccanicismo cartesiano ha offerto all’uomo l’alibi per agire secondo modalità utilitaristiche che, mentre valorizzano un’analisi di tipo quantitativo incentrata sui singoli elementi a discapito delle loro relazioni col contesto, finiscono col legittimare lo sfruttamento di ecosistemi e società meno “sviluppate”[6] in nome di falsi Miti accolti come vere e proprie Rivelazioni.

A tal proposito, sulla scia della batesoniana affermazione che “la mappa non è il territorio”[7],  Morin ci ricorda che “una conoscenza non è uno specchio delle cose o del mondo esterno” (Morin, 2001, p. 18); ciò ha come inevitabile corollario l’impossibilità di sfuggire all’incertezza costitutiva dei meccanismi mentali, poiché “non esiste conoscenza che non sia in qualche misura minacciata dall’errore e dall’illusione” (Morin, 2001, pp. 17-18). Il processo mentale, dunque, avviene in virtù di una serie infinita di “filtri creativi” (Bateson, 1989, p. 398), per dirla con Bateson, che si frappongono tra noi e le cose del mondo “così come sono”, generando – e non riproducendo – costrutti inevitabilmente soggettivi carichi del senso negoziato socialmente.

Le illusioni razionalizzatrici (in senso moriniano) e gli errori sacralizzanti (in senso batesoniano) che pervadono il pensiero comune riflettono quegli accecamenti paradigmatici di cui dicevamo poc’anzi, presupposizioni normalmente date per scontate proprio perché operanti in una zona invisibile alla nostra coscienza. E tuttavia ciò non deve costituire un alibi al crogiolarsi nelle pseudo-Certezze che ne derivano; al contrario “la mente umana deve diffidare dei suoi prodotti ideali, che nello stesso tempo le sono vitalmente necessari” (Morin, 2001, p. 32). Si tratta di una logica quasi paradossale costruita sull’apporto critico-regolativo di un’idea di Limite a cui sottoporre tutte le nostre azioni; se sposata fino in fondo infatti, essa è in grado di farci agire sulla base di un “principio d’incertezza razionale” (Morin, 2001, p. 23) alla luce del quale le idee cessano di identificarsi col reale e imparano a muoversi a braccetto con l’idea del loro stesso superamento.

Una simile ricorsività costituisce un tratto ineliminabile del pensiero complesso ed apre le porte al coraggio della scommessa: immersi in quella che Bauman definisce una “modernità liquida” (Bauman, 2000), priva di ancoraggi a Verità cristallizzate e definitive, dobbiamo abituarci a disabituarci (cfr. Manghi, 2004, pp. 13-14) senza il timore della vertigine. È questo ciò che intende Bateson quando parla di rinuncia al “primato della finalità cosciente” (Bateson, 1976, pp. 465-487), alle regole “obsolete” (Bateson, 1984, p. 285) delle grandi contrapposizioni dualistiche in favore di logiche inclusive ispirate al principio della conciliazione degli opposti; e ci ammonisce: “Il rigore da solo è morte per paralisi, ma l’immaginazione da sola è la pazzia” (Bateson, 1984, p. 287).

Allo stesso modo Morin ci ricorda come “da sola la fede conduce al fanatismo, da solo il dubbio conduce al nichilismo” (Morin, 1989, p. 239); pertanto l’invito ecologico non può che essere quello ad uscire dalla dinamica oppositiva fede o dubbio per aderire alla concezione co-implicante contenuta nella formula fede e dubbio; per imparare, cioè, ad accettare l’ambivalenza insita in ogni nostra azione, le potenzialità imprevedibili che scaturiscono dal nostro essere “parte danzante”[8] in processi mentali più vasti di cui non conosceremo mai tutti i risvolti.

Sia chiaro: accantonare il mito del potere non implica l’abbandono a derive relativistiche all’insegna del laissez faire, ammettendo il crogiolarsi nella pavida resa di fronte alla complessità sperimentata ogni giorno nel rapporto col mondo; al contrario, la paralisi passivizzante rivelerebbe il misconoscimento della nostra natura intrinsecamente creativa, del nostro essere – volenti o nolenti – costruttori di significati avvolti in una trama di relazioni al di fuori della quale tutto, compresi noi stessi, è privo di senso.

Se in Bateson le dimensioni della scelta e dell’impegno discendono direttamente dall’idea di una mente ecologica in associazione simbiotica con il suo ambiente, una mente costante ridefinizione proprio perché frutto di dinamiche interattive entro sistemi creaturali più ampi, per Morin la “conoscenza pertinente” (Morin, 2001, pp. 36 e seguenti) propria di una “testa ben fatta” (Morin, 2000) porta l’uomo a comprendere che nell’avventura dell’esistenza egli non è mai solo a governare il timone, e ciò lo costringe a scendere a patti con il resto dell’equipaggio, ridimensionando il suo ruolo di unico protagonista del viaggio conoscitivo ma nel contempo moltiplicando esponenzialmente la responsabilità delle sue azioni. Ecco dunque la “sfida della complessità” (Bocchi e Ceruti, 1985) di cui parla Morin e a cui allude anche tutto il discorso di Bateson, che ci riguarda direttamente come uomini e ancor più come educatori: riuscire a fare nostra un’epistemologia della Domanda che, rinunciando ad imporre Risposte date come ricette valide in assoluto, si allontani da visioni unilaterali del mondo in favore di un’etica solidale che dia l’avvio ad una vera e propria epopea della “reliance[9].

A livello squisitamente pedagogico, la consapevolezza di abitare in un “mondo tutto attaccato” (Cogliati Dezza, 1993) non può che tradursi in pratiche formative che tengano conto del fatto che “la relazione viene prima, precede” (Bateson, 1984, p. 179). Da questo punto di vista la pedagogia si trova di fatto in una posizione privilegiata: nata come branchia della filosofia, essa se n’è via via discostata acquisendo nel corso dei secoli una sua dignità autonoma e appropriandosi di un ambito di riflessione peculiare che la vede impegnata a definire gli orientamenti educativi di ogni periodo storico; e tuttavia rimane per sua natura una disciplina di frontiera che, avvalendosi dei contributi delle altre scienze sociali, riunisce i diversi apporti del sapere umano al fine di guidare gli individui in direzione della loro auto-realizzazione.

Attraverso le pratiche educative quotidiane, gli operatori della formazione hanno il difficile compito di accompagnare i soggetti lungo un percorso di apprendimento che, come ormai sappiamo bene, prosegue lungo tutto l’arco della vita[10]. Al centro del loro operare vi è la relazione con l’altro intesa come dimensione sostanziale dell’intervento educativo, eppure ciò non offre la garanzia che vi sia davvero la valorizzazione dei soggetti coinvolti, spesso alla ricerca di Soluzioni più simili a Ricette preconfezionate che a reali processi di empowerment. Porre l’accento sulla matrice interattiva dei costrutti di pensiero che utilizziamo per muoverci nel mondo, al contrario, può aiutare entrambi, educatori e soggetti in formazione, a non cadere nel tranello degli assoluti da sposare una volta per tutte ricercando invece soluzioni contestuali valide hic et nunc e “solo ‘fino a nuovo avviso’” (Bauman, 2002, p. 159).

E inevitabilmente, una simile prassi relazionale, co-costruita sulla base delle situazioni concrete, diviene strumento di arricchimento reciproco proprio perché costringe tutti gli attori sociali coinvolti, ciascuno con le proprie competenze e il proprio bagaglio personale e professionale, a mettersi in gioco incrementando la partecipazione in direzione di responsabilità esistenziale.

 

BIBLIOGRAFIA

 

G.Bateson, Mente e Natura. Un’unità necessaria, Adelphi, Milano 1984.

G.Bateson, Una sacra unità. Nuovi passi verso un’ecologia della mente (a cura di R.E. Donaldson), Adelphi, Milano 1989.

G.Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976 (Steps to an Ecology of Mind, Ballantine, New York 1972).

G.Bateson, Bateson M.C. Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro, Adelphi, Milano 1989.

Z.Bauman, Liquid Modernity, Polity Press, Cambridge 2000.

Z.Bauman, La società individualizzata, Il Mulino, Bologna 2002.

G.Bocchi, M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1985.

V.Cogliati Dezza (a cura di), Un mondo tutto attaccato. Guida all’educazione ambientale, Franco Angeli, Milano 1993.

T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969 (The Structure of Scientific Revolutions, Chicago University Press, Chicago 1962).

S.Manghi, La conoscenza ecologica. Attualità di Gregory Bateson, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004.

S.Manghi, Il gatto con le ali. Tre saggi per un’ecologia delle pratiche sociali, Asterios Editore, Trieste 2000.

E.Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001.

E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000.

 

 

[1]              Nell’opera Mente e Natura Bateson si esprime utilizzando l’evocativa espressione “danza di parti interagenti” (Bateson, 1984, p. 27).

[2]              Scriveva Bateson in Mente e Natura: “Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei noi con l’ameba da una parte e lo schizofrenico dall’altra?” (Bateson, 1984, p. 21).

[3]              Così spiegava Bateson nel suo Mente e Natura: “Ricevere informazioni vuol dire sempre e necessariamente ricevere notizie di differenza […]”; e ancora: “L’informazione consiste in differenze che producono una differenza” (Bateson, 1984, pp. 46 e 135).

[4]              Cfr. nota 1.

[5]              Nel senso inteso da Kuhn nella sua Struttura delle rivoluzioni scientifiche (Kuhn, 1962), dove il paradigma viene descritto come il modello esplicativo ufficiale, proprio di un dato momento storico, che guida la comunità degli scienziati nel loro percorso di ricerca; oggetto di un’adesione incondizionata largamente inconsapevole, esso, mentre offre il sistema di coordinate necessario per orientare efficacemente i processi di indagine, finisce con l’incanalarli entro binari prestabiliti riconfermando continuamente se stesso, e ciò finché non sopraggiunga un nuovo più convincente paradigma in grado di sostituirlo.

[6]              Ancora oggi l’idea più diffusa associata al concetto di sviluppo di una società è quella di un progresso illimitato da monitorare anno dopo anno attraverso un Prodotto Interno Lordo in grado di assicurare la permanenza nella classifica delle nazioni più ricche.

[7]              Bateson prende in prestito l’espressione da Alfred Korzybski, grande linguista americano di origine polacca, e aggiunge: “Il nome non è la cosa designata dal nome” (Bateson, 1989, p. 41).

[8]              Cfr. nota 1.

[9]              Coniato dallo stesso Morin, il termine costituisce un vero e proprio gioco di parole che unisce il verbo relier (legare) e il sostantivo alliance (alleanza) dando vita a un neologismo molto evocativo (Morin, 2001, p.79).

[10]            Cfr. il concetto di Lifelong Learning.

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