di Thomas H. Eriksen
ITA/ENG
(versione originale in fondo)
Colgo l’occasione della stesura di questo articolo per riflettere su due concetti di Gregory Bateson che sono stati particolarmente utili nel mio recente ed attuale lavoro sul cambiamento accelerato e sul “surriscaldamento globale”: la schismogenesi e il doppio legame.
Schismogenesi
Il concetto di “schismogenesi” di Bateson è stato sviluppato a metà degli anni ’30 e pubblicato, in forma tipicamente sintetica, in un articolo polemico ed empiricamente incentrato sui concetti di “acculturazione” e “contatto culturale” (Bateson 1972b). L’autore sostiene che il contatto prolungato tra gruppi culturalmente diversi può assumere tratti competitivi, portando ad un processo disfunzionale che tende ad auto-alimentarsi ed intensificarsi. Nel distinguere tra la schismogenesi di tipo simmetrico e complementare, lo scopo di Bateson non è in realtà quello di parlare di quelle che oggi definiamo relazioni interetniche, ma di sviluppare un dispositivo teorico che può essere applicato, in linea di principio, a tutti i tipi di cambiamenti esponenziali o circoli viziosi. In un’occasione successiva, commentando il suo utilizzo originario del concetto di schismogenesi, Bateson notò che al tempo non aveva a disposizione la nozione di feedback negativo. Fu durante e a seguito delle celebri Macy Conferences, inaugurate nel 1946, e dove furono sviluppati i fondamenti della cibernetica, che i meccanismi di regolazione insiti in fenomeni di varia natura, come quelli che ad esempio fanno funzionare un termostato, furono utilizzati come modelli di analisi del cambiamento, allo scopo di comprendere che cosa regola la velocità e i limiti del cambiamento medesimo, attraverso la definizione di valori soglia e assenze (di feedback).
Da pensatore costantemente attento all’ecologia, Bateson vedeva il mondo come intrinsecamente costituito da relazioni e processi. Cercò anche di mostrare che sistemi che per certi versi presentavano caratteristiche differenti, potevano al contempo avere delle importanti proprietà in comune (Bateson 1972a, 1978). Il concetto di schismogenesi richiama processi di cambiamento incontrollato che ho analizzato in altri contesti (Eriksen 2016, 2018), ovvero processi di crescita che si rinforzano a vicenda e che prima o poi portano al collasso a meno che, come sottolinea Bateson, una “terza istanza” non subentri nel processo e modifichi le relazioni in atto. In definitiva, Bateson avrebbe potuto riconoscere la schismogenesi in fenomeni tra loro distanti quali i conflitti coniugali e la corsa agli armamenti.
Per diversi anni, ho studiato il cambiamento accelerato nel mondo contemporaneo; in particolare mi sono interessato al modo in cui l’accelerazione ha subito essa stessa un’accelerazione dalla fine della Guerra Fredda, in vari ambiti quali la distruzione dell’ambiente, l’estinzione delle specie e il cambiamento climatico, lo sviluppo urbano nel Sud del mondo, il consumo di energia e il turismo. Per descrivere questa situazione, utilizzo il termine di surriscaldamento, un termine che si riferisce ad un’idea di velocità incontrollata, in un contesto in cui calore e velocità sono due facce della stessa medaglia. Si può descrivere tale surriscaldamento come la confluenza di diversi processi di escalation, dinamiche di crescita che sembrano avere un senso e un fine per lunghi periodi, sino a che raggiungono un punto in cui gli effetti collaterali imprevisti rischiano di divenire più significativi degli effetti benefici e attesi. Un celebre studio sui processi di escalation in antropologia è il classico Pigs for the Ancestors (1968) di Roy Rappaport, un’analisi del ciclo di gestione dei maiali in una società melanesiana, dove il numero di maiali raggiunge una soglia in corrispondenza della quale essi finiscono per diventare una fastidiosa minaccia alle colture, piuttosto che una risorsa economica. In un mondo surriscaldato, processi di questo tipo sono onnipresenti. Tuttavia, nel caso di Rappaport, esiste un “termostato” che regola il sistema. Quando la popolazione di suini raggiunge la soglia, gli abitanti del villaggio massacrano la maggior parte dei maiali, organizzano una grande festa e spostano il villaggio in un’altra località vicina. Ciò che più spaventa, di fronte all’attuale escalation dei processi schismogenetici, è la mancanza di un termostato. Non esiste alcun soggetto o istanza che abbia l’autorità di ordinare al sistema di rallentare e raffreddarsi.
Ad ogni modo, la domanda che oggi risulta cruciale è se i processi di escalation che stiamo osservando, che si potenziano vicendevolmente e che operano senza alcun altro termostato che non sia la limitatezza delle risorse naturali, possano essere paragonati ad un minaccioso alce irlandese oppure, semplicemente, ad un’innocua coda di pavone.
L’alce irlandese, una specie di cervo gigante, viveva non solo in Irlanda, ma in vaste regioni dell’Eurasia settentrionale fino ad epoca successiva all’ultima era glaciale. I maschi adulti erano alti più di due metri e le loro corna potevano pesare fino a 40 chili. Tali corna si sono evolute nel tempo, in parte come risultato della selezione sessuale – gli esemplari con le corna più grandi attraevano più femmine – ma anche in rapporto alle dimensioni del corpo. È possibile che l’alce irlandese si sia estinto proprio a causa della dimensione delle sue corna. Delle corna pienamente sviluppate contenevano 2,1 chili di azoto, 7,6 chili di calcio e 3,8 chili di fosforo (Moen et al., 1999). L’animale doveva perciò mangiare 3,8 tonnellate di piante all’anno solo per soddisfare il suo fabbisogno di fosforo. Pertanto, l’alce irlandese potrebbe essersi estinto a causa della malnutrizione. Oppure potrebbe essere stato spinto all’estinzione dai cambiamenti climatici. Quando in Europa il clima diventava più caldo e le foreste rimpiazzavano le praterie, potrebbe essere stato difficile per i grandi cervi muoversi in questi ambienti, rispetto ai più piccoli e adattabili erbivori, oppure ai carnivori privi di corna. Perciò, il vantaggio delle grandi corna sul piano riproduttivo potrebbe essersi scontrato con gli svantaggi, o con gli effetti collaterali indesiderati, delle esigenze di nutrimento e mobilità. Sospetto inoltre che gli alci dalle corna più grandi soffrissero di mal di testa cronico.
La spettacolare coda del maschio di pavone è anch’essa un prodotto della selezione sessuale, poiché una coda ampia e colorata attrae le femmine di questa specie. Tuttavia, nonostante l’evidente complicanza di trascinare una coda lunga e pesante, non ultimo negli scontri con i predatori, il pavone è sopravvissuto in natura sino ad oggi, dimostrando un buon adattamento al suo ambiente. La sua coda è sorprendente e spettacolare, una fonte di orgoglio e vanità – inutile, ma in definitiva innocua per il suo portatore, a differenza delle corna degli alci irlandesi, che finirono per essere letali. Entrambi sono esempi di processi selettivi, che tuttavia hanno esposto i loro portatori a processi di escalation competitiva con i loro simili e ridotto la loro adattabilità.
Doppio legame
Il secondo concetto dal pensiero ecologico di Bateson che ho trovato estremamente utile è quello di “doppio legame”. L’autore lo ha originariamente sviluppato con alcuni colleghi, più di sessanta anni fa, nell’ambito di una teoria della schizofrenia incentrata più sulle relazioni familiari patologiche e sulla comunicazione che non sui fattori biologici (Bateson 1972c). Un doppio legame è un tipo di comunicazione che si confuta da sé, come quando si dicono contemporaneamente due cose tra loro incompatibili. Una persona che cerca di rispondere ad un doppio legame non sarà mai in grado di farlo correttamente, poiché, qualsiasi cosa faccia, essa potrà essere giudicata sbagliata. Nel mondo contemporaneo, il mondo dell’Antropocene e della crescita illimitata di matrice neoliberista, il doppio legame tra la crescita medesima e la sostenibilità è una contraddizione fondamentale. Una conciliazione tra le due istanze appare impossibile. Nella vita quotidiana dei membri della classe media globale, la spinta a comportarsi in modo responsabile dal punto di vista dell’impatto ambientale è non di rado molto forte, e difatti gli appartenenti a tale classe sociale riciclano, utilizzano i trasporti pubblici piuttosto che guidare, cercano di acquistare alimenti biologici, prodotti localmente, e così via. Allo stesso tempo, essi sono tuttavia persone che possono viaggiare occasionalmente in aereo per lavoro o per piacere, e le cui vite dipendono completamente da un’economia basata sullo sfruttamento dei combustibili fossili. Similmente, su più vasta scala, e in molte aree del pianeta, politici e uomini d’affari hanno cominciato a parlare di sostenibilità e politica climatica, pur favorendo, allo stesso tempo, una crescita economica che implica quasi sempre un aumento del consumo di energia.
Un doppio legame è qualcosa di più profondo di un dilemma. In ambito politico, un dilemma sempre più rilevante per i riformisti e i loro oppositori è quello che emerge dal confronto tra politica di classe e politica verde. La politica di classe si basa solitamente sulla richiesta di migliori condizioni materiali per i lavoratori, mentre la politica verde propone un cambiamento nell’economia e un tenore di vita di fatto ridotto. Ciononostante, sono state avanzate proposte concrete per risolvere questo dilemma: in teoria, la giustizia sociale e l’uguaglianza possono essere compatibili con un’elevata qualità della vita e una politica verde. Questo, infatti, non rappresenta un vero e proprio doppio legame, come invece accade per quello che riguarda il rapporto tra crescita economica basata sui combustibili fossili e sostenibilità.
Ad un livello più elevato di astrazione, la tensione tra lo sviluppo economico e la sostenibilità umana è inoltre cronica, e costituisce il doppio legame più rilevante del capitalismo del XXI secolo. Quasi ovunque, si cercano dei compromessi tra crescita economica ed ecologia. Esiste un ampio e globale consenso tra i ricercatori e i responsabili politici (con poche eccezioni, quale ad esempio l’attuale governo degli Stati Uniti) sul fatto che il clima nel mondo sta cambiando in modo irreversibile a causa dell’attività umana (principalmente a causa del crescente uso di combustibili fossili). Nondimeno, anche altri problemi ambientali risultano altrettanto gravi, dall’inquinamento atmosferico nelle grandi città all’esaurimento del fosforo (un componente chiave dei fertilizzanti chimici), alla pesca eccessiva, alle microplastiche negli oceani e all’erosione. Tuttavia, gli stessi responsabili politici che esprimono preoccupazione per i problemi ambientali sostengono anche una crescita economica continua, che sinora ha avuto come presupposto il crescente utilizzo di combustibili fossili e di altre risorse non rinnovabili, contraddicendo così il principio della sostenibilità a lungo termine e contribuendo a minacciare le condizioni di sopravvivenza dello stesso sistema socio-economico che appoggiano.
Il doppio legame norvegese
Consentitemi un breve esempio per illustrare la natura più profonda del doppio legame. Il caso della Norvegia, il mio paese di residenza, è molto interessante a questo proposito: da un lato, il concetto stesso di sviluppo sostenibile è stato sviluppato alla fine degli anni ’80 da un’influente commissione dell’ONU guidata dall’allora Primo Ministro norvegese, Gro Harlem Brundtland; e la Norvegia si propone, a livello di destinazione turistica, come un paese pulito e panoramico, con vaste aree di natura incontaminata. La natura selvaggia costituisce di fatto una dimensione centrale dell’identità culturale dei norvegesi.
D’altra parte, attraverso le sue esportazioni di petrolio, la Norvegia può essere considerata come indirettamente responsabile di circa il 3 per cento delle emissioni globali di CO2. All’interno dei propri confini, il paese raggiunge buoni risultati sul piano dell’efficienza energetica, nonostante il fatto che i norvegesi, generalmente benestanti, guidino e volino spesso, poiché la maggior parte dell’energia utilizzata dalle famiglie e dall’industria norvegese proviene da centrali idroelettriche. Eppure, è abbastanza ovvio che la Norvegia è una parte del problema, non della soluzione, quando si tratta di affrontare la crisi climatica globale, a causa delle sue ingenti esportazioni di petrolio. In questo contesto, i governi norvegesi – e in particolare il governo di centro-sinistra che guidava il paese dal 2004 al 2013 – hanno cercato principalmente di bilanciare alcuni degli effetti negativi delle esportazioni norvegesi di petrolio e gas in vari modi: (i) i direttori del Fondo pensionistico statale, nel quale sono investiti la maggior parte dei profitti statali derivanti dal petrolio, si impegnano in investimenti etici e hanno nominato un consiglio etico che sovrintende alle attività, mirando a garantire che i profitti non vengano investiti in attività “non etiche”; e, soprattutto, (ii) il paese si impegna, attraverso considerevoli investimenti, in progetti volti a ridurre l’impronta di carbonio altrove, in particolare nel Sud del mondo – il più noto di questi può essere considerato il programma REDD (Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation – Riduzione delle emissioni da deforestazione e degrado delle foreste) sponsorizzato dall’ONU.
C’è un’evidente ironia: invece di promuovere cambiamenti a casa propria, come la riduzione del tasso di estrazione petrolifera, la Norvegia paga altri paesi affinché cambino il loro comportamento, per di ridurre l’impatto – tra l’altro – delle esportazioni di petrolio norvegese. L’allora Primo Ministro (fino alle sue dimissioni dell’ottobre 2013) Jens Stoltenberg ha sostenuto che investire in attività rispettose del clima nel Sud del mondo era molto più conveniente rispetto alla spesa di somme simili nel costoso nord, in particolare in Norvegia. Tuttavia, subito dopo aver perso le elezioni del 2013, Stoltenberg è stato per un breve periodo portavoce delle Nazioni Unite per le questioni legate al clima (prima di diventare Segretario Generale della NATO). Da quel momento in poi, ha rilasciato ai media, e in occasione di conferenze assai pubblicizzate, dichiarazioni in cui sosteneva l’urgenza e la necessità immediata di affrontare i cambiamenti climatici. Non c’è tempo da perdere, ha detto a quel punto.
Questa dualità nella politica norvegese, in cui il benessere sociale e la crescita economica sono strettamente associati all’estrazione del petrolio, mentre gli investimenti all’estero e il sostegno allo sviluppo mirano a ridurre l’impronta ecologica e la distruzione dell’ambiente, rivela con estrema chiarezza il sottostante doppio legame.
Alce o pavone?
La domanda di fondo, in questo mondo neoliberista, globalizzato e surriscaldato, intrappolato in rapidi cicli di cambiamenti incontrollati e in un doppio legame di fondo tra crescita e sostenibilità, è se la civiltà mondiale contemporanea assomigli più ad un alce gigante o ad un pavone: è fondamentalmente autodistruttiva, o soltanto vanamente mirabolante e in ultima analisi innocua? I processi schismogenetici che stanno caratterizzando il nostro mondo attuale – concorrenza simmetrica tra corporazioni e nazioni, aumento del consumo e lotta per minerali e altre risorse – sono in effetti catastrofici oppure rappresentano soltanto un momentaneo contrattempo?
È abbastanza chiaro che, se l’agenda non cambia, la catastrofe incombe. Esiste un sostanziale accordo su questo punto, nonostante si possa discutere sulle tempistiche e la natura esatta delle conseguenze. Tuttavia, è possibile cambiare direzione. Come ha sottolineato Bateson nel suo originario articolo sulla schismogenesi, il circolo vizioso può essere interrotto se una terza istanza interviene nel sistema, spostando l’attenzione degli attori e la direzione del processo. Questa è probabilmente la nostra sfida più importante nel tentativo di districarci dalla crisi globale.
Dobbiamo chiederci quale tipo di modello sociale è compatibile con quanto adesso sappiamo sulla necessità di ripensare la nostra relazione con l’ambiente non umano del pianeta. A questo proposito, una pubblicazione annuale che merita maggiore attenzione di quella che riceve, anche perchè affronta queste domande dal punto di vista dell’economia, è The Happy Planet Index, pubblicata dalla New Economics Foundation. Concepito come supplemento e correttivo del rapporto annuale sullo sviluppo umano del programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), l’indice sposta il dibattito collettivo sulla soddisfazione e sulla qualità di vita in una direzione promettente. Le persone che stanno dietro al progetto, per lo più economisti, calcolano le correlazioni tra benessere soggettivo, aspettativa di vita, disuguaglianza economica ed impronta ecologica, ovvero – in sintesi – quanto possiamo permetterci di inquinare e quanta ingiustizia siamo in grado di tollerare, al fine di godere di un determinato livello di longevità e soddisfazione per la vita. La New Economics Foundation ha fortemente screditato l’adeguatezza del PIL come criterio di valutazione, il che appare giustificato dal fatto che oggi molti studi evidenziano che, al di là dei livelli minimi, non esiste una chiara correlazione tra reddito medio di un paese e livello di benessere percepito. Altri fattori, come ad esempio la distribuzione della ricchezza, sono molto più importanti (Wilkinson 2005, Wilkinson e Pickett 2009), e – come accennato – la disuguaglianza, in precedenza trascurata, è stata ora riconosciuta dalla Fondazione come una delle principali variabili in queste valutazioni.
In modo efficace, il rapporto conferma cose che molti di noi già sapevano; per esempio che i ricchi vivono più a lungo e inquinano più dei poveri. Nondimeno, ci consente di osservare il mondo da una prospettiva leggermente diversa, consentendoci di cogliere nuove connessioni e nuove potenzialità di cambiamento. Ad esempio, il rapporto documenta che gli abitanti degli Stati Uniti (al 108 ° posto) lasciano un’impronta ecologica superiore del sessanta per cento rispetto a quella dei tedeschi (al 49 ° posto), eppure i tedeschi vivono in media due anni in più e sono felici grossomodo come gli americani. Molti paesi dell’America Latina sono in cima, o prossimi alla vetta, in questa graduatoria (i primi cinque sono Costa Rica, Messico, Colombia, Vanuatu e Vietnam, con Panama e Nicaragua subito a seguire). Gli abitanti della Costa Rica vivono a lungo, inquinano poco e riferiscono – nel complesso – di essere soddisfatti della loro vita. Rispetto ad un paese come la Finlandia (al 37 ° posto), risparmiano ovviamente molta energia, avendo abitazioni più modeste e prive di riscaldamento centralizzato. Forse il livello di qualità della vita che, in un posto come la Norvegia, richiede un’abitazione di 300 metri quadrati, una casetta in montagna, la TV ad alta definizione e due vacanze l’anno in luoghi caldi, può essere raggiunto a Panama con una casa di settanta metri quadrati, pomeriggi passati all’ombra di una terrazza, bambini ben educati e una vicina piazza con musica, balli, cibo e bevande al sabato?
Alcuni paesi differiscono poco per quanto riguarda l’impronta ecologica, ma molto quando si tratta di soddisfazione e longevità. I giamaicani vivono mediamente 25 anni in più degli abitanti del Ciad, ma inquinano altrettanto, e i giamaicani sono – comprensibilmente – assai più soddisfatti della loro vita rispetto ai ciadiani, che vivono in una società povera e autoritaria con enormi disuguaglianze.
Esistono anche altre interessanti differenze e correlazioni. I peruviani riferiscono una qualità di vita molto più elevata rispetto ai lettoni; le due popolazioni hanno pressappoco la stessa aspettativa di vita, e l’impronta ecologica media dei lettoni è più del doppio di quella dei peruviani. Questa differenza riflette l’importanza dei valori culturali e dei costumi, della composizione delle reti sociali e del livello di fiducia, ma anche di fattori intangibili ma reali quali la percezione di miglioramento o deterioramento nelle tendenze di sviluppo di una società. Per quanto riguarda la fiducia e le reti sociali, vale la pena notare che piccole società insulari con reti relativamente fitte e prossimità nei rapporti sociali, come Dominica e le Seychelles, avevano ottenuto buoni punteggi nelle prime versioni del rapporto, ma sono state escluse per ragioni metodologiche.
Il risultato più interessante è forse che i paesi che hanno punteggi più elevati nell’indice Happy Planet non sono quelli in cima né in fondo all’indice di sviluppo umano secondo l’UNDP, ma quelli che si collocano nel mezzo. Gli abitanti dei paesi più poveri soffrono di ogni sorta di privazione, mentre i paesi più ricchi inquinano molto più di altri senza che ciò venga compensato da maggiore benessere o longevità. La crescita vertiginosa che ha portato a un raddoppio del consumo mondiale di energia dal 1975 ha avuto ben pochi effetti sul miglioramento della qualità di vita di coloro che già al tempo riferivano scarsa soddisfazione.
Il primo paese appartenente all’OCSE dell’indice è la Norvegia (12 ° posto – il paese conta su un’abbondante disponibilità di energia pulita sotto forma di energia idroelettrica, e l’impatto delle esportazioni di petrolio non è incluso nella misurazione dell’impronta ecologica), collocata tra la Giamaica e l’Albania, seguita dalla Spagna (15 °) e dai Paesi Bassi (18 °). Il primo paese musulmano è il Bangladesh, all’ottavo posto, mentre gli stati del Golfo sono collocati in fondo alla graduatoria a causa della loro enorme impronta ecologica dovuta allo sfruttamento delle energie fossili. Nell’edizione dell’indice del 2012, il Qatar e il Bahrein erano rispettivamente al 149 ° e al 146 ° posto su 151 paesi (nell’ultima edizione non sono inclusi a causa della mancanza di dati). A causa dell’impronta ecologica molto alta, gli Stati Uniti sono classificati al numero 108 su 140 nell’edizione corrente dell’indice (2016), la Cina al numero 72. Nonostante la propaganda occidentale secondo cui i cinesi sono oggi i maggiori responsabili dell’inquinamento nel mondo, un cinese medio lascia una modesta impronta di carbonio (meno di un terzo rispetto ad una persona americana), vive oltre i 70 anni e riferisce di sentirsi ragionevolmente felice.
Il rapporto conferma le conclusioni provvisorie sopra riportate, vale a dire che non è necessario compromettere l’ecologia del pianeta o infastidire il prossimo per essere soddisfatti della vita. Una terza istanza è entrata nel processo schismogenetico e ha bloccato la sua spirale ascendente, ovvero una maggiore e rinnovata considerazione della qualità di vita.
Se un’etica della sostenibilità si imponesse come valore sociale profondamente radicato, le persone cambierebbero il loro comportamento. La maggior parte delle persone, si può presumere, preferirebbe essere amata piuttosto che temuta, e adesso che ci troviamo sempre più intrappolati in un doppio legame tra crescita e sostenibilità, quando ogni giorno troviamo conferma del fatto che non si possono conciliare le due istanze, non è improbabile che molti membri della classe media globale ridefiniscano le loro priorità. Guidare auto che consumano molta benzina apparirà una scelta stupida e priva di senso se si vive in città: un SUV sovradimensionato rappresenterà il marchio di riconoscimento di un proprietario sfasato, paragonabile a chi esibiva prestigio sfoggiando una dozzina di aitanti schiavi sulla piazza principale di New Orleans nel 1870. Il volo diventerà una necessità o un lusso sempre più raro finché esisterà, e verrà gradualmente eliminato (a patto che gli aerei ad energia solare fatti di materiali rinnovabili – il bambù? – non decollino in grande stile).
Le analisi sopra esposte, per quanto circoscritte, sono esempi dell’utilizzo che possiamo fare oggi dei concetti cruciali di schismogenesi e doppio legame. Con tutto il rispetto per teorici di epoca successiva che hanno anch’essi molto da insegnarci sul clima e le questioni globali, ho spesso trovato le precoci concettualizzazioni di Bateson più versatili e applicabili nella mia ricerca. Non era soltanto un pensatore complesso e originale, in anticipo di almeno mezzo secolo sul suo tempo; era anche, a tratti, un Socrate in ricerca del suo Platone – un grande pensatore le cui idee preveggenti richiedono un’applicazione e un’elaborazione costanti e sistematiche. Consentitemi quindi, in conclusione, di sperare che le nuove generazioni di studenti, attivisti e intellettuali continuino a scoprire il pensiero di Bateson e a coltivarlo. Credetemi, ne vale la pena.
(Traduzione italiana a cura di Francesco Tramonti)
Bibliografia
G. Bateson, Steps to an Ecology of Mind. Chandler, San Francisco 1972a.
G. Bateson, Culture contact and schismogenesis. In Steps to an Ecology of Mind, pp. 73-82. Chandler, San Francisco 1972b [1935].
G. Bateson, Double bind – 1969. In Steps to an Ecology of Mind, pp. 276–283. Chandler, San Francisco 1972c [1969].
G. Bateson, Mind and Nature: A Necessary Unity. Fontana, Glasgow 1978.
T. H. Eriksen, Overheating: An Anthropology of Accelerated Change. Pluto, London 2016.
T. H. Eriksen, Boomtown: Runaway Globalisation on the Queensland Coast. Pluto, London 2018 (in press).
R.A. Moen, J. Pastor & Y. Cohen, Antler growth and extinction of Irish elk. Evolutionary Ecology Research 1: 235–249, 1999.
New Economics Foundation, Happy Planet Index 2016. http://happyplanetindex.org, 2018.
R.A. Rappaport, Pigs for the Ancestors: Ritual in the Ecology of a New Guinea People. Yale University Press, New Haven 1968.
R. Wilkinson, The Impact of Inequality. Routledge, London 2005.
R. Wilkinson, & K. Pickett, The Spirit Level: Why More Equal Societies Almost Always Do Better. Allen Lane, London 2009.
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(versione originale)
Double-bind and schismogenesis in the 21st century
Thomas Hylland Eriksen
University of Oslo
I shall take this opportunity to reflect on two Batesonian concepts which have been especially helpful in my recent and current work on accelerated change and global ‘overheating’: Schismogenesis and the double bind.
Schismogenesis
Bateson’s concept of schismogenesis was developed in the mid 1930s and published, in characteristic condensed form, in a polemical article focusing empirically on ‘acculturation’ and ‘culture contact’ (Bateson 1972b). He argues that sustained contact between culturally different groups may take on competitive traits, leading to an unhealthy, self-reinforcing and escalating process. Distinguishing between symmetrical and complementary schismogenesis, Bateson’s agenda is not really to talk about what we today call interethnic relationships, but to develop a theoretical tool that can in principle be applied to all kinds of spiralling change or vicious circles. On a later occasion, commenting on his early use of the schismogenesis concept, Bateson noted that he had lacked the notion of negative feedback at the time. It was during and after the famous Macy conferences, which started in 1946, where the fundamentals of cybernetics were developed, that inherent brakes, or governors or thermostats, were introduced into models of escalating change, regulating the speed of change and its limits, through the establishment of threshold values and absences (of feedback).
A consistently ecological thinker, Bateson saw the world as consisting of relationships and processes. He also tried to show that systems which were otherwise very different might have some of the same properties (Bateson 1972a, 1978). His term ‘schismogenesis’ refers to what I have spoken of as runaway processes in other contexts (Eriksen 2016, 2018), namely mutually reinforcing growth processes which eventually lead to collapse unless, as Bateson points out, a ‘third instance’ enters into the process and changes the relationship. He would eventually see schismogenesis in phenomena as different as marital conflicts and armaments races.
For a number of years, I have studied accelerated change in the contemporary world; the way in which acceleration has accelerated since the end of the Cold War, in domains as separate as environmental destruction, species extinction and climate change, urban growth in the Global South, energy consumption and tourism. In order to describe this situation, I use the term overheating, a term which refers to unchecked speed, heat and speed being two sides of the same coin. One way of describing overheating is to see it as the confluence of several runaway processes, forms of growth that were meaningful and purposive for a long time before reaching a point where the unintended side-effects were threatening to become more noticeable than the intentional or functional effects. A famous study of a runaway process in anthropology is Roy Rappaport’s classic Pigs for the Ancestors (1968), an analysis of ‘pig cycles’ in a Melanesian society, where the number of pigs eventually reaches a point where they become a crop-destroying nuisance rather than an economic asset. In an overheating world, runaway processes of this kind are ubiquitous. However, in Rappaport’s case, there is a ‘thermostat’ regulating the system. When the pig population reaches a threshold, the villagers slaughter most of the pigs, have a big party and move the village to another, nearby location. What is frightening about current runaway or schismogenetic processes is the lack of a thermostat. There is no agent or instance which has the authority to order the system to slow down and cool down.
The big question is nevertheless whether the runaway processes we are now witnessing, which reinforce each other and operate without any other thermostat than the finiteness of the world’s physical resources, can be likened to a threatening Irish elk or just to a harmless peacock’s tail.
The Irish elk, strictly speaking a giant deer, lived not only in Ireland, but in large parts of northern Eurasia until after the last Ice Age. Adult stags were more than two meters tall, and their antlers could weigh as much as 40 kilos. The antlers had gradually grown, partly as a result of sexual selection – those with the largest antlers attracted more females – but also as a consequence of the body size. When the Irish elk became extinct, it may have been as a result of its antler size. A fully grown set of antlers contained 2.1 kilos of nitrogen, 7.6 kilos of calcium and 3.8 kilos of phosphorus (Moen et al. 1999). It had to eat 3.8 tonnes of plants a year just to satisfy its need for phosphorus. Thus, the Irish elk may have died out as a result of malnutrition. Or it could have been driven to extinction by climate change. When the climate in Europe grew warmer and forests replaced grasslands, it would have been difficult for the large stags to manoeuvre through their surroundings, compared to smaller and more flexible herbivores, not to speak of antlerless carnivores. So the reproductive advantage of large antlers clashed with the disadvantages, or unintended side-effects, of nutritional and mobility requirements. I also suspect that the most successful elks, in terms of antler size, suffered from chronic headaches.
The spectacular male peacock’s tail is also a product of sexual selection, as a large and colourful tail attracts females. However, in spite of the obvious disadvantages of dragging a long, heavy tail around, not least in confrontations with predators, the peacock has survived in the wild until now, proving that it is sufficiently well adapted to its environment. Its tail is striking and spectacular, a source of pride and vanity – useless, but ultimately harmless for its bearer, unlike the antlers of the Irish elk, which ended up being deadly. Both are instances of runaway selection, however, locking their bearers into competitive spirals with their fellow creatures and reducing their flexibility.
Double bind
The second concept from Bateson’s ecological thinking that I have found extremely useful is that of the double bind. He originally developed it with colleagues, more than sixty years ago, in the context of a theory of schizophrenia which emphasised pathological family relations and communication rather than physiological factors (Bateson 1972c). A double bind is a self-refuting kind of communication, as when you say two incompatible things at once. A person trying to act on the basis of a double bind will never be able to do it right, since no matter what they do, it can be objected to. In the contemporary world, the world of the Anthropocene and neoliberal runaway growth, the double bind of growth and sustainability is a fundamental contradiction. It seems impossible to have it both ways. In the daily life of a member of the global middle class, the pressure to behave in an environmentally responsible way may be strong, and they recycle, use public transport rather than driving, try to buy organic, locally produced food and so on. At the same time, they may occasionally travel by plane for business or pleasure, and their lives depend completely on a carbon economy. Similarly, at a higher level of scale, in many parts of the world, business leaders and politicians have begun to talk about sustainability and climate politics, while simultaneously favouring economic growth, which nearly always implies increased energy consumption.
A double bind is more fundamental than a dilemma. In the political realm, a dilemma increasingly relevant for social reformers and critics is that emerging in the encounter between class politics and green politics. Class politics is usually based on demands for improved material conditions for workers, while green politics favours a change in the economy and a de facto reduced material standard of living. Pragmatic solutions to this dilemma have nevertheless been proposed: social justice and equality can, in theory, be reconciled with a high quality of life and green politics. This would not be the case with a true double bind, such as that between fossil growth and sustainability.
At a higher level of abstraction, the tension between economic development and human sustainability is also a chronic one, and it constitutes the most fundamental double bind of twenty-first-century capitalism. Almost everywhere, there are trade-offs between economic growth and ecology. There is a broad global consensus among policy makers and researchers (with a few exceptions, such as the current regime in the USA) that the global climate is changing irreversibly due to human activity (mostly owing to the proliferating use of fossil fuels). However, other environmental problems are also extremely serious, ranging from air pollution in major cities to the depletion of phosphorus (a key component of chemical fertiliser), overfishing, microplastics in the oceans and erosion. Yet the same policy makers who express concern about environmental problems also advocate continued economic growth, which so far has presupposed the growing utilisation of fossil fuels and other non-renewable resources, thereby contradicting another fundamental value and contributing to undermining the conditions for the very socio-economic system it contributes to upholding.
The Norwegian double bind
Allow me a short example to illustrate the depth of the double bind. The case of Norway, my country of residence, is a highly interesting one this context: On the one hand, the very concept of sustainable development was coined in the late 1980s by an influential UN commission headed by the then Norwegian Prime Minister, Gro Harlem Brundtland; and Norway markets itself as a tourist destination as a clean and scenic country with vast areas of unspoilt nature. Indeed, nature as wilderness forms a central dimension of the Norwegian cultural self-understanding.
On the other hand, through its oil exports, Norway may indirectly be responsible for as much as 3 per cent of the global CO2 emissions. At home, the country has a better track record, in spite of the fact that the generally rich Norwegians drive and fly often, since most of the energy used in Norwegian households and industry comes from hydroelectric plants. Yet it is fairly obvious that Norway is a part of the problem, not of the solution, when it comes to dealing with the global climate crisis, because of its considerable oil exports. On this background, Norwegian governments – and in particular the centre–left government which ran the country from 2004 to 2013 – have, mainly in two ways, sought to balance out some of the detrimental effects of Norwegian oil and gas exports: (i) The directors of the Government Pension Fund, into which most of the state oil profits are invested, are concerned with ethical investments, and have appointed an ethical council which oversees its activities, aiming to ensure that it does not invest in ‘unethical’ activities; and, more importantly, (ii) the country commits itself to considerable investments in projects aiming to reduce carbon emissions elsewhere, notably in the Global South – the most familiar of these may be the UN sponsored REDD programme (Reducing Emissions from Deforestation and forest Degradation).
The irony is evident: Instead of implementing changes at home, such as reducing the rate of oil extraction, Norway pays foreigners to change their behaviour in order to reduce the impact of – inter alia – Norwegian oil exports. The then Prime Minister (until his resignation in October 2013) Jens Stoltenberg accordingly argued that investing in climate-friendly activities in the Global South was far more cost-effective than spending similar sums in the expensive north, notably including Norway. However, soon after losing the 2013 election, Stoltenberg briefly served as a climate spokesman for the United Nations (before becoming General Secretary of NATO). He then went out in the media and in highly publicised talks arguing for the urgency and immediate necessity of dealing with climate change. There is no time to wait, he then said.
This duality in Norwegian policy, whereby social welfare and economic growth are closely associated with oil extraction, whereas foreign investments and development assistance aim to reduce carbon footprint and environmental destruction, reveals the fundamental double bind with great clarity.
Elk or peacock?
The underlying question, in this neoliberal, globalised, overheated world trapped in rapid cycles of runaway change and a fundamental double bind between growth and sustainability, is whether contemporary world civilisation chiefly resembles a giant elk or a peacock: is it fundamentally self-destructive, or is it just unnecessarily flamboyant but mostly harmless? Are the schismogenetic processes defining our world today – symmetrical competition between corporations and nations, escalating consumption and the scramble for minerals and other resources – ultimately catastrophic or just a blip?
Quite clearly, if the agenda is business as usual, catastrophe looms. There is no serious disagreement about this, although dating and consequences are open to discussion. However, it is possible to change track. As Bateson pointed out in his early article about schismogenesis, the vicious circle can be broken if a third instance enters the system, shifting the attention of the actors and the direction of the process. This is probably our best bet in our attempt to extricate ourselves from the global crisis.
The question is which kind of societal model is compatible with what we now know about the need to rethink our relationship to the non-human parts of the planet. An annual publication which deserves more attention than it gets, not least since it addresses these questions from the viewpoint of economics, is The Happy Planet Index, published by the New Economics Foundation. Intended as a supplement and a corrective to the UNDP’s annual Human Development Report, the index takes the global conversation about happiness and the quality of life a step in an interesting direction. The people behind the report, mostly economists, calculate the relationship between subjective well-being (SWB), life expectancy, economic inequality and ecological footprint, that is – in brief – how much you have to pollute, and how much injustice you are able to tolerate, in order to enjoy a certain degree of life satisfaction and longevity. The NEF have entirely discarded GDP as a relevant criterion, which seems to be justified, since many studies now suggest that beyond a certain minimum level, there is no clear correlation between the average income in a country and the level of well-being. Other factors, such as the distribution of wealth, are far more important (Wilkinson 2005, Wilkinson and Pickett 2009), and – as noted – inequality, formerly neglected, has now been introduced as a fourth pillar by the Foundation.
The report usefully confirms things that most of us knew already; for example that the rich live longer and pollute more than the poor. At the same time, it enables us to view the world in a slightly new way, with new connections and new potentials for change. For example, it documents that the inhabitants of the USA (ranked 108th) leave an ecological footprint which is sixty per cent higher than that of Germans (ranked 49th), and yet the Germans live two years longer than, and are about as happy as, the Americans. Several Latin American countries are at or near the top of the table (the top five are Costa Rica, Mexico, Colombia, Vanuatu and Vietnam, with Panama and Nicaragua just behind). The inhabitants of Costa Rica live long, pollute modestly, and report – on the whole – that they are satisfied with life. Compared to a country like Finland (ranked 37th), they naturally save a lot of energy on simpler housing and no central heating. Perhaps the kind of life quality that, in a place like Norway, requires a 300 square metres house, a mountain cabin, HDTV and two annual vacations in warm places, can be achieved in Panama with a seventy square metres house with some afternoon shade on the terrace, well-behaved children and a plaza nearby with music, dance, food and drink on Saturdays?
Some countries vary little regarding ecological footprint, but considerably when it comes to satisfaction and longevity. Jamaicans live 25 years longer than the inhabitants of Chad, but they pollute about as much (or little), and Jamaicans are – understandably – palpably more satisfied with life than Chadians, who live in a poor and authoritarian society with huge inequalities.
There are other interesting variations and correlations as well. Peruvians report a far higher quality of life than Latvians; the two nationalities have roughly the same life expectancy, and the average ecological footprint of the Latvians is more than twice that of the Peruvians. This difference reflects the importance of cultural values and cultural style, network types and trust, but also intangible but real factors such as the experience of improving versus deteriorating trends in societal development. As regards trust and network types, it is worth noting that small island societies with relatively dense networks and short social distances, such as Dominica and Seychelles, did well in the earlier versions of the report, but have been excluded now for methodological reasons.
The most interesting finding is perhaps that the countries which do best in the Happy Planet Index are neither those at the top nor those at the bottom of the UNDP Human Development Index, but those in the middle. The inhabitants of the poorest countries suffer from all kinds of deprivations, while the richest countries pollute far more than others without this being compensated through increased well-being or longevity. The spiralling runaway growth which has led to a doubling in world energy consumption since 1975 has done little to improve the quality of life among those who were already reasonably well off then.
The first OECD country on the index is Norway (12th – the country has abundant clean energy in the form of hydroelectricity, and the impact of petroleum exports is not included in the footprint measurement), wedged between Jamaica and Albania, followed by Spain (15th) and the Netherlands (18th). The first Muslim country is Bangladesh in 8th place, while the Gulf states have been near the bottom of the table due to their huge carbon footprint. In the 2012 edition of the HPI, Qatar and Bahrain were in 149th and 146th place, respectively, out of 151 countries (in the latest edition, they are not included owing to lack of data). The USA is, owing to its very high carbon footprint, ranked as number 108 out of 140 in the current (2016) edition, China as number 72. In spite of Western propaganda to the effect that the Chinese are now the worst polluters in the world, the average Chinese leaves a modest carbon footprint (less than a third of the Americans), lives beyond 70 years and reports that s/he is reasonably content.
The report confirms the provisional conclusions made above, namely that it is not necessary to destroy the planet’s ecology or to pester one’s neighbour in order to be content with life. A third instance has entered the schismogenetic process and halted its upward spiral, namely a new and superior understanding of the quality of life.
If an ethos of sustainability takes hold as a deeply held societal value, people will change their behaviour. Most people, one may presume, would prefer to be liked rather than feared, and now that we increasingly find ourselves in a double bind between growth and sustainability where it is being confirmed every day that you cannot have it both ways, it is far from unlikely that many members of the global middle class will change their priorities. Driving gas-guzzling cars will appear tasteless and stupid if you live in the city: the oversized SUV becomes a sign indicating that the owner is out of kilter, analogous to showing off your prestige by parading a dozen shiny slaves on the main square of New Orleans in 1870. Flying becomes an increasingly rare necessity/luxury as long as it lasts, and will then slowly be phased out (provided solar-powered planes made of renewable materials – bamboo? – do not take off in a big way).
The above, admittedly convoluted analyses are exemplifications of the uses to which the central concepts of schismogenesis and double bind can be put today. With all due respect to later theorists, who also have much to teach us about climate and global issues, I have often found Bateson’s older conceptualisations more versatile and applicable in my own research. He was not only a complex and original thinker at least half a century ahead of his time; he was also sometimes a Socrates in search of his Plato – a great thinker whose prescient ideas beg for systematic application and elaboration. Allow me at the end, therefore, to hope that new generations of students, activists and intellectuals will continue to discover Bateson’s thought and run with it. Believe me, it is worth the effort.
References
G. Bateson, Steps to an Ecology of Mind. Chandler, San Francisco 1972a.
G. Bateson, Culture contact and schismogenesis. In Steps to an Ecology of Mind, pp. 73-82. Chandler, San Francisco 1972b [1935].
G. Bateson, Double bind – 1969. In Steps to an Ecology of Mind, pp. 276–283. Chandler, San Francisco 1972c [1969].
G. Bateson, Mind and Nature: A Necessary Unity. Fontana, Glasgow 1978.
T. H. Eriksen, Overheating: An Anthropology of Accelerated Change. Pluto, London 2016 (Trad. It., Fuori controllo. Un’antropologia del cambiamento accelerato, Einaudi, Torino 2017).
T. H. Eriksen, Boomtown: Runaway Globalisation on the Queensland Coast. Pluto, London 2018 (in press).
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New Economics Foundation, Happy Planet Index 2016. http://happyplanetindex.org, 2018.
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R. Wilkinson, The Impact of Inequality. Routledge, London 2005.
R. Wilkinson, & K. Pickett, The Spirit Level: Why More Equal Societies Almost Always Do Better. Allen Lane, London 2009.