di Primavera Fisogni
Internet addiction, una dipendenza sui generis
Con il termine “dipendenza” si intende un comportamento patologico, derivante dall’abuso di sostanze che interferiscono con le capacità cognitive, deliberative, sensitive dell’individuo, ovvero dall’uso ossessivo compulsivo di Internet, nelle sue varie potenzialità (navigazione, filmati, relazioni social, giochi on line). Più recente, tratteggiata a livello scientifico da meno di trent’anni, da quando cioè l’esperienza online è diventata parte delle nostre vite, la dipendenza da Internet o Internet addiction, non è recepita dal manuale diagnostico di riferimento DSM-V[1]: viene infatti ricondotta all’ambito generale delle “dipendenze”, contrariamente alla gaming addiction o dipendenza da gioco online, presente nel manuale fin dal 2013, ma ancora aperta ad approfondimenti e ricerche sperimentali che ne possano irrubustire la configurazione diagnostica.
Tra i primi a porre il problema delle Internet Addiction (IA) o Internet Addiction Disorders (IAD), Young rilevava nel 1996 l’insorgere di «un nuovo disordine clinico»[2] fondato sulla dipendenza. Tuttavia, pur essendoci consenso tra psichiatri e psicologi sul tratto impulsivo che avvicina le IA agli abusi di sostanze, esso «manca di una definizione universale e di criteri di diagnosi» come rilevano Durkee e colleghi (2012)[3]. L’interesse crescente per gli esiti di un’eccessiva esposizione a Internet si spiega con la facilità con cui i giovani rischiano di soffrire dell’abuso delle attività online, sia in termini di vera e propria addiction ossessiva/compulsiva, sia per il peggioramento della qualità della vita, dovuto a comportamenti mal-adattivi in rapporto al mezzo digitale. Risulta provata anche la correlazione tra l’uso compulsivo della rete e comportamenti a rischio tra i giovanissimi[4].
Rientrano in queste macro aree il Pathological Internet Use (PIU) e il Maladaptive Internet Use (MIU)[5]. Studi recenti hanno rivelato che sono soprattutto i ragazzi a soffrire del primo tipo di dipendenza, che sconfina nell’interazione compulsiva con i devices digitali e nell’uso smodato dei giochi on line, mentre le ragazze tendono ad eccedere nella seconda tipologia, che si esprime, ad esempio nel tempo trascorso a chattare o nei social network in genere. Per altro, questa distinzione si sovrappone a quella classica di abuso di sostanze, prerogativa più maschile che femminile. Riguardo alla rete, tra specialisti si dibatte oggi se sia il caso di parlare di “addiction” oppure “problematic use”[6]: in entrambi siamo in presenza di riflessi sul quadro comportamentale[7]; ma se la prima rinvia a «un’interazione compulsiva con perdita del controllo e conseguenze negative nei risultati scolastici»[8], la seconda definizione fa pensare a una condizione di rischio piuttosto che ad una vera e propria patologia, con sintomi diagnosticabili in modo puntuale.
Derealizzazione come conseguenza della iper-connessione
I disturbi correlati alle dipendenze da Internet rivestono un particolare interesse per capire la genesi di quel fenomeno antropologico, ma dal profilo patologico, comune a numerose malattie psichiche, che va sotto il nome di de-realizzazione[9]. Nell’uso compulsivo della rete, dei social, dei giochi online, specialmente tra i giovani, si rileva l’aumento di sindromi depressive, ansia, irrequietezza, perdita del ritmo sonno-veglia[10]. Si tratta di una sintomatologia non esclusiva dell’uso eccessivo della rete, ma è soltanto attraverso l’ambiente digitale che possiamo rilevare l’insorgenza della de-realizzazione come conseguenza esplicita della iper-connessione.
Il momentaneo o perdurante distacco dalla realtà, evidenziato dalla specifica sintomatologia precedentemente indicata, è direttamente proporzionale al tempo e alla qualità dell’abitare nel cyberspazio. Tale relazione è di per sé altamente suggestiva, perché ribadisce l’impossibilità di separare il piano offline – la cosiddetta ‘realtà’ – dall’online. Si tratta di un’ulteriore conferma dell’esistenza di una regione unica, interconnessa, a funzionamento sistemico: l’Onlife (Floridi, 2015)[11]. Per la psicologia e la psichiatria questo link può significare un canale di rilevante valenza terapeutica per i disturbi dell’isolamento sociale, dove la perdita di realtà è spesso frutto di decisione (come nell’hikikomori), perché consente di progettare percorsi terapeutici efficaci proprio facendo leva sul digitale.
Ma perché l’uso ossessivo della rete distacca dal mondo reale, o mondo della vita (Lebenswelt) secondo la tradizione fenomenologica? Cosa possono insegnarci questa e altre forme di dipendenza? Se nell’abuso di sostanze intervengono fattori biochimici (droghe, alcol) ad alterare i parametri di realtà, nelle Internet addiction sembra indebolirsi uno dei due poli esistenziali della relazione: il rapporto con l’oggetto. Nel mondo cosiddetto “reale” le relazioni possiedono un carattere intenzionale, che negli essere animati implica una risposta da parte dell’altro termine di relazione al quale ci si indirizza. Dallo sguardo verso qualcuno alla carezza al gatto, all’acqua data alle piante, l’interlocutore/termine risponde in qualche modo all’atto. In tal modo il soggetto riconosce o ha buone possibilità di vedere nell’altro, un altro-da-sé rafforzando in tal modo il consapevolezza di non essere riconducibile ad esso.
Nell’irrobustirsi del sé anche ciò che è “fuori” e “altro” dal soggetto trova riconoscimento, radicando in tal modo l’esperienza dell’Io in un contesto fatto di molteplicità, distinzione, correlazione. La perdita di contatto con il mondo della vita – espressione meno ambigua di “realtà” – esprime, in definitiva, il venir meno di questo fondale di esperienza, deprivando il soggetto della propria forza, consistente nel non vedersi isolato, ma costantemente in un rapporto intenzionale con l’alterità. La derealizzazione, perciò, è la sofferenza dell’Io che indebolisce la propria identità nel momento in cui si ripiega su se stesso. Esperienze traumatiche, attacchi di panico, angoscia o ansia favoriscono tale fragilità essenziale del soggetto, un tratto antropologico, impossibile da cancellare. In apparenza Internet sembrerebbe il luogo più reale di ogni realtà, perché l’utente viene continuamente sollecitato a interagire: dal clic della connessione alle indicazioni per “navigare”, ai “like” dei social network.
Sarebbe sbagliato anche pensare che il web non fornisca quelle esperienze multisensoriali parte costitutiva della condizione umana nel “mondo reale”. Ad eccezione dell’odorato, presente solo come memoria olfattiva (se vediamo una rosa in video, possiamo immaginare il suo profumo), tutti gli altri sensi sono all’opera. Allora, quale fattore risulta decisivo nell’insorgere delle patologie del Sé, quando l’esposizione eccessiva al digitale limita l’esperienza del mondo della vita? Possiamo parlare di una sorta di preminenza dell’ipseità, ovvero di centratura di sé favorita dal web.
Per quanto grande sia la rete delle relazioni instaurate, la fruizione di Internet e i suoi satelliti (i social network, i giochi on line) dipende sempre e solo da una decisione soggettiva, unilaterale. È in altre parole il soggetto che, lanciando la connessione, afferisce a quel mondo non meno reale della realtà per così dire in “carne e ossa”. Il medesimo ha pieno potere anche di chiudere quell’ambiente, con poche operazioni. Quanto più perdura questa modalità di relazione, tanto più l’Io erode la tessitura dell’essere in relazione, un intreccio di sguardi, sollecitazioni, cadute e riprese di interesse. Pensiamo a una passeggiata in solitario, ai tempi del Covid-19, che ha imposto un’impensata segregazione con qualche sparuta e ansiogena (perché sanzionabile) uscita di casa.
Anche se camminando non vediamo nessuno o sfuggiamo l’incontro casuale, tutto attorno siamo interpellati da luoghi, memorie, curiosità, profumi dei fiori, condizione non perfetta del manto stradale, cartelli affissi alle vetrine in cui i titolari si dispiacciono per la chiusura “per forza maggiore”. Spegnere il computer e lo smarphone, mettendo fine a una connessione è mettere uno stop definitivo a qualsivoglia sollecitazione del mondo virtuale in cui, fino a un attimo prima eravamo connessi.
Dunque, l’Io nell’esperienza del mondo cosiddetto reale non può mai davvero dirsi isolato, perché l’ambiente della vita possiede un carattere sempre, inestricabilmente relazionale con annessa interpellazione (il Tu chiama in certo modo l’Io). Viceversa, l’esposizione prolungata all’ambiente online, nell’illusorietà di un tessuto relazionale robusto, ordinario, accentua l’isolamento del Sé, dando origine a quel disagio emozionale, cognitivo, deliberativo che è tipico dei disturbi di de-realizzazione citati all’inizio. La perdita di contatto con il mondo della vita trova qui la sua premessa perché si formi un’erosione, la cesura dolorosa del vuoto[12].
La medesima esperienza si vive anche nel mondo “reale”. Il senso di mancanza è infatti un sintomo caratteristico di molteplici disturbi psicologici (disturbi alimentari, narcisistici) e di area psichiatrica (depressione, schizofrenia), sempre caratterizzati dal venir meno del rapporto di trascendenza Io/Tu[13]. Dove, per ragioni biochimiche o per decisione del soggetto, il polo individuale (l’Io) tende ad allentare i legami con l’altro da sé.
Nelle Internet addiction si rileva, come in ogni tipo di dipendenza, il bisogno ossessivo-compulsivo di colmare un vuoto[14]. Un’esigenza antropologica radicale in quanto, s’è detto, è nelle dinamiche personali il trovarsi in relazione. Più sale la curva della mancanza, più si tende a rinforzare l’origine stessa del disagio. Ma c’è un aspetto anche terapeutico nell’uso massiccio della rete, che intendo enunciare nei prossimi paragrafi, alla luce di una ricerca recente. Si tratta, per dirlo in forma divulgativa, del ruolo che l’attaccamento al virtuale può giocare nel caso di una forma particolare di isolamento sociale, l’hikikomori[15].
Hikikomori, la sindrome di severo isolamento sociale volontario
Diagnosticata a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, ma nota sul piano scientifico fin dal 1978[16], inizialmente considerata un fenomeno socio-culturale tipico del Giappone, la cosiddetta sindrome hikikomori tratteggia la condizione derivante dall’isolamento volontario di adolescenti e giovani adulti, fino ai 40 anni. La fenomenologia è piuttosto semplice: ad un certo punto ragazzi che non hanno grandi problemi, né a scuola né in famiglia, lasciano le lezioni, i rapporti diretti con i coetanei e si rintanano nella propria stanza per molte settimane, in genere non meno di sei mesi. A far decidere di rompere i ponti con il mondo “reale” c’è sempre un episodio rilevante, una bocciatura a scuola, ad esempio; tuttavia la conseguenza che ne deriva (lunga reclusione domestica) ha una portata tale da andare ben oltre quel puntuale effetto.
Benché venga spesso precisato che la sindrome non rientra nelle Internet addiction, importanti e recenti studi empirici su ampie porzioni di popolazione giovanile hanno mostrato la correlazione tra esposizione al web (social, videogiochi) e facilità a manifestare i sintomi dell’hikikomori, evidenziando perciò quanto descritto nel precedente paragrafo[17]. Tratto comune alla gran parte degli hikikomori – il termine designa sia il disturbo comportamentale sia coloro che ne sono affetti – è la perdita di ogni interesse per attività “regolative”, quali lo studio, lo sport, i rapporti sociali, al punto che persino il ciclo sonno/veglia viene modificato. In più, nella grande maggioranza dei casi, questi giovani eremiti contemporanei si dedicano a un’intensa attività online, standosene al computer per ore, navigando nel web o impegnati in videogiochi.
Fatto interessante, apparentemente senza una spiegazione, gli hikikomori non sono quasi mai “casi psichiatrici”. Molto spesso vengono visti dal clinico, ma rispondono con appropriatezza alle domande, dichiarando di non avere quei sintomi caratteristici dell’insorgere di una psicosi (es: allucinazioni visive o uditive). Questo spiega perché l’approccio terapeutico sia principalmente psicologico e non farmacologico, come si evince dalla vastissima bibliografia sul fenomeno. Come spiegare che la persona così drasticamente isolata, all’apparenza tanto immersa nel vuoto di un’alienazione ricercata, si mantenga allo stesso tempo entro parametri di equilibrio psico-fisico?
Internet addiction o terapia di filling the void?
Vorrei suggerire una risposta formulabile in questi termini: se gli hikikomori mantengono, tutto sommato, un equilibrio psichico nella condizione di isolamento in cui hanno scelto di vivere, è anche grazie all’uso intenso di Internet[18]. Premesso che non possiamo generalizzare, essendo ogni caso a sé, esistono comunque validi argomenti per sostenere questa possibilità.
Dobbiamo anzitutto riprendere in esame l’attitudine a “riempire il vuoto”, quale esito dell’esperienza di disagio rispetto alla mancanza di realtà, ben resa dall’espressione horror vacui. È parte integrante dell’esperienza umana sentirsi bene quando si “sta” nel mondo, con i piedi per terra, viceversa basta uno choc per scombussolare l’equilibrio. Non è un caso che il vuoto della de-realizzazione sia un sintomo molto diffuso nei traumi, sia fisici sia soprattutto psicologici. Ma riempire il vuoto si dà a vedere anche come un’esperienza globale, che ci porta ad esempio ad avere un gruppo sociale di riferimento o una casa, un lavoro. Il concetto horror vacui si riferisce anche all’esperienza estetica o letteraria. L’ansia della pagina bianca per lo scrittore o della forma da modellare per uno scultore, si presenta spesso come intreccio narrativo, rivelando il nesso tra realtà/identità (sei quello che fai). Senza semplificare un’esperienza tanto complessa, ma cogliendone in primo luogo la forza creativa – come generatrice di nuova realtà – torniamo agli hikikomori. Chiusi al mondo, rispetto al quale si è verificato uno scollamento, questi reclusi volontari ne avvertono certamente il disagio: lo sfasamento sonno-veglia è una sintomatologia molto esplicita della disc spazio-temporale esperito in questa sindrome. Ma proprio la prolungata persistenza nel dominio virtuale, tra le concause del ritiro sociale, rientra in gioco come generatore di realtà. Un’obiezione può essere a questo punto avanzata. Com’è possibile pensare che il virtuale compensi l’assenza del mondo “vero” se, come argomentato in precedenza, tale ambiente non offre le medesime dinamiche relazionali?
Ancora una volta occorre riflettere sulle dinamiche dell’Io. Nella dipendenza da Internet, come s’è detto, si ravvisa lo sporgere ipertrofico del Sé rispetto alla relazione con il contesto, una preminenza che finisce per isolarlo e svuotare il senso stesso dell’essere nel mondo. Eppure qui ritroviamo anche l’antidoto alla perdita di mondo, il presupposto germinale del processo di “riempimento del vuoto”, terapia spontanea d’elezione del disagio. Nella sua ipertrofia, l’Io avverte con frustrazione l’esigenza di affermarsi sempre di più e non trova altro che se stesso. Di qui il senso di scoramento che si intreccia con l’esperienza del vuoto. S’innesta qui il primo segnale della necessità di ristabilire l’equilibrio, che tuttavia le dipendenze non sanno incanalare nel giusto verso. Infatti vengono ossessivamente ripetuti comportamenti maladattivi: chi beve vuole bere di più, chi assume sostanze aumenta progressivamente l’assunzione, chi eccede nell’uso del web finisce per non staccare mai.
Nel caso dell’hikikomori viene vissuto un passaggio molto particolare, dal mondo reale a quello virtuale. L’eccessivo uso di Internet aveva provocato, come con-causa, la chiusura in se stessi.
Ora è proprio l’impiego continuativo/compulsivo del digitale a compensare la de-realizzazione derivante dall’isolamento, perché l’accesso al mondo digitale – come si è argomentato all’inizio – si instaura attraverso una connessione, cioè un “essere con”, una procedura di collegamento che non può darsi senza 1) il soggetto in carne e ossa e 2) un atto di volontà. La connessione virtuale costituisce, dunque, una prima ricomposizione, un rimettere insieme qualcosa a qualcosa d’altro, cioè dà a vedere un processo di ricucitura della realtà.
Ma che cosa si rimette in circolo?
La realtà, proprio quella in “carne e ossa”. In particolare, è la decisione di connettersi a costituire il punto focale di questa ricostruzione. Perché? Per il fatto che, nel momento in cui esprimiamo una deliberazione ribadiamo il nostro posto nel mondo, ci collochiamo, insomma. Non si tratta ancora di un rientro a pieno titolo nel mondo della vita, tuttavia è un primo passo significativo. A questo proposito vorrei citare l’esperimento giapponese di riportare gli hikikomori nella società, attraverso il canale dei giochi virtuali, in particolare di Pokémon Go[19], che sembra aver dato risultati incoraggianti, al punto da essere preso in considerazione anche per il trattamento dei grandi obesi dove il fattore-dipendenza si correla al consumo del cibo quale principale attività entro una stasi pressoché totale dei rapporti sociali. Il fenomeno degli hikikomori porta alla luce, con forte evidenza, anche un tratto solitamente poco esplorato nelle dipendenze, vale a dire l’isolamento sociale. In tal modo è espliciatato con ancora maggiore chiarezza il dato della de-realizzazione, che conduce alla seguente conclusione: ogni dipendenza sconnette più o meno fortemente dal tessuto delle relazioni, portando una centratura sul soggetto da cui, verosimilmente, si origina l’esperienza del vuoto, la cui compensazione non fa che intensificare il rapporto esclusivo con l’origine della dipendenza stessa.
Conclusioni
Senza alcuna pretesa di esaurire un tema tanto complesso come le dipendenze collegate all’ambiente web, rispetto alle quali c’è anche una diffusa incertezza terminologica (si tratta di “dipendenze” o “uso mal-adattivo” della rete?) e diagnostica (non sono ad oggi considerate vere e proprie patologie riconducibili ai parametri del DSM-V), questo articolo ha voluto portare l’attenzione su un aspetto antropologico che ben affiora dalla fenomenologia delle IA: il carattere di de-realizzazione che sancisce il distacco, breve o continuativo, dal mondo della vita, di cui il vuoto è sintomatico. Il termine “mondo della vita”, a giudizio di chi scrive, va preferito a “realtà”, espressione ambigua, riferibile a pieno titolo anche al dominio virtuale, ormai implicato al nostro presente interconnesso, al punto da parlare di mondo Onlife.
Perché è suggestiva la lettura di una dipendenza speciale, ma di ogni dipendenza in generale, come de-realizzazione?
Perché essa getta luce sul fatto che l’uso/abuso di un comportamento (nel web, nella droga, nel cibo, nel fumo, nell’alcol, etc.) esprime uno spasmodico tentativo di ricomposizione con il mondo della vita ovvero con quella tessitura di relazioni interpellanti costitutive della “realtà”. Ora, l’analisi delle dipendenze ha sempre un approccio patologico, negativo. Giustamente. Perché nel tentativo di acquisire “realtà” si allarga, di fatto, il vuoto disfunzionale. Tuttavia, in un fenomeno del mondo interconnesso – la sindrome dell’hikikomori o severo isolamento sociale – si rileva il valore connettivo, se non propriamente terapeutico, dell’uso prolungato del web, da parte di soggetti in genere adolescenti o molto giovani. Più che la psicologia o la psichiatria, è l’idea di fondo di questa riflessione, può sapientemente illuminare quella che è stata indicata come una “ricucitura” del/col mondo della vita. Si tratta di un sasso gettato nello stagno, forte però di un germinale, sincero interesse di studio anche da parte della psichiatria[20], che motiva un dialogo interdisciplinare ancora più serrato in questo settore di ricerca.
[1] APA. Diagnostial manual of mental disorders: DSM-V, Washington D. C.: American Psychiatric Association, 2013.
[2] Pabasari G. Internet Addiction Disorder. In Martin H. Maurer (Eds.), Child and Adolescent Mental Health, SPi Global, Zagreb, 2017, https://doi.org/10.5772/66966
[3] «PIU … conceptualized as an impulse control disorder sharing characteristics with behavioural addiction; however it still lacks a universal definition and diagnostic criteria», in Durkee T et al. Prevalence of pathological internet use among adolescents in Europe: demographic and social factors, Addiction, May 2012, 107: 2210-2222. Scaricabile come: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22621402; Tony Durkee et al, Pathological Internet Use and Risk-Behaviors among European Adolescents, Int. J. Environ. Res. Public Health, 13, 294; 2016; doi:10.3390/ijerph13030294.
Available at: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/27005644, pag. 216.
[4] Ibidem
[5] OECD, Children & Young People’s Mental Health in the Digital Age, Paris: OECD Publishing, 2018.
[6] Díaz-Aguado MJ, Martín-Babarro J, Falcón L. Problematic Internet use, maladaptive future time perspective and school context. Psicothema, Vol. 30, No. 2, 2018: 195-200. doi: 10.7334/psicothema2017.282
[7] Fernandes B, Rodrigues Maia B, Ponte HM. Internet addiction or problematic internet use? Which term should be used. Psicologia USP, 2019, vol. 30. Scaricabile come: http://www.scielo.br/scielo.php?script=sci_arttext&pid=S0103-65642019000100220&lng=en&nrm=iso&tlng=en. https://doi.org/10.1590/0103-6564e190020
[8] Diaz-Aguado MJ et al. “Problematic Internet Use, maladaptive future time perspective and school context”, 2015, pag. 196.
[9] Nel DWM-V il Derealization-depersonalization Disorder corrisponde a Code 300.6 (F48.1). Depersonalization/Derealization Disorder. Psychology Today. Available at: https://www.psychologytoday.com/intl/conditions/depersonalizationderealization-disorder; APA Dictionary of Psychology, Available at: https://dictionary.apa.org/derealization
[10] Pabasari G. Internet Addiction Disorder. In Martin H. Maurer (Eds.), Child and Adolescent Mental Health, op. cit.
[11] Floridi L. The Onlife Manifesto. Being Human in a Hyperconnected Era, Heidelberg, New York, Dordrecht, London: Springer Open, 2015.
[12] Epstein M. Forms of Emptiness: Psychodynamic, Meditative and Clinical perspective. The Journal of Transpersonal Psychology, 21 (1), 1989: 61-71.
[13] Kirmayer LJ. Pacing the Void: Social and Cultural Dimensions of Dissociation: Culture, Mind and Body (91-122). In D. Spiegel editor: Dissociation: Culture, Mind, and Body, American Psychiatric Association. Washington: American Psychiatric Press, 1994: 91-122.
[14] Fisogni, P. Void in Onlife Age, Aspects of De-Realization and Disconnection. ARC Journal of Psychiatry, vol. 4 (3), 2019: 27-35
[15] Fisogni P, Fisogni A. The Experience of Void within De-realization and Disconnection, in uscita sul Journal of Psychiatry and Psychologicay Research, articolo accettato il 9 marzo 2020.
[16] Teo AR, A New Form of Social Withdrawal in Japan: A Review of Hihikomori. Int J Soc Psychiatry. March ; 56(2), 2010:178–185. doi:10.1177/0020764008100629; Furlong A. The Japanese hikikomori phenomenon: acute social withdrawal among young people. Sociological Review, 56, 2008: 309–325; Malagón-Amor Á, Martín-López LM, Córcoles D, González A, Bellsola M, Teo AR, Bergé D. A 12-month study of the hikikomori syndrome of social withdrawal: Clinical characterization and different subtypes proposal. Psychiatry Research, 270, 2018: 1039-1046.
[17] Tateno M, Teo AR, Ukai W, Kanazawa J, Katsuki R, Kubo H, Kato TA. Internet Addiction, Smartphone Addiction, and Hikikomori Trait in Japanese Young Adult: Social Isolation and Social Network, Frontiers in Psychiatry, 10 July 2019, doi: 10.3389/fpsyt.2019.00455. Scaricabile come: https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fpsyt.2019.00455/full
[18] Gent E. Social isolation is often blamed on technology, but could it be part of solution?, BB Future, 29 January 2019. Available at: https://www.bbc.com/future/article/20190129-the-plight-of-japans-modern-hermits
[19] Tateno M, Skoukaukas N, Kato TA, Teo AR, Guerrero APS. New game software (Pokemon go) may help youth with severe social withdrawal, hikikomori. Psychiatry Res (2016a) 246: 848-9.
doi: 10.1016/j.psyhres.2016.10.038
[20] Rimando allo studio in fase di pubblicazione, da me co-firmato, che intreccia in modo interdisciplinare l’investigazione filosofica con l’indagine psicologica (Fisogni P, Fisogni A. The Experience of Void within De-realization and Disconnection).