EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

Derrida profetico. Vent’anni dopo

di Primavera Fisogni

A vent’anni dall’attacco alle Torri Gemelle di New York (21 settembre 2001), Jacques Derrida (1930-2004) torna alla ribalta per la carica profetica delle riflessioni consegnate al dialogo con Giovanna Borradori, pensatrice italiana dell’americano Vassar College. In Filosofia del terrore, uscito due anni dopo quel major event eversivo, il pensatore formulò, tra gli altri, due argomenti che continuano a interpellare.

Il primo riguarda la nominazione del terrorismo, il “che cos’è”; il secondo ha a che fare con la democrazia, quale forma di potere dal carattere autoimmune. Mentre il problema definitorio non smette di sprigionare suggestioni teoriche, la questione sul male radicale insito sistemi democratici si mostra più fragile alle critiche, a partire proprio dall’evento storico dell’11 Settembre. Entrambi restano  però inestricabilmente legati e aggiornano, rafforzandola, la lettura biologica della sovranità. Riletto oggi  Derrida incrocia suggestivamente i nostri tempi, perché sia l’idea di una definizione fluida per il terrorismo, sia le categorie relative all’ambito del sistema immunitario portano al campo concettuale della biologia.

Non solo. L’era del Covid-19 ha rilanciato, sia sul piano delle metafore, sia su quello più fruttuoso dei processi (Fisogni, 2021) e a proposito nel concetto di nemico, proprio le riflessioni del pensatore decostruzionista. Ma andiamo con ordine, cercando di trovare il filo rosso che attraversa tre testi di Derrida: l’intervista a Borradori in Filosofia del terrore (2003), Rogues: Two Essays on Reason (2005) e The Gift of Dead (1995).

All’indomani delle stragi dell’11 Settembre 2001, Derrida, fornisce una definizione del terrorismo internazionale che è soprattutto una detrazione, nella forma di una domanda aperta.

«Ciò che rimane infinito in questa ferita (il terrorismo, ndr) – dichiara –  è che non si sa cos’è, non lo si sa né descrivere né identificare e neanche nominare».[1]

La sua prospettiva diverge nettamente da quella di Jurgen Habermas, altro interlocutore di Borradori in Filosofia del terrore, che nonostante l’inafferrabilità riconosciuta della materia eversiva, non ha difficoltà a dare un nome e un volto al jihadismo internazionale (associato al fondamentalismo). Lo configura,  precisamente, come “fenomeno della modernità” che, disconoscendo l’impianto valoriale ed epistemico introdotto dall’Illuminismo, ne decreta una torsione a 360°. La conseguenza di ciò, per il filosofo tedesco, consiste in un tragico errore di comunicazione. Ovvero: la violenza finisce per prendere il posto del dialogo, tarpando le ali ad ogni possibile “agire comunicativo”.

Mentre la visione di Habermas, in assoluto coerente con l’ispirazione razionalista-illuminista del suo pensiero sembra fornire una risposta puntuale, la vaghezza di Derrida alimenta la frustrazione teorica. Sulla distanza, a ben vedere, è invece il padre della decostruzione ad aver agguantato con una presa migliore quel fenomeno pur riconosciuto come “elusivo” dall’illustre collega tedesco.

Nel rinviare, tra le righe del suo ragionamento, al rapporto tra nome (όνομα) e definizione (λόγος ορισμός),[2] richiamandosi alla lezione classica di Aristotele, Derrida lascia intendere che al τόδε τι, dalla forma o essenza di un nome dipende in qualche modo anche la possibilità di dire lo stesso in modo diverso, nella forma discorsiva che è poi quella tipica della definizione. Se non vi è adeguata capacità di cogliere questo “primo ontologico”, diventa arduo esprimere il nome, ancora prima della definizione, ovvero «il dispositivo con cui il linguaggio pone principio e limite a se stesso».[3]

Nel riconoscimento dell’essenziale afasia attorno al terrorismo, Derrida fornisce dunque una traccia per portare a tema l’eversione di matrice islamista, che oggi si coglie appieno: quel major event non è inquadrabile nelle griglie di una definizione tradizionale. Ma non lo è nemmeno l’idea di nemico e neppure quella di “Stato”. L’intuizione  viene avvalorata, nelle riflessioni del filosofo francese, proprio dall’11 Settembre, come ha riconosciuto Naas (2006):

«What 9-11 confirmed beyond all doubt, Derrida argues, is that the cold-war logic that located enemy within identifiable, self-identical, sovereign nation-states is no longer tenable»[4].

 Oggi la minaccia viene da intrecci sistemici, non meno che dai cosiddetti “stati canaglia” (rogue states) e, sostiene il pensatore francese, dalle dinamiche interne alle democrazie tradizionali. Non è dunque interrogandosi sul “cosa” che possiamo comprendere il nocciolo del fenomeno del male più sconvolgente degli ultimi vent’anni. Derrida lascia intendere che occorre invece portare l’attenzione al “come” si articola nel tempo il terrorismo, ai processi che lo caratterizzano: una strada che richiede di passare dalle metafore alla consistenza dinamica della sua identità. Il filosofo francese, maestro nello smantellare il dato per farne emergere i limiti insieme alla forza semantica, punta i riflettori su uno di questi processi, che a suo giudizio è decisivo nella tragedia dell’11 Settembre. Si tratta dell’autoimmunità dello stato democratico.

Termine preso a prestito dalla biologia, l’autoimmunity indica le risposte immunitarie di un organismo contro i suoi stessi tessuti, cellule, organi. Negli esseri viventi, si pensi all’uomo, quest’azione suicida provoca una serie di malattie, dette “autoimmuni”, che portano alla distruzione del sistema vivente. Derrida legge gli attacchi terroristi ai luoghi simbolo dell’America (Torri Gemelle, Pentagono) come un doppio suicidio: gli attentatori si danno deliberatamente la morte, ma pure quel grande paese democratico che è l’America, attenta contro se stesso.

Il filosofo francese argomenta questa sua potente disamina mostrando che gli Usa avevano formato, con le proprie competenze e i propri soldi, i terroristi che lì avevano compiuto l’addestramento prima di sferrare l’attacco in cui sono morte 2977 persone e i 19 attentatori. Tratteggiato fin dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso – si pensi a Faith and Knowledge (1994) – il processo di autoimmunity «accelerated (…) after 9-11»[5]. L’autoimmunità è rogue[6], un aggettivo applicabile anche all’ambito biologico (rogue cells), quale comportamento anomalo e pericoloso[7]. È l’aver colto l’ambiguità del termine (rogue = canaglia ma anche anomalia) uscendo dalla stretta griglia dell’attualità geopolitica (rogue states) per riferirlo a un processo organico, biologico (rogue cells), a rendere originale l’approccio del pensatore francese, portandolo ad anticipare i recenti sviluppi dell’immunologia, come ha riconosciuto Timár[8].

In Rogues, Derrida porta ad esempio il caso delle elezioni annullate nel 1992 in Algeria. Il voto avrebbe favorito quella parte politica che voleva cambiare la costituzione: di fatto si verificò l’affermazione del Fronte islamico di salvezza. Cancellando l’esito delle consultazioni popolari, venne sospesa la democrazia nel nome stesso dei valori democratici, dando origine a una sanguinosa guerra civile.

 Come spiegare, se non nella medesima prospettiva autoimmune, anche le molteplici limitazioni alla libertà sperimentate a livello globale durante la pandemia, a partire dal primo lockdown? Nulla di nuovo, a ben vedere, se pensiamo alle leggi speciali varate negli anni Settanta, in Italia, per contenere il terrorismo politico. Per Derrida non c’è un’idea di democrazia che possa dirsi sciolta dalla condizione autoimmune. La pandemia ha rilanciato quella che, all’uscita di Rogues pareva una visione fin troppo pessimistica del potere, vale a dire: il sistema riconosciuto come il migliore rispetto a totalitarismi, oligarchie e alle autarchie, mantiene nel proprio Dna un vizio di forma. O meglio ancora, un difetto che fa traballare l’identità stessa, il sé (self) della democrazia, al punto da mettere in discussione che si tratti di atto suicidario (dove, appunto, un soggetto  agisce in prima persona nei propri confronti)[9].

Tuttavia, riguardo all’11 Settembre, dobbiamo ammettere che Derrida aveva torto. Perché, sempre restando nel campo della microbiologia, l’attacco di Al-Qaeda ha più l’aspetto di un attacco virale in piena regola che di una malattia autoimmune (Fisogni, 2021). È vero che i terroristi dell’11 Settembre impararono a pilotare gli aerei o perfezionarono le proprie competenze nelle infrastrutture Usa, ma ciò avvenne sull’onda di una deliberata, intenzionale, dettagliata programmazione delle stragi, ben prima di mettere piede sul suolo americano (Ilardi, 2009. Tuttavia, il filosofo francese ha saputo portare alla luce, in pienezza, l’ambiguità del termine: da un lato, infatti, autoimmunity esprime il pericolo/danno e, dall’altro, il gesto di auto-difesa che porta alla distruzione[10]. Ovvero, una «illogic logic that turns something against its own defence»[11].

Se il discorso sulla componente autoimmune della democrazia appartiene agli ultimi lavori di Derrida e trova nell’11 Settembre un pungolo di approfondimento, quello dell’immunizzazione è presente sottotraccia in almeno un altro lavoro. In The Gift of Dead (1995) il filosofo, pur non citando mai esplicitamente questa categoria biologica, la applica di fatto al concetto di nemico.

Dalla lettura del saggio ricaviamo che l’amicizia politica si può costruire attraverso il nemico e solo in virtù di un processo di immunizzazione (Fisogni, 2020; 2021). Nella sua analisi di Der Begriff des Politischen  (1932) di Carl Schmitt, Derrida sostiene che il nemico è un individuo forgiato dal conflitto. Durante la battaglia è nella linea del fronte che l’avversario diventa identificabile ma, al tempo stesso è lì che la differenza tra i due opposti si assottiglia. Ciò che precisamente avviene nel polemos, spiega il filosofo francese, i nemici diventano avversari[12].  Nel polemos, in altre parole, “nemico” non è più un termine opposto ad “amico”, perché evolve in “avversario”. La prossimità è dunque all’origine di una sorta di metamorfosi non soltanto concettuale, ma emotiva e sociale, se pensiamo a quanto sia necessario, in una guerra di tipo tradizionale “costruire una distanza” tra i soldati e i loro nemici per essere in grado di colpire gli avversari.

Vent’anni dopo Derrida ci indica dunque un percorso possibile per capire fenomeni come il terrorismo, ma anche la politica e i conflitti. È, anzitutto, un tipo di visione del fenomeno come evento: qualcosa che viene fuori. E che, proprio in virtù di questo essere “dinamico”, si svela nel momento in cui si riescono ad afferrare i processi, non semplicemente quelli che in fenomenologia si chiamano i “tratti essenziali”. Dopo l’11 Settembre il più grande shock virale, il nuovo major event, è la pandemia di Covid-19. Affrontarlo, nel solco della lezione del pensatore francese, può significare un cambio di paradigma riguardo al concetto stesso di identità dei fenomeni della vita, biologici anche in senso lato: un invito a desistere dalla pretesa di afferrare un τόδε τι, nel magma fluido del βίος, preferendo il modo in cui i fenomeni vengono-fuori nella propria carica eventuale.

 

 

Bibliografia

G. Borradori, Filosofia del terrore, Bari-Roma, Laterza, 2003
J. Derrida, Rogues: Two Essays on Reason, Redwood City CA, Stanford University Press, 2005
J. Derrida, The Gift of Death, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1995
P. Fisogni, “Terrorism as a Virus. Pathogenesis of Evildoing”, articolo accettato, di prossima uscita in International Journal of Cyber Terrorism and Warfare, Igi Global, 2021

P. Fisogni, “Immuni, ma non dall’altro”, ExAgere, novembre 2020
G. J., Ilardi, The 9/11 Attacks—A Study of Al Qaeda’s Use of Intelligence and Counterintelligence. Studies in Conflict & Terrorism, 32:3, 2009, pp. 171-187

M. Naas, “One nation… Indivisible”: Jacques Derrida on the Autoimmunity of Democracy and the Sovereignty of God”, Research in Phenomenology, 36, 2006

C. Schmitt, Der Begriff des Politischen: Text von 1932 mit einem Vorwort und Drei Corollarien [The Concept of the Political: Text from 1932 with a Foreword and Three Corollaries] Berlin, Dunker & Humblot, 2009

E. Timár, “Derrida’s Error and Immunology”, Oxford Literary Review, vol. 39, issue 4, 2006

 

[1] G. Borradori, Filosofia del terrore, Bari-Roma, Laterza, 2003, pag. 101.

[2] Aristotele, Categorie, 1 a 16-9, in Metafisica, Milano, Bompiani, 2000.

[3] Ibidem, pag. 60.

[4] M. Naas, “One nation… Indivisible: Jacques Derrida on the Autoimmunity of  Democracy and the Sovereignty of God”, Research in Phenomenology, 36, 2006,pag. 17.

[5] Ibidem, pag. 18.

[6] In francese “voyous”. Lo stesso termine è titolo dell’edizione uscita nel 2003 a Parigi per le Éditions Galilée. L’opera riunisce i testi di due conferenze tenute da Jacques Derrida nel 2002. La prima, tenuta a Cerisy-la Salle il 15 luglio si intitolava “La démocratie à venir (autour de Jacques Derrida).” La seconda si svolge all’Università di Nizza, il 27 agosto dello stesso anno, sul tema: “Le ‘Monde’ des Lumières à venir (Exception, calcul et souveraineté)”. Ho preferito la versione inglese perché  il termine “rogue/s” è immediatamente comprensibile, essendo non solo parte del dibattito internazionale ma di uso pressoché comune nel discorso sul terrorismo internazionale.

[7] «Behaving in ways that are not expected or not normal, often in a way that causes damage». Cambridge Dictionary, https://dictionary.cambridge.org

[8] E. Timár, “Derrida’s Error and Immunology”, Oxford Literary Review, vol. 39, issue 4, 2017.

[9] «For what I call the autoimmune consists not only in harming r ruining oneself, indeed in destroying one’s own protections (…) in threatening the I (moi) or the Self (soi), the ego or the autos, ipseity itself, compromising the immunity of the autos itself (…) Autoimmunity  is more or less suicidal, but, more seriously still, it threatens always to rob suicide itself its meaning and supposed integrity», Rogues, op. cit., pag. 45.

[10] Ibidem.

[11]  Naas, “One nation… ”, op. cit. pag. 19.

[12] J. Derrida, The Gift of Death, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1995

 

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