di Gianfranco Pecchinenda
Riflessioni a partire dal volume di Gabriella Turnaturi, Impostori. Storie di inganni e autoinganni, Raffaello Cortina 2025.
Chiunque sia interessato ad approfondire l’analisi delle interazioni umane sa molto bene quanto il fenomeno dell’impostura sia connaturato ad ogni tipo di relazione sociale. La tradizione delle scienze sociali – per non parlare della tradizione di tutte le arti occidentali – è infatti piena di storie in cui il tentativo di introdurre una linea di demarcazione netta tra ciò che è vero e ciò che è falso, tra ciò che è e ciò che sembra, finisce prima o poi per trasformarsi in un inutile esercizio di stile la cui conseguenza è perlopiù quella di confondere le acque. D’altra parte, lo stesso evoluzionismo suggerisce come la simulazione e la mimetizzazione siano sempre stati strumenti essenziali ai fini della sopravvivenza.
Fatte queste premesse di carattere generale, non sfugge all’attento sguardo sociologico dell’autrice di questo godibilissimo volume il fatto che esistono tipi di impostura diversa a seconda del contesto sociale in cui il fenomeno si manifesta. Così come non si può evitare di notare quanto la questione dell’impostura sia particolarmente rilevante in una cultura come quella occidentale, che continua a permanere profondamente dualistica ed essenzialista nonostante le profonde trasformazioni intervenute (soprattutto grazie ai paradigmi interpretativi suggeriti dalla fenomenologia o anche dalla fisica quantistica stessa) nella nostra concezione della “realtà” e della “verità” ad essa associata.
Ben consapevole di tutto ciò, Gabriella Turnaturi orienta il suo lavoro soprattutto all’analisi delle dinamiche delle interazioni che emergono dalle vicende attraverso cui descrive i suoi modelli esemplari di impostura. Come dichiara introducendo il suo lavoro, il suo obiettivo è infatti quello di rilevare alcune delle possibili costanti nel manifestarsi delle relazioni fra chi inganna e chi è ingannato a livello sia individuale sia collettivo, focalizzando l’attenzione “sui contesti sociali e relazionali, sulle culture emozionali che rendono credibili le imposture”. Per fare ciò, la studiosa attinge abilmente alle sue approfondite conoscenze disciplinari, utilizzando gli strumenti e le categorie delle scienze sociali.
A tal fine emerge subito con chiarezza un fenomeno centrale per la teoria sociologica: la questione della fiducia, ovvero il paradosso per cui la possibilità stessa dell’inganno presuppone l’esistenza di un atteggiamento di fiducia. Insomma, nessuna società potrebbe ambire a istituire e legittimare alcun tipo di ordine all’interno di un regime di sospetto generalizzato. In questo senso, la Turnaturi inserisce la sua analisi in un filone di studi che riconosce alla fiducia una funzione sostanzialmente costitutiva dell’ordine sociale fondato sull’idea che anche la più primordiale delle comunità umane presuppone l’aspettativa che gli altri si comportino in modo prevedibile, comprensibile, affidabile e non minaccioso. In assenza di una tale aspettativa, l’azione sociale verrebbe altrimenti paralizzata dalla costante incertezza e dal timore dell’inganno. Alla fin fine, si potrebbe dire che una società funziona in modo sufficientemente ordinato solo quando tutti fanno ciò che tutti si aspettano che facciano!Da una tale (solo apparentemente banale) constatazione, deriva un’altra fondamentale implicazione:l’impostura non costituisce un’anomalia marginale, ma è un fenomeno sociale che si radica proprio nelle condizioni di possibilità della fiducia. La truffa, l’inganno e l’assunzione di false identità opportunamente messe in rilievo e analizzate dalla Turnaturi, sembrano in tal senso sfruttare le stesse logiche e vulnerabilità necessarie al funzionamento ordinario delle organizzazioni sociali stesse. Insomma, pur essendo ben consapevoli che dare fiducia a qualcuno implica il rischio di poter essere ingannati, non se ne può fare altrimenti.
Nei sette capitoli in cui è strutturato il volume, l’autrice propone una serie di casi esemplari di impostura, ricostruendo le trame emotive, simboliche e relazionali che li hanno resi possibili. L’atteggiamento dell’impostore, quello del suo pubblico e dei suoi complici viene così analizzato come un groviglio di passioni, aspettative e illusioni, che svela in filigrana i meccanismi profondi del riconoscimento e della credibilità sociale. Ogni vicenda analizzata costituisce un’occasione per mettere a fuoco i meccanismi di costruzione dell’identità e i dispositivi sociali di legittimazione che rendono verosimile, e spesso accettabile, la falsificazione.
L’apertura del percorso con la figura di Leone l’Africano, uomo sospeso tra due mondi religiosi e culturali, mette in luce l’idea che l’identità non sia un’essenza fissa ma una configurazione relazionale e situata. In particolare, l’identità si rivela come un atto performativo: non è ciò che si è, ma ciò che si fa apparire, attraverso pratiche, linguaggi e gesti riconoscibili. Nel capitolo dedicato al celebre caso di Martin Guerre, viene delineato con molta chiarezza l’incontro tra attese sociali e bisogni affettivi-emotivi che rendono più efficace l’inganno. Qui l’intera comunità si fa coautrice dell’impostura, perché il falso Martin Guerre incarna in modo credibile le aspettative normative del ruolo sociale che è chiamato a rivestire. In linea con quanto a suo tempo teorizzato da Erving Goffman, è come se ogni individuo si muovesse sulla “scena” sociale mettendo in atto una “presentazione del sé coerente con lo script culturale atteso”. Il successo dell’impostura dipende in questo caso non tanto dalla sua “veridicità”, quanto dalla coerenza performativa e dalla complicità (consapevole o meno) degli altri attori sociali. Un fenomeno per molti versi paragonabile al casodello smemorato di Collegno,in cui l’Italia fascista si confronta con una tensione identitaria profonda, esprimendo una società che si specchia nel conflitto tra verità ufficiale e credenza popolare. Anche qui emerge chiaramente quanto la verità sociale sia per molti versi un prodotto collettivo, negoziato nel campo simbolico della legittimazione, seguendo determinate logiche condivise. L’impostore riesce in tal caso a mobilitare una rete di riconoscimento facendo leva sull’efficacia simbolica che produce attraverso la sua narrazione.Il caso ottocentesco di Tom Castro rende a sua volta evidente quanto l’affettività e il desiderio di credere possano sovrastare l’evidenza materiale. Il riconoscimento da parte della madre rappresenta una validazione simbolica potentissima: “può una madre non riconoscere il proprio figlio?” Qui la Turnaturi richiama Borges per sottolineare come l’eccesso stesso dell’impostura, la sua palese assurdità, contribuisca paradossalmente a renderla credibile. È la logica del “troppo assurdo per essere inventato”, che scardina la razionalità e mobilita l’emotività collettiva.In epoca contemporanea, la figura di Anna Sorokin (alias Anna Delvey) mostra come l’inganno si realizzi all’interno delle logiche del capitalismo della reputazione e del branding personale. Il suo personaggio funziona non perché autentico, ma perché perfettamente aderente agli stili di vita e ai codici del prestigio sociale. Come suggerisce Bourdieu, il capitale simbolico può essere performato e temporaneamente sostituito al capitale economico, specialmente in contesti in cui l’apparenza è sufficiente a produrre credito sociale e accesso a risorse. Il saggio si chiude con una riflessione più teorica su figure ibride come spie, infiltrati e agenti doppi che incarnano perfettamente la tensione tra simulazione e dissimulazione: ciò che si mostra e ciò che si tace finiscono per essere strumenti dell’azione sociale.
In un lavoro del genere non potevano mancare quelli che, per motivi molto diversi, costituiscono a mio avviso i due modelli più rappresentativi di questa intrigante figura: L’impostore di Javier Cercas e L’Avversario di Emmanuel Carrère.
Innanzitutto, il caso di Enric Marco, oggetto dell’opera L’impostore di Javier Cercas, che probabilmente riassume in sé molte delle tensioni identitarie analizzate in precedenza: l’inganno come forma di costruzione identitaria, come narrazione strategica del sé, come strumento di riconoscimento pubblico e politico. L’impostore non mente in questo caso solo per trarne un vantaggio personale, ma per occupare un posto nella memoria collettiva, per entrare nella storia. È un caso emblematico di falsificazione produttiva, che costringe a interrogarsi su dove finisca la performance e dove inizi la menzogna, e su come la società partecipi attivamente a una tale elaborazione collettiva dell’ambiguità.
Si tratta di uno di quei casi in cui si è molto discusso a proposito del fatto che si trattasse o meno di un romanzo, o di una sorta di narrazione di tipo saggistico. Molti studiosi lo hanno ad esempio definito, a suo tempo (era il 2014), un tipico caso di «romanzo senza finzione».
Il libro di Javier Cercas narra la storia di un tale Enric Marco Batlle, la cui biografia era articolata intorno ai seguenti punti: Nato a Barcellona nel 1921, aveva ricoperto nel corso degli anni diverse cariche pubbliche: militante della sigla sindacale CNT (Confederación Nacional del Trabajo) durante il periodo della Transizione Democratica Spagnola (ovvero tra gli anni 1975 e 1979) diventava Segretario Nazionale di tale confederazione nel 1978. Sconfitto nel suo tentativo di farsi rieleggere durante il V Congresso del 1979, nel 1980 verrà espulso dall’Associazione per le sue attività di protesta, ritenute antisindacali, e comincerà ad impegnarsi attivamente in un altro movimento associativo (la FAPAC-Federazione di Associazioni di Genitori di Alunni della Catalogna) di cui, nel 1998, assumerà la carica di vicepresidente. Di lì a qualche anno (intorno al 2000), Enric (che in precedenza si faceva chiamare Enrique Marcos), comincerà ad avvicinarsi ad associazioni che riunivano vittime spagnole sopravvissute ai campi di concentramento nazista. Nel giro di poco tempo, divenne prima segretario e poi Presidente dell’Associazione Amici di Mauthausen ed altri campi, con sede a Barcellona, la quale riuniva gli spagnoli che erano stati prigionieri nei campi di prigionia nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale.
Nel corso di quel periodo, secondo la sua versione, Enric Marco era stato dapprima esiliato in Francia e da lì deportato nel campo di concentramento di Flossenbürg, in Baviera. Sulle basi di un tale retroterra biografico, Enric Marco parteciperà a manifestazioni pubbliche, convegni, incontri educativi, dibattiti televisivi, al fine di narrare la sua terribile esperienza di deportato, assumendosi anche il ruolo di testimone e rappresentante delle vittime spagnole nel corso di alcune commemorazioni. Il culmine di questa sua esperienza biografica sarà il suo intervento, agli inizi del 2005, di fronte al Parlamento spagnolo, tenuto in occasione di una manifestazione commemorativa in onore delle vittime dell’Olocausto e dei crimini contro l’Umanità, in cui pronuncerà un discorso particolarmente emozionante, ricco di pathos e tonalità drammatiche.
Purtroppo per lui, pochi mesi dopo, uno storico spagnolo dimostrerà in maniera inconfutabile che la maggior parte di quella biografia era totalmente infondata e che nel passato di Enric Marco non c’era stata nessuna deportazione, nessun campo di concentramento e che addirittura non aveva mai avuto niente a che fare con alcuna attività antifascista spagnola durante il periodo bellico.
In sostanza, quella biografia era frutto di una storia inventata, come lo stesso Enric Marco sarà costretto successivamente a confessare pubblicamente.
Avvezzi a tutte le possibili straordinarie avventure del Doppio che hanno contribuito a forgiare, attraverso la letteratura, il nostro immaginario collettivo, sembra quasi di trovarsi di fronte alla trama di un romanzo di un E.T.A. Hoffmann, o di un Chamisso, uno Stevenson, di un Oscar Wilde, se non di Poe, Dostoevskij o Kafka. Eppure, non si tratta solo di fiction.
Così come – sempre a proposito di Doppelgänger – non è una fiction la straziante storia di Jean-Claude Romand raccontata da Emmanuel Carrère in un bel volume che, ad oggi, ha direttamente ispirato almeno tre riuscitissime opere cinematografiche.
Siamo agli inizi del 1993. I fatti si svolgono nella regione di Gex, nella provincia francese al confine con la Svizzera, in una cittadina residenziale a pochissimi chilometri da Ginevra. Jean-Claude Romand è un affermato ricercatore che ricopre una posizione di prestigio nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra, padre affettuoso di due bambini, Caroline e Antoine, di sette e cinque anni, nonché marito pressoché esemplare della bella e sempre sorridente Florence, che lavora in una farmacia del paese. Una bella famiglia, insomma, assolutamente normale e benvoluta da tutti. Tra i co-protagonisti dell’inquietante vicenda figurano anche i genitori di lui, quelli della moglie, alcune comparse e, soprattutto, il migliore amico del dott. Romand – Luc Ladmiral – anch’egli medico e anch’egli sposato con figli. Le due famiglie, come è ovvio, sono molto unite e si frequentano spesso. Luc non è peraltro “un” amico come tanti; egli è l’amico per eccellenza, quello che ha condiviso con lui i segreti più intimi dell’adolescenza e degli studi universitari; quello che gli è stato vicino nei momenti più intensi di gioia e di sofferenza; insomma, i due rappresentavano l’un per l’altro quello specchio nel quale veder riflessi gli aspetti più profondi del proprio Sé, quelli che casomai avresti difficoltà a svelare anche a te stesso. Almeno questo è ciò di cui Luc era convinto!
Poi la tragedia! La casa dei Romand prende fuoco. I soccorritori portano fuori ad uno ad uno i quattro componenti della famiglia, tutti gravemente ustionati. Tutti morti, tranne uno, Jean-Claude, che riuscirà alla fine a sopravvivere. Ma non è tutto: alcune ore dopo la polizia scopre che anche i genitori del dott. Romand, e il loro cane, sono morti. Di lì a qualche giorno un’altra, sconvolgente, macabra scoperta: nessuna delle morti in questione risulta essere accidentale. Gli inquirenti si trovano di fronte ad una serie di omicidi. Le prove sono schiaccianti, l’assassino è proprio Lui! Il dott. Romand sulle prime oppone una strenua resistenza, poi crolla e confessa di aver brutalmente ucciso la moglie, i due bambini, il padre, la madre e il loro cane. Successivamente, aveva dato fuoco alla propria casa, in un disperato e maldestro tentativo (ma sulle sue “reali” intenzioni permangono tuttora molti dubbi) di suicidio.
Come è potuto accadere? Gli inquirenti cercano di far luce sul passato di Romand per venirne a capo; gli amici e i conoscenti – in particolare Luc – credono di star vivendo un incubo dal quale prima o poi si sveglieranno. Non si era forse illuso, e con lui tutti i suoi concittadini, che fosse sufficiente una professione ben remunerata, una famiglia serena, una bella macchina da sostituire periodicamente, delle vacanze rilassanti, per potersi sentire “normali” e al sicuro dall’aggressione di ogni possibile violenza irrazionale? Cosa c’era allora dietro al dott. Romand, nascosto dentro di lui? I giornalisti si scatenano, alla ricerca di risposte esaurienti. Si avanzano delle fragili, benché razionali, ipotesi, che puntualmente vengono smentite. Allora un’unica possibilità resta plausibile, il ricorso al capro espiatorio della “doppia identità”, della “follia” celata dietro la parvenza normale dell’irreprensibile dottore.
Ma Luc, l’amico, il vero amico, non ci sta! Collabora con gli investigatori e con lo straordinario Emmanuel Carrère, contribuendo a far venire alla luce almeno alcuni di quegli eventi chiave, di quei turning point che, nell’esistenza di ognuno di noi, possono determinare un percorso esistenziale piuttosto che un altro. Forse ciò che ne è venuto fuori, le spiegazioni che emergono dalle ricostruzioni effettuate, non aderiranno perfettamente alla cosiddetta realtà storica. Ciononostante, quello che maggiormente conta nella formazione di un’identità è soprattutto il sentimento di coerenza e di adeguatezza del proprio Sé soggettivo rispetto alle istanze oggettivamente attese.
Ancora una volta quell’insaziabile bisogno di raccontare e di raccontarsi riaffiora imperioso. Mediante la narrativa costruiamo, ricostruiamo, in certo senso perfino reinventiamo, il nostro ieri e il nostro domani. La memoria e l’immaginazione si fondono in questo processo. Anche quando creiamo i mondi possibili della fiction, non abbandoniamo il familiare, ma lo congiuntivizziamo trasformandolo in quel che avrebbe potuto essere e in quel che potrebbe essere. La mente umana, per quanto esercitata sia la sua memoria o raffinati i suoi sistemi di registrazione, non potrà mai recuperare totalmente e fedelmente il passato. Ma nemmeno può sfuggirgli. La memoria e l’immaginazione servono da fornitori e consumatori delle reciproche merci.
Ed è pressappoco ciò che accade con la ricostruzione della vita di Jean-Claude Romand.
Nei giorni successivi alla tragedia viene ritrovato un biglietto d’addio con il quale Jean-Claude chiedeva scusa e, tra l’altro, scriveva: “Un banale incidente, un’ingiustizia possono provocare la follia”. Diventava quasi un dovere ricercare quell’evento scatenante, individuare quel punto di svolta nella vita dell’assassino. Durante il dibattimento in aula, l’imputato Romand ricostruisce la genesi della sua follia muovendo dal giorno a partire dal quale in lui si sarebbe insinuato un altro “io”; dal momento in cui aveva intrapreso la strada della menzogna senza poterla più abbandonare. Si tratta del giorno di un fatidico esame all’università, preceduto da una caduta per le scale che gli aveva procurato una frattura del polso: un “banale incidente”, appunto.
Il mattino dello scritto le lancette della sveglia hanno segnato in sequenza l’ora in cui si sarebbe dovuto alzare, l’ora d’inizio delle prove e l’ora della fine. Lui è rimasto a guardarle, steso sul letto. Dopo aver consegnato i compiti, gli studenti si sono ritrovati all’uscita dell’aula o ai tavolini dei bar per chiedersi com’era andata. Nel primo pomeriggio i genitori di Jean-Claude gli hanno telefonato per rivolgergli la stessa domanda, e lui ha risposto che era andata bene. Nessun altro l’ha chiamato.
Fra il giorno dell’esame e l’esposizione dei risultati, sono passate tre settimane. Tutto era ancora in sospeso. Poteva ancora confessare di aver mentito. Naturalmente non sarebbe stato facile, doveva costare moltissimo a un ragazzo serio come lui riconoscere di aver commesso una simile bambinata (…). Da una parte c’era la strada normale, quella che seguivano i suoi amici, gli studi per cui, come tutti confermano, aveva attitudini leggermente superiori alla media. Dall’altra, c’era il sentiero tortuoso della menzogna. (…). Non sostenere un esame e affermare di averlo passato è una sfida audace, il rilancio azzardato di un giocatore. L’esito non può che essere negativo: essere smascherati quanto prima e scacciati dall’università coprendosi di infamia e di ridicolo, le due cose al mondo che più lo spaventavano. Eppure, esisteva un’ipotesi peggiore: proprio quella di non essere scoperto. Ma come poteva immaginarlo? Come poteva immaginare che quella bugia puerile lo avrebbe portato diciott’anni più tardi a massacrare i suoi genitori, Florence e i figli che ancora non aveva?[1]
Da allora in poi, secondo quella che oggi appare come la ricostruzione più verosimile della vita di Jean-Claude Romand, era cominciata la sua doppia vita. Per diciotto anni aveva mentito a tutti: aveva finto di essersi laureato, poi aveva cominciato a fingere di andare al lavoro, si era sposato, aveva messo al mondo due figli, aveva continuato ad intrattenere relazioni più o meno profonde con amici, parenti, colleghi mostrando a tutti un versante puramente convenzionale di sé. «Di norma – commenta Carrère – una bugia serve a nascondere una verità, qualcosa di vergognoso spesso, ma reale. La sua non nascondeva nulla. Sotto il falso dottor Romand non c’era un vero Jean-Claude Romand».[2]
Per diciotto anni aveva finto, tutte le mattine, di andare al lavoro o di partire per un viaggio d’affari, mentre invece trascorreva il suo tempo chiuso in auto a leggere giornali o a passeggiare nei boschi; per diciotto anni, al fine di mantenere un tenore di vita compatibile con il rango della sua falsa identità, aveva spillato grosse somme di denaro a parenti ed amici con il pretesto di investirli per loro in una banca Svizzera. Talvolta era stato sul punto di dover far fronte a qualche richiesta di rimborso, ma alla fine era riuscito sempre a cavarsela, grazie alla menzogna, con una certa abilità. Negli ultimi tempi (e a quanto pare questa vicenda avrà una funzione significativa nel determinare il crollo nervoso finale) aveva intrapreso una relazione amorosa abbastanza seria ed appassionata con Corinne, una vecchia ed affascinante amica, ed anche da lei era riuscito a farsi consegnare del denaro, mentendo spudoratamente per lungo tempo, senza tradire la benché minima difficoltà.
Al termine del processo, com’è noto, Jean-Claude Romand verrà condannato all’ergastolo. Nell’aprile del 2019, tuttavia, ventisei anni dopo il massacro, l’assassino è tornato in libertà; il tribunale francese gli ha concesso un regime di libertà vigilata ed oggi potremmo imbatterci in questo famoso impostore, o nel suo doppio, esattamente come era accaduto a partire dal 2000 a Claudia Poblete con l’impostore di suo padre, il generale Ceferino Landa, che ventidue anni prima aveva sostituito il suo vero genitore prendendone il posto.
Si tratta di uno dei casi più eclatanti emersi a seguito dalle tenaci ricerche sui desaparecidos argentini, la cui storia è stata ricostruita e pubblicata dal giornalista Federico Bianchini nel 2023 in un magnifico libro dal titolo “Il tuo nome non è il tuo nome”.
Nel 2000 un giudice cita una giovane ventiduenne, Mercedes Landa (come lei aveva sempre creduto di chiamarsi) per rivelarle che il suo “vero” nome è un altro: Claudia Poblete Hlaczik. Le persone che l’avevano cresciuta e amata, quelli che fino a quel momento aveva considerato come suo padre e sua madre, erano in realtà i suoi sequestratori. I suoi veri genitori, due giovani militanti che all’epoca si opponevano alla dittatura militare, erano stati torturati e “desaparecidos” nel 1978. Lei, Claudia, una bambina di soli otto mesi, era stata da allora affidata a una famiglia di militari che desiderava allevarla. Da allora Claudia si chiamerà Mercedes, avrà documenti ufficiali in cui si chiamerà Mercedes e si affezionerà e amerà i suoi due genitori-impostori come se fossero i suoi veri, unici e autentici genitori.
La sua storia costituisce una straordinaria ed esemplare testimonianza di come talune forme sociali di impostura possano determinare, orientare e talvolta disgregare anche le più radicate certezze relative alla nostra esistenza, rendendo drammaticamente precarie le verità e le finzioni su cui talvolta fondiamo la nostra percezione della realtà.
Gabriella Turnaturi,
Impostori. Storie di inganni e autoinganni,
Raffaello Cortina 2025.
[1] E. Carrère, op. cit., pp. 54-56.
[2] Ivi, p. 72.