di Giacomo Dallari –
La psicologa statunitense Madeline Levine sostiene che “mai prima nella storia i genitori sono stati così convinti, e così a torto, che ogni loro attenzione abbia una ricaduta sul successo futuro dei figli. E così – prosegue la studiosa – ci sentiamo in dovere di monitorare continuamente le loro attività e i loro successi, con la conseguenza che li facciamo sentire sempre meno competenti, sempre meno sicuri e sempre più bisognosi di supervisione”[1].
Ogni volta che allacciamo le scarpe ai nostri figli di sei o sette anni, quando assegniamo loro un compito e li premiamo lo stesso, anche se non lo hanno portato a termine o quando compriamo un nuovo gioco anche se la casa ne è piena, stiamo davvero facendo il loro bene?
Un ragionamento ingenuo e superficiale potrebbe portarci a ritenere queste semplici azioni come un qualcosa di innocuo, o addirittura come una cosa giusta da fare, d’altra parte ci hanno sempre insegnato che il bene è l’altruismo e il male è l’egoismo e che quando aiutiamo qualcuno lo proteggiamo dal fallimento, dal malessere e dalla paura, in poche parole lo amiamo.
Intendiamoci, per educare un bambino l’amore è necessario, ma l’amore senza una progettualità, senza una dimensione evolutiva, rischia di essere un atto emotivo che si concretizza nel presente, nel qui e nell’ora, senza una visione prospettica che va oltre la semplice soddisfazione di un bisogno. Nel nostro contesto socioculturale ed economico la pazienza – che con ogni probabilità è l’ingrediente principale di ogni atto d’amore – è diventata una merce rara alla quale sempre più spesso si preferisce l’immediatezza, la risposta fulminea, improvvisa e decontestualizzata e, quindi, priva di progettualità. Non importa se per far mangiare nostro figlio dobbiamo inseguirlo per tutta la casa o riempirlo di “distrattori” che ci diano l’effimera illusione che forse altri due o tre cucchiaini di pappa li prenderà, l’importante è che mangi; non importa se dorme nel “lettone” aggredendo la nostra intimità coniugale, la cosa importante è che dorma perchè la mattina ci dobbiamo svegliare presto dato che il lavoro ci chiama…
I figli nella società contemporanea rappresentano un investimento emotivo molto intenso che, a differenza di un passato non molto lontano, è il frutto di una scelta consapevole e controllata. Potrebbe quindi apparire strano, o quantomeno contraddittorio, che le difficoltà educative che sempre più spesso caratterizzano la nostra società emergano con grande intensità proprio nel momento in cui i genitori attuali sono sempre più consapevoli e responsabili rispetto all’investimento che un figlio rappresenta. Ad una ferrea responsabilità nella scelta dell’atto procreativo, sembra non corrispondere un’altrettanta responsabilità nelle scelte educative del figlio e nell’idea di un percorso pedagogico strutturato, efficace e progettuale.
Quando i figli, o come accade sempre più spesso, il figlio è scelto, voluto e selezionato in quel preciso momento, magari dopo una lunga relazione o quando il lavoro appare più stabile e sicuro, viene sovraccaricato di aspettative profonde, diviene la proiezione di un’identità intima, uno specchio che riflette le aspirazioni dei genitori.
L’attuale realtà sociale ed economica, ci ricorda inoltre la sociologa francese Irène Théry, si caratterizza sempre di più come una realtà povera di sicurezze e di riferimenti chiari e oggettivi; lo stesso matrimonio, da legame stabile e socialmente riconosciuto, è diventato instabile ed effimero ed i figli vengono percepiti e vissuti come un “investimento sicuro”, l’unico bene su cui investire e progettare il proprio futuro.[2]
In questo scenario anche le pratiche educative mutano di forma e, soprattutto, di significato: se infatti educare significa condurre qualcuno verso la propria autonomia, cioè rendersi progressivamente “inutili”, attualmente una tendenza molto forte porta i genitori a ritenere il loro intervento sempre e comunque utile e necessario che si caratterizza come un atto d’amore puro
Gli inglesi li chiamano “Helicopter parents” o “Snowplow parents”, indicando così uno stile genitoriale animato da un amore narcisistico che predilige l’aspetto affettivo ed emotivo rispetto a quello educativo e formativo.
I primi, i “genitori elicottero”, sono quei genitori che “pattugliano” dall’alto i loro figli impedendo loro di ragionare sulle loro scelte. Il mondo per questi genitori è un luogo pericoloso e i figli non sono mai pronti per difendersi da soli dagli “attacchi” della vita, devono essere dunque controllati e salvati dagli errori che possono commettere tramite un “atterraggio di emergenza”.
I secondi, i “genitori spazzaneve”, sono quei genitori che rifiutano il malessere dei loro figli e spianano loro la strada rimuovendo ogni ostacolo che può frapporsi nella loro vita.
Un approccio semplicistico e superficiale potrebbe giustificare tali atteggiamenti facendoli rientrare, come spesso accade, nella grande famiglia dei “vizi”. Quante volte si sente dire che i figli sono viziati, che i giovani di oggi hanno tutto e quindi in realtà non hanno nulla, vivendo in un costante stato di insoddisfazione. Non fanno eccezione neppure i sentimenti che, divenuti anch’essi “oggetti”, vengono scambiati con i propri figli, tenuti al riparo da tutti quelli negativi e aggressivi: e allora la felicità diventa qualcosa da somministrare tutti i giorni, mentre la noia va evitata come fosse un coltello con la lama troppo affilata, così come la paura, lo stress, il dolore e l’ansia.
Ma tutto ciò non riguarda solo ed esclusivamente un’eccessiva dotazione di beni materiali a difesa da un’esistenza noiosa e frustrante, ma interessa nel profondo un atteggiamento che sempre di più caratterizza il rapporto degli adulti con i bambini che, non neghiamolo, è profondamente mutato. Oggi i genitori sembrano essere alla costante ricerca di approvazione da parte dei figli, vivono in un continuo rapporto emotivo caratterizzato dalla paura di perdere l’affetto dei figli e questo conduce ad un livellamento degli equilibri educativi e relazionali. Oggi i genitori appaiono più interessati non tanto ad insegnare come si fa ad affrontare la vita, quanto a evitare che la vita possa lasciare i loro figli disorientati e impauriti di fronte alle scelte che, inevitabilmente, prima o poi saranno chiamati ad affrontare
La scolarizzazione dei figli, che con ogni probabilità rappresenta uno degli eventi più significativi e stressanti per le famiglie, è uno degli scenari dove tali atteggiamenti diventano lampanti e decisamente dirompenti. La scuola, per questi genitori, è spesso un luogo minaccioso che mette in discussione il loro primato educativo e sottopone i figli ad un eccessivo stress. E allora madri e padri sono pronti a giustificare, mentire, addirittura a minacciare insegnanti che, a loro giudizio, hanno osato punire i loro figlio, molto più semplicemente, hanno solo evidenziato delle difficoltà e delle carenze.
In tutti questi casi l’effetto sui figli è dirompente perché impedisce loro di intraprendere un personale percorso di crescita e di emancipazione in quanto privi di strumenti per affrontare gli inevitabili ostacoli della vita. I figli interiorizzano l’idea di essere incapaci e diventano molto meno preparati nel gestire le frustrazioni e nell’accettare i “no”. In molti casi è una vera e propria “deresponsabilizzazione” dei propri figli, costantemente bisognosi di continue conferme e dipendenti da aiuti non sempre necessari, perché privi di fiducia verso se stessi e incapaci di autovalutare le proprie possibilità. L’infanzia e la giovinezza, al contrario, sono periodi nei quali è necessario sperimentarsi e mettersi alla prova, affrontare i fallimenti e ricostruire le proprie idee in base alle sconfitte e alle vittorie che si ottengono in autonomia e con le proprie forze. Forse è per questi motivi che Massimo Recalcati nel suo libro Cosa resta del padre? citando Sartre sostiene che “se i genitori hanno dei progetti per i propri figli, è difficile che questi riescano ad avere dei destini felici”[3].
[1] M.Levine, The price of privilege: how parental pressure and material advantage are creating a generation of disconnected and unhappy kids, Harper Collins, New York (USA), 2006, p.256.
[2] Cfr. I. Théry, Couple, filiation et parenté aujourd’hui : Le droit face aux mutations de la famille et de la vie privée. Rapport à la ministre de l’Emploi et de la Solidarité et au garde des Sceaux ministre de la Justice, Paris, Éditions Odile Jacob, 1998, p.413.
[3] M.Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Milano, Raffaello Cortina, 2011, p.182.