di Chiara Menichetti
L’identità è un tema difficile da trattare, un concetto apparentemente determinato e sempre in divenire. Se partiamo dall’identificabilità, anche solo a livello normativo, di alcune categorie come anziani, portatori di handicap, minori, il tema diviene ancor più complesso. Molti sono i passi fatti in questo tentativo, dalla legge 328 del 2000, in tema di integrazione dei servizi sociali e sanitari, alle leggi regionali a cui si affida il compito di prevedere un progetto di vita specifico per ogni soggetto preso in carico.
Nell’ambito della disabilità il tema dell’identità è ancor più complesso. Il disabile è riconoscibile per tipologia di handicap, per appartenenza ad un determinato centro di aggregazione connotato da una specifica disabilità, ma sempre e comunque sempre identificato grazie a soggetti esterni.
Come sostiene Focault, le nostre identità possono essere definite dall’alto, cioè da altri, o dal basso intendendo con ciò il processo di autodefinizione. Ma per autodefinirsi solitamente dobbiamo riconoscerci in caratteristiche individuali e di gruppo. Laddove la persona, per esempio, portatrice di handicap mentale ha difficoltà a definirsi, il discorso sull’identità può articolarsi a partire dalla sua storia.
Una storia raccontata da genitori, da operatori, da servizi sociali, mille storie per un’identità spesso muta. Un racconto che si desume dallo sforzo comunicativo del suo protagonista e dello sforzo di comprensione e di interpretazione empatica di chi ascolta. Un agire, rappresentato dalla narrazione, che diventa soggettività.
Giovanni M. Cappai, ad esempio, in pone l’attenzione su quale sia il ruolo della società rispetto all’identità del disabile[1]. I livelli di gravità di handicap sono tanti quanto le persone, vanno da handicap fisico a situazioni di grave compromissione mentale, dal deficit sensoriale a tutte le combinazioni fra queste. E nella molteplicità delle situazioni, dalla società emergono domande del tipo Chi sceglie per te? Come e chi ti definisce? Quale scala di valutazione?
Erikson nei suoi studi di formazione dell’identità adulta[2] colloca la fase dell’autonomia (oggi pernio della valutazione rispetto all’inquadramento della disabilità), come fase di superamento del senso di vergogna e di dubbio, nel periodo che va da uno a tre anni. Lo stesso pone l’identità intesa come superamento di dispersione e confusione di ruoli al quinto stadio, vale a dire quello dell’adolescenza. E’ ben evidente che l’autonomia per Erikson sia intesa in modo diverso dall’autonomia in età adulta, è altresì chiaro che queste classiche distinzioni entrano in crisi quando si parla di una persona che vive delle limitazioni oggettive al suo senso di autonomia ( spostamenti, decisioni etc..) o di intimità. Maslow[3] distingue, nelle motivazioni dell’individuo, una motivazione che mira alla soddisfazione dei bisogni fondamentali e una tendenza allo sviluppo e all’autoperfezionamento in un individuo sano. Cosa succede nelle esistenze in cui la motivazione costruttiva non prende forma? Per le persone con handicap fisico o mentale, la limitazione dell’autonomia non è legata ad una fase della vita, ma ad un deficit spesso permanente. Tale deficit viene vissuto come penalizzante dell’autonomia dal diretto interessato, dal nucleo di appartenenza e dall’ambiente sociale, per cui troppo spesso l’evoluzione delle esigenze dell’individuo che cresce, che muta, che cambia, non sono prese in considerazione e la risposta ai bisogni è monotematica, il progetto assistenziale un format che si ripete inseguendo un’autonomia di scala e non reale.
Il concetto di capabilities, sviluppato da M. Nussbaum anche in relazione alla disabilità, colloca tra le capacità della persona quella di suscitare sentimenti umani. La capability dipende, quindi, anche dalla capacità dell’interlocutore di farsi toccare, di entrare in sintonia. La capability del disabile rischia di diventare ciò che egli suscita nell’altro e che in realtà non è lui. Vi è un’identità negata a favore dello steriotipo che mai è reale ma che, nella società, ha una funzione organizzativa del percorso, dell’orientamento e delle funzioni.
Abbiamo bisogno di categorizzare. Lo stesso processo di cura, inizia con l’inserire la persona in una categoria che identifica la problematica a cui si fa riferimento. E’ esempio chiaro agli operatori dei servizi sociali, come troppo spesso, all’interno dell’organizzazione normativa e operativa dei servizi territoriali si consumi la frantumazione delle identità personali ed i soggetti vengono solo riconosciuti come portatori di una determinata invalidità.
Abbiamo testi legislativi costruiti per macrocategorie, protocolli e procedure per disabilità avanzate, progressive o stabilizzate. Vocabolari specifici per definire ogni tipo di soggetto.
Norme che si prendono il dovere di dire che a seconda dell’età anagrafica il disabile è un individuo diverso in cui non si trova un filo comune conduttore. Dalla nascita ai diciotto anni e’ un minore per cui destinato a strutture ad hoc. Dai diciotto ai sessantaquattro anni è un adulto, al quale sono riservate residenze per disabili, centri diurni etc.. Dai sessantacinque anni in poi in poi destinato a residenze per anziani.
A conferma di questo rito ormai stabilizzato, che non è altro che categorizzazione, vi è il mutamento della terminologia che va ad identificare il medesimo soggetto. Da portatore di handicap a diversamente abile.
Mautuit [4]all’interno della situazione di handicap individua quattro aspetti: l’individuo e l’individuazione del suo deficit, il contesto e l’individuazione degli ostacoli possibili, le relazioni di aiuto necessarie soprattutto, a chi è in situazione di handicap, la sfida della riduzione dell’handicap.
Con l’individuazione di questi aspetti il disabile assume un’altra identità, ovvero quella del diversamente abile, oggi oggetto di ogni campagna pubblicitaria di qualunque ente assistenziale o di promozione sociale. Ma, al vaglio della realtà, anche questa categorizzazione non regge. La Diversabilità è una sfida. Non può essere una definizione e soprattutto non può essere un regalo, perché per qualcuno potrebbe anche essere una presa in giro[5].
E comunque che si parli di persona con disabilità o invalidità, l’attenzione sta sempre su quella caratteristica che crea l’identità, che è l’identità. Allora chi è il disabile? È uno. È nessuno. E’ centomila. O forse è Francesco, Anna, o Paolo. E’ colui che, come tutti, dovrebbe avere il diritto di non appartenere a nessuna categoria, ma dovrebbe avere soltanto il diritto di essere e di raccontarsi .
Diceva Levi della Torre “[…] viviamo in una situazione di grande empirismo, gli orientamenti vengono trattati da oracoli estremamente labili […] e manchiamo di dati solidi.” [6]
[1]Giovanni M. Cappai, Percorsi dell’integrazione. Per una didattica delle diversità personali, Franco Angeli, 2003
[2] cfr Erikson, Identitat und Lebenszyklus, Frankfurt 1973
[3] A. Maslow, Motivazione e personalità, Armando Editore 1992
[4] D. Mautuit, L’integration sociale et professionnelle des personnes en situation de handicap: des concept à l’evaluation des actions. (in Revue Européenne du Handicap Mental, Dialogue Cergy Poutoise, 1995, vol. II, n. 7)
[5] cfr A.Carnevaro, Pedagogia speciale. La Riduzione dell’handicap, Mondadori 2000
[6] S. Levi Della Torre, Integralismi e laicità, in “Laicità”, trimestrale del Comitato torinese per la laicità della scuola, n. 2-3, giusgno 1996
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