EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

Dalla contrapposizione alla contraddizione. Come ridare fiato al dibattito in stallo

di Bruno Mastroianni

 

“Da adesso chi tace è complice”. È lo slogan che campeggiava nel luglio 2018 sulla copertina della rivista Rolling Stone che prendeva apertamente posizione contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini[1]. Nello stesso periodo, sempre a luglio, lo scrittore Roberto Saviano, dalle pagine di Repubblica, lanciava un appello a tutto il paese con parole come “Rompiamo il silenzio contro la menzogna” e ancora “Oggi tacere significa dire: quello che sta accadendo mi sta bene”[2]. Le forze che compongono quel governo, qualche mese prima, erano uscite vittoriose dalle urne con una campagna elettorale fondata su slogan come “Prima gli italiani” per la Lega[3] e “Partecipa, scegli, cambia” per il Movimento 5 Stelle[4].

Già fermandosi a questo livello (si potrebbe proseguire in una carrellata di dichiarazioni, frasi a effetto, affermazioni, tutte che, da una parte e dall’altra, puntano spesso su un certo stile retorico) possiamo fare una prima considerazione: il richiamo a prendere posizione, a schierarsi, è un valore molto presente nelle modalità di comunicazione pubblica, al di là dell’appartenenza a un certo schieramento o dell’identificarsi con un certo tipo di idee.

Non è sicuramente una novità; da tempo infatti assistiamo a un dibattito che su quasi ogni questione tende a polarizzarsi e a determinare solitamente un campo binario[5] in cui gli interlocutori sono costantemente chiamati a prendere posizione a favore o contro, in modo alternativo e inconciliabile, nei confronti ora di un’idea, ora di una persona, ora di una prospettiva.

L’effetto polarizzazione non riguarda solo le questioni prettamente politiche, ma investe ogni tema del discutere umano, tanto che l’istinto più comune, di fronte a una notizia, un’informazione, un tema, è spesso quello di prendere posizione, ancora prima di aver valutato tutti gli elementi che a quella posizione potrebbero portare[6]. È l’effetto dei pregiudizi di conferma (confirmation bias)[7] in base ai quali l’essere umano è incline a ritenere attendibile tutto ciò che risponde alle sue convinzioni e credenze, mentre tende a rifiutare come inaccettabile ciò che le contraddice. A questo si aggiunge l’identificazione e il riconoscimento, di solito, con gli affini che hanno le stesse posizioni e orientamenti, grazie ai quali si sviluppano le echo chamber: le casse di risonanza in cui le opinioni omogenee si fanno forza l’un l’altra[8].

Il concetto di “prendere posizione”, insomma, che nella retorica del dibattito pubblico (come nel caso degli slogan citati all’inizio) viene usato come categoria quasi-morale – con il richiamo a un’azione doverosa, degna, importante per il bene di tutti – di fatto non è altro che un meccanismo umano tipico. Detto in altri termini: non esiste un essere umano che non abbia in ogni momento già assunto una certa posizione riguardo al mondo e agli altri che gli sono attorno; in quanto tale è già sempre “posizionato” solo per il fatto di esistere, e di questa posizione assumerà principalmente e fondamentalmente una difesa: l’insieme delle sue posizioni infatti rappresenta chi è lui per se stesso, che posto ha nel mondo e che posto ha nei confronti degli altri con cui ha a che fare (che poi sono anche le funzioni elementari del linguaggio, della conoscenza e della comunicazione)[9].

Considerare questo aspetto, apparentemente scontato e ben noto, è fondamentale per capire cosa nella frequentazione di un dibattito altamente polarizzato possa sfuggire agli interlocutori che fanno uso intensivo del richiamo morale alla necessità di una “presa di posizione”. Di morale, di fatto, tale richiamo non ha molto, dato che il prendere posizione è già insito nel comportamento umano tipico. Il vero oggetto morale del contendere, che davvero potrebbe contenere un riferimento al bene, al giusto, al desiderabile, dovrebbe riguardare non tanto l’atto del posizionarsi in sé quanto il tipo di posizione che si assume, e con quali motivazioni.

Quello che accade, invece, è che proprio la modalità polarizzata di un dibattito basato su opposizioni binarie a cui aderire[10] (vero noi / falso loro, giusto noi / sbagliato loro, accettabili le nostre idee / inaccettabili le loro), di fatto tradisce la promessa morale del richiamo stesso: non c’è alcun vero confronto e nemmeno uno scontro tra idee e visioni opposte del bene, il cui esito porta allo schierarsi; c’è piuttosto qualcosa di già dato in cui riconoscersi come già posizionati.

Ora, perché questo è un problema? Perché la tendenza alla presa di posizione polarizzata più viene utilizzata e più deteriora la possibilità che il dibattito pubblico abbia una funzione di confronto, cosa fondamentale per la salute democratica.

Adelino Cattani, nella sua riflessione sui dibattiti, parla di due immagini che possono dar forma a un confronto: la battaglia e il collaudo[11]. La prima presuppone che ci si muova in armi e che l’avversario venga battuto e messo fuori combattimento, anche se attraverso le forme civili della discussione. Il collaudo invece corrisponde a un’immagine più articolata: è la procedura secondo la quale il confronto tra argomentazioni viene vissuto come messa alla prova e verifica della tenuta delle proprie idee di fronte a uno o più interlocutori con prospettive diverse. La modalità del richiamo morale alla presa di posizione polarizzata che abbiamo visto non solo non si muove secondo l’idea del collaudo, ma non riesce nemmeno più a produrre la battaglia: lo scontro, di fatto, non avviene nemmeno più. In altre parole, il problema non è tanto che lo stile di comunicazione polarizzato abbassa la qualità del confronto politico, ma che ne può provocare la scomparsa.

Il richiamo alla presa di posizione, infatti, in questi termini funziona come mero segnale che raccoglie e serra le file di chi sostanzialmente una certa posizione l’ha assunta, prima ancora che venga discussa. Viene dipinta come un’esortazione caratterizzata da una spinta morale programmatica (prendere posizione in tal senso è presentato come un movimento in direzione del bene, del miglioramento, della crescita, ecc.), mentre nella sostanza è un puro riconoscere e riconoscersi in una posizione già assunta che si intende difendere.

Diventa così un quasi-dibattito sostanzialmente conservatore in cui ciascuna parte fa un richiamo a suoi valori da difendere e da conservare, non importa che il contenuto sia la solidarietà e l’europeismo più progressista o la difesa del proprio interesse e della sovranità dei movimenti più populisti: entrambi, con questo richiamo, si guardano bene dal confrontarsi sul merito, sulla tenuta, sull’ordine di priorità da dare a questi stessi valori, da cui dovrebbe scaturire la vera presa di posizione.

Non è un caso che in questo momento storico, in diversi paesi occidentali, tendano ad avere più successo in termini di consensi le schiere polarizzate che fanno appello alla sicurezza, alla tutela degli interessi più individuali, alla difesa dallo straniero e a sentimenti anti-sistema, mentre le schiere basate su valori abitualmente ritenuti più solidali e altruisti finiscono per attirare molti meno consensi in termini di persone già predisposte a quella posizione. La ragione è semplice: le posizioni più individualiste, difensive, privatiste, sono di solito molto più spontanee e “date” in società rispetto a quelle che richiedono un certo percorso riflessivo per riconoscerne il valore. Chiunque, infatti, come minimo vuole difendere se stesso, la propria famiglia e ciò che ha, e questa è come una morale di base dell’essere umano. Il richiamo invece al “dover essere”, all’apertura in nome di valori più nobili, all’uscita dal proprio piccolo perimetro di interessi, richiede riflessione, movimento, percorsi di significato, stimoli, ecc. La prima posizione è più facilmente intercettabile perché è quella che incarna meglio il rimanere fermi a ciò che già si è e si ha, per difenderlo; la seconda richiede che ci si sia mossi, si sia fatto un passaggio ulteriore in direzione di una maggiore consapevolezza.

Nella modalità di contrapposizione in cui non si dibatte nulla, nulla si muove o si scuote veramente; gran parte della comunicazione diventa, per chi ha capito il meccanismo, attività di intercettazione di posizioni già assunte dalla fetta più larga possibile della popolazione, per farle proprie[12]. Da questo punto di vista il web e i social diventano il luogo ideale dove studiare e intercettare le tendenze delle opinioni e il cosiddetto sentiment[13], che non è altro che il risultato delle posizioni che gli utenti assumono nei confronti dei principali temi che percepiscono come importanti. Chi invece ancora non ha colto appieno questa dinamica, ad esempio perché ancora sottovaluta il peso della connessione nella vita delle persone o magari ha ancora qualche remora a ridurre a pura intercettazione del consenso la propria attività comunicativa, sta comunque fallendo, rifugiandosi in un moralismo che tende a stigmatizzare e condannare le posizioni “degli altri”, ottenendo solo di posizionarsi precisamente contro il sentiment della maggioranza. In quest’ultima categoria rientrano anche certi discorsi apocalittici sul web e i social, indicati come ultimi responsabili di ogni questione politica recente (dall’elezione di Trump alla Brexit ai risultati delle elezioni italiane): ancora una volta un’affermazione di disprezzo moralistico nei confronti delle posizioni assunte dalle persone, viste come totalmente incapaci di difendersi dalle manipolazioni delle tecnologie.

In sostanza, lo schema della contrapposizione non vede scontrarsi alcuna idea, ma soltanto il distinguersi in base a posizioni già assunte. Da una parte le posizioni che sono in tendenza, accolte e compiaciute senza tanti scrupoli, dall’altra posizioni che non rappresentano una tendenza spontanea nella società che allora si rifugiano in una sorta di “Aventino moralistico” da dove si ritiene di difendere i valori stigmatizzando la barbarie. In realtà, in mezzo non solo non c’è nessun confronto, ma nemmeno uno scontro. E questa assenza di battaglia non crea la pace, ma una cosa più pericolosa: l’inerzia politica. L’intercettazione del consenso basato sul compiacere le posizioni della popolazione su base statistica da un lato, così come la presa di posizione moralistica che disprezza tutto ciò che viene dalle percezioni della gente dall’altro, diventa la rinuncia a tutto ciò a cui serve la politica: discutere le posizioni assunte, decidere quelle da assumere, in una mediazione che rappresenti il miglior bene possibile per tutti.

Ma allora c’è qualcosa che si può fare di fronte a questa deriva? La via da intraprendere ce la indicano proprio le immagini del dibattito proposte da Cattani: la battaglia e il collaudo. Posto che la guerra tra idee è impraticabile per interlocutori già confinati e blindati nelle loro posizioni e in esse polarizzati (manca proprio il terreno su cui eventualmente usare le armi argomentative), non resta che entrare nell’ottica del collaudo.

Quest’ultimo, infatti, potrebbe essere inteso in un senso estremamente attivo e dinamico. I titolari di una certa posizione nei confronti della realtà, proprio perché convinti di essa e motivati a richiamare energie per sostenerla, invece di ricorrere alla retorica della “presa di posizione moralistica” per raggruppare i già convinti, potrebbero scegliere la via della messa alla prova in mezzo ai titolari di posizioni diverse e opposte, operazione che l’interconnessione in cui siamo immersi permette agilmente[14].

Si tratta di uscire dall’ottica stanca e improduttiva del “prendere posizione” per trasformarla in un’ottica generativa di “prendere sul serio la posizione” dell’altro, soprattutto quando appartiene alla parte più consistente della popolazione e, a maggior ragione, quando quella posizione risulta istintiva, difensiva, violenta. Si tratta di rinunciare al mettere semplicemente in contrasto posizioni già assunte (che come abbiamo visto lascia fermi gli interlocutori) per accettare il più possibile di entrare nel merito delle differenze di vedute, ascoltandone gli argomenti, le idee, i significati per farsi mettere alla prova da essi.

Potremmo definirlo un passaggio dalla contrapposizione alla contraddizione: mentre il contrap-porre è un posizionare le schiere avverse secondo formazioni già precostituite, il contrad-dire è far scaturire l’opposizione dalle parole, dalle idee, dagli argomenti, accettando di fare il collaudo della propria visione di fronte alla visione dell’altro. È quella che altrove ho definito disputa felice[15]: una modalità di comunicazione che fa della differenza di visione, di linguaggio, di intenti e di scopi il motivo della relazione e non l’ostacolo a essa. Secondo questa prospettiva, il confrontarsi non è opporre argomenti, ma porsi le domande così come se le pone l’interlocutore, dare ragione delle proprie idee con riferimenti vicini all’altro, riconoscere sempre gli elementi di validità dell’argomentazione altrui e replicare a partire da essi.

Di fronte a tale prospettiva di solito sorgono due obiezioni. La prima sostiene l’inutilità di cercare di ragionare con chi ha già assunto una certa posizione: il cambiamento di opinione in quest’ottica è percepito come difficile e di fatto scartato quasi come impossibile. La seconda è di tipo utilitaristico e sostiene che tentare il confronto tra posizioni è poco economico; meglio cercare di intercettare le posizioni già assunte e raccogliere consenso su quelle.

Entrambe le obiezioni registrano questa difficoltà/impossibilità proprio perché osservano la dinamica del dibattito attraverso la metafora della battaglia, secondo la quale l’esito di una discussione deve essere misurato in base alla vittoria di qualcuno[16]. Dato che la vittoria in questi termini sembra davvero difficile da ottenere, si dichiara l’impossibilità di affrontare il confronto. Ma il problema non è nel confronto, quanto nella sua impostazione secondo lo schema bellico.

La prospettiva della contraddizione si muove invece nell’ottica del collaudo: l’esito ricercato non è anzitutto il cambiamento della posizione altrui, quanto la messa alla prova, alla luce di essa, delle proprie convinzioni e posizioni. La “vittoria” del collaudo non è l’annientamento dell’avversario, ma l’affinamento del proprio pensiero grazie al suo aiuto, che paradossalmente può avvenire anche da una posizione radicalmente immutabile.

È così che la contraddizione rompe l’inerzia delle dichiarazioni di posizione: non ha bisogno che l’altro sia disponibile a cambiare opinione, le basta cimentarsi per collaudare l’efficacia del proprio pensiero di fronte a quelle convinzioni. E qui entra il gioco l’interlocutore più importante di tutti, che è terzo rispetto ai due disputanti: l’uditorio che ascolta[17] che, soprattutto online, è formato da una moltitudine che non interviene, ma che  legge, osserva, considera ciò che si sta contendendo nella discussione[18]. Ciò ha spesso come effetto proprio la riapertura della partita su cui dovrebbe giocarsi ogni discussione: non le posizioni già assunte tra i contendenti, ma i significati, le priorità e l’ordine di importanza che si danno a certe prospettive rispetto ad altre, in base alle quali si assume o meno una certa posizione.

Il far emergere le contraddizioni tra le opinioni giustapposte (in altre parole il collaudo) può rimettere al centro del discorso il principio di realtà, inteso come ciò che resiste alle posizioni assunte ed è refrattario alle volontà, alle inclinazioni, ai gusti, alle percezioni[19]. Ciò può ricreare la possibile spinta a muoversi dalle posizioni ricoperte prima del confronto; che poi è il movimento della conoscenza, della crescita, della vitalità. Senza questo, ci dovremmo invece accontentare di avere un quasi-dibattito che rischia di finire in un sistema di contrapposizioni tanto violento quanto immobilizzante.

 

[1] Rolling Stone, luglio 2018, in https://www.rollingstone.it/rolling-affairs/news-affairs/noi-non-stiamo-con-salvini-da-adesso-chi-tace-e-complice/419240/

[2] Roberto Saviano, Rompiamo il silenzio contro la menzogna, La Repubblica, 24.7.2018, in https://www.repubblica.it/cronaca/2018/07/21/news/rompiamo_il_silenzio_contro_la_menzogna-202372216/

[3] Cfr. https://www.salvinipremier.it/t_galleria.asp?l2=1965#lightbox-gallery-2-1

[4] Cfr. https://www.ilblogdellestelle.it/2018/02/partecipa_scegli_cambia_la_tua_nuova_immagine_di_profilo_su_facebook.html

[5] Cfr. Giovanna Cosenza, Semiotica e comunicazione politica, Laterza, Bari-Roma, 2018, Capitolo 1. Le classificazioni binarie.

[6] Cfr. Vera Geno – Bruno Mastroianni, Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello, Longanesi, Milano, 2018, pp. 122-131.

[7] Cfr. gli studi riportati in Walter Quattrociocchi – Anonella Vicini, Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità, Franco Angeli, Milano, 2016.

[8] Cfr. Ibid.

[9] Cfr. Vera Gheno – Bruno Mastroianni, Tienilo acceso, op. cit., p. 253.

[10] Cfr. Bruno Mastroianni, Verità o menzogna? La contrapposizione stanca, in ExAgere rivista, luglio 2018, http://www.exagere.it/verita-o-menzogna-la-contrapposizione-stanca/

[11] Cfr. Adelino Cattani, Dibattito. Doveri e diritti, regole e mosse, Loffredo Editore, Napoli, 2012, p.13 e seguenti.

[12] Interessante a questo proposito la discussione sulla (presunta) “La Bestia”, nome che viene dato a quello che dovrebbe essere un tool di analisi e ascolto della rete utilizzato dallo staff di Salvini per cogliere l’atteggiamento degli utenti verso certi temi, cfr. https://www.agi.it/politica/la_bestia_social_salvini_morisi-4373864/news/2018-09-14/

[13] Cfr. http://www.treccani.it/vocabolario/sentiment_%28Neologismi%29/

[14] Cfr. Manuel Castells, Comunicazione e potere, Università bocconi Editore, 2009, capitolo “Le reti digitali e la cultura dell’autonomia”

[15] Cfr. Bruno Mastroianni, La disputa felice. Dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico, Cesati, Firenze, 2017.

[16] Cfr. Adelino Cattani, Dibattito, op. cit., p. 26.

[17] Cfr. ibid.

[18] Cfr. Vera Gheno – Bruno Mastroianni, Tienilo acceso, op. cit., pp. 226-229.

[19] Cfr. Maurizio Ferraris, Realismo positivo, Rosemberg & Sellier, Torino, 2013, pp.12-14.

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