di Federica Biolzi
Ogni riferimento a Dostoevskij evoca una serie di riferimenti, sensazioni, sentimenti che ognuno di noi riserva a questo gigante delle vicende letterarie e filosofiche della contemporaneità. In chiunque abbia letto uno dei suoi innumerevoli scritti questa presenza impone più di una riflessione che tocca punti nodali dell’esistenza.
– Nel suo recente libro, interamente a lui dedicato, lei mette in evidenza, sin dalle prime pagine, che nel testo dostoevskijano è centrale la larghezza della vita: essa mette in questione l’uomo, smuovendolo dalla sua sicurezza e dal suo insediamento in un sapere sazio e pago di sé. Cosa rende così centrale ed essenziale questa dimensione?
-La presenza di Dostoevskij nel panorama intellettuale contemporaneo è a mio avviso decisiva e attuale, perché costituisce un salutare sommovimento per ogni lettore. Il testo dostoevskiano, infatti, non anestetizza le domande ultime dell’uomo, non le censura, anzi le intensifica, portandole a un livello di fuoco incandescente. Nessuno può chiamarsi più fuori rispetto a una macchina testuale che mette in questione il soggetto, provocandolo. Censure, rimozioni, strategie di fuga cadono di fronte alla vita che interroga il soggetto, chiedendo un riposizionamento rispetto all’origine del suo discorso. Il soggetto contemporaneo, certo del suo sapere e signore di una pretesa sulla realtà, si trova di fronte a fatti, situazioni, accadimenti che portano a un deragliamento di quanto pensato prima. La vita si dimostra più grande, più drammatica, più intensa di ciò che o di chi pensa di restringerla entro le anguste misure di una ragione razionalistica o positivistica. E chi continua ad anatomizzare, vivisezionare o circoscrivere il tutto a un ordine analiticamente pensato o ideologicamente strutturato, si imbatte, inevitabilmente, in un eccesso che dis-dice e ri-dice ciò che si ritiene già saputo e già noto.
–Veniamo a toccare alcuni dei temi da lei trattati in questo ricchissimo testo. Il primo è quello degli spettri. Nel ricordare i vari riferimenti letterari sull’argomento, lei scrive che i testi di questo autore rappresentano una vittoria su questi fantasmi sperimentata nella propria esistenza umana, storica e letteraria. Perché il tema degli spettri è così importante e qual è la via d’uscita che ci propone Dostoevskij?
-L’ingenuo naturalismo umanistico, magari accompagnato da un acclamato e ottimistico sentimentalismo umanitario si trova di fronte a realtà che superano la dimensione del prevedibile e del programmabile. Il male per il genio russo non è frutto di un raptus improvviso o di uno squilibrio psichico. Il pensiero cattivo, ad esempio, ha una storia e dei passaggi che si snodano nell’animo per un assenso dato. Dostoevskij, con Raskol’nikov, ci fa vedere tutte le tappe che portano all’insediamento del piano delittuoso e poi all’esplosione esterna. La suggestione del pensiero intrusivo, il dialogo accordato al falso, l’ingresso nel cuore, la ruminazione interiore e la conseguente macerazione delle deboli difese residue, la ridenominazione del termine (non delitto, ma quella faccenda) per neutralizzare la portata emotiva della realtà effettiva, la pianificazione dell’atto cattivo, la discesa verso il piano inclinato, il finale travolgimento del soggetto da parte di una forza negativa e infine l’eruzione distruttiva. Il genio russo sottolinea, inoltre, che il pensiero buio nasce da un misterioso suggerimento esterno, che è contrario alla verità dell’uomo. E lo fa nella scena in cui Raskol’ nikov sente i suoi stessi pensieri esattamente detti da un altro studente, il quale rappresenta la figura di un’intelligenza reale negativa che induce l’idea.
Il male, inoltre, nell’ottica dello scrittore, sfugge a chi pensa di gestirlo. Il giovane uccide oltre alla vecchia usuraia, anche Lizaveta, l’innocente sorella. La realtà negativa nel suo mistero, perciò, non risulta neanche spiegabile attraverso una concatenazione regolata secondo un progetto ideologico e/o esistenziale maligno per sé e per altri. Il mysterium iniquitatis è caratterizzato, infatti, da una strategia che mira all’infelicità dell’uomo, alla sua perdizione, cioè allo spreco insensato della vita. Il male deliberatamente fatto, inoltre, non finisce mai con l’atto commesso, magari protetto da una legge, da un alibi morale o da una giustificazione dialettico-politica. Non si può seppellire nel fondo di sé. Tortura spirituale e tormento morale mordono l’anima. L’uomo fa esperienza degli effetti della malattia spirituale. Spettri mentali o spettri reali appaiono a Svidrigajlov in Delitto e castigo, a Stavrogin ne I demoni e perseguitano il visitatore misterioso ne I fratelli Karamazov.
Svidrigajlov, ad esempio, pensa di avere un sapere sugli spettri e di poterli controllare, manipolando la mente altrui con i suoi piani. Cerca di condizionare Dunja, mettendola in una situazione di sudditanza e di paura, per averla. Fa sentire il peso della sua conoscenza sul delitto del fratello, offrendole con untuosa bonomia possibili vie di fuga, attraverso una salvezza mondana. Ricatta la donna in maniera sotterranea e cerca di sedurla attraverso sensi di colpa prodotti o la paura suscitata. Ma Dunja resiste, evidenziando la presenza di qualcosa di misterioso che sfugge alla presa del potere mentale e alla paura della violenza, rivelandosi più forte di tutti gli spettri. Subito dopo, Svidrigajlov sperimenta che il fantasma è anche una struttura di ritorsione: quello di una bambina sua vittima, infatti, apparendo, porta al crollo del suo disegno ideologico. Egli si uccide per protesta contro una vita in cui i fantasmi non possono essere più controllati. L’autore dell’atto cattivo è, in conclusione, un giocatore che ha fatto una scommessa sbagliata ed è giocato da una dimensione che lo imprigiona. Quale la via d’uscita?
Il visitatore misterioso, tormentato dal suo passato, nascosto da/in una vita per bene e apparentemente tranquilla, dice la verità di sé a una presenza (il futuro starec Zosima) che lo introduce a una Presenza più grande, la quale è la possibilità stessa di fuoriuscita dal deserto del nulla. Il visitatore, dopo una drammatica lotta interiore, è conseguente: confessa il suo assassinio, ormai dimenticato dall’opinione pubblica, sfidando la sua immagine sociale e il suo accomodamento. Per Dostoevskij, insomma, nella vita c’è un passo di sfida da compiere: l’uomo deve vivere in una tensione ideale tutta protesa verso il Dio vivente, che è il Signore della storia e parla, visitando, nascostamente, l’anima nelle sue profondità.
–In La padrona, il protagonista Ordynov cade in preda al terrore? Di che sentimento parliamo e come questo ha incrociato, anche nella vita privata, il nostro autore?
-La vita del Nostro è stata segnata dal dolore, dal lutto, dalla ferita esistenziale. Egli subì una finta fucilazione, dopo la condanna del tribunale zarista, per aver fatto parte del circolo Petraševskij. Fu a un passo dall’abisso, al suo bordo, in procinto di cadere. Ma anche ne Il giocatore il terrore di perdere alla roulette e il contemporaneo brivido, provato nello stare al limite, vicino al confine con il precipizio, descrivono questa situazione estrema. Il terrore provato da Ordynov ne La padrona è di tipo mistico. È perciò, qualitativamente, diverso dal terrore suscitato dal potere politico. Mentre il terrore politico pretende di avere dominio sul destino storico del soggetto, quello spirituale vuole avere il sopravvento sulla/nella profondità dell’uomo. Il vecchio inquietante che ne La padrona soggioga la donna ha caratteristiche simili al Grande Inquisitore. Le sue parole sono dettate da un buio magico che fa vacillare una natura non munita di una vigilanza attenta, radicata nella forza della vita vera. La figura del vecchio e poi quella dell’ Inquisitore suscitano un sobbalzo, perché fanno riferimento a una dimensione sovrannaturale, che non può essere razionalizzata o controllata. Essa inchioda il soggetto, immobilizzandolo in una sorta di paralisi della coscienza. Per Dostoevskij, il testo narrativo, insomma, non è mai una specie di consolatio animae, ma l’approfondimento degli abissi: di bene e di male.
–Alcuni grandi scrittori del novecento hanno ripreso i temi e i personaggi dostoevskijani, ci riferiamo ad Albert Camus, in particolare nello Straniero. Anche in questo caso il Raskol’nikov dostoevskijano appare essere un punto di riferimento in quello che lei descrive come il delitto imperfetto. In cosa consiste?
-Diversi autori del Novecento si sono confrontati con il testo dostoevskiano, ponendosi alcuni interrogativi: “Il delitto può essere giustificato? È possibile un delitto perfetto? L’assassino può sfuggire al giudizio?”. Tali domande mettono in luce la possibilità di superare l’orizzonte biblico. Il confronto è perciò interessante, per valutare, inoltre, se il nichilismo può farla finita con la tradizione e con un modello di ragione che affonda le sue radici nel mistero costitutivo della realtà. Il genio russo si immedesima in tali domande nel suo testo, in un percorso senza rete di protezione, invitandoci a fare altrettanto. Mostra al lettore, nel suo laboratorio teoretico, che esiste una legge interna all’anima, la quale rende impossibile l’oltrepassamento della datità creaturale e della dipendenza ontologica del soggetto.
Tra gli autori novecenteschi considerati, Camus ha ben presente Dostoevskij in diverse sue opere, ne cito alcune: Lo straniero, La peste, Il mito di Sisifo, L’uomo in rivolta, ecc. Sembra quasi impegnato in un corpo a corpo con l’opera del genio russo. Diventa perciò difficile parlane in un testo più generale. Ad ogni modo, alcuni suoi temi, a mio avviso, sembrano letti e anticipatì dal testo dostoevskiano, quasi interni a esso. Il delitto di Mersault è dominato dall’assurdo. È frutto di un’esistenza accecata da un sole abbagliante, ma inutile. Il suo gesto, tuttavia, si conclude nella catastrofe personale. Camus sembra dire così che l’inferno è l’io. Non esiste insomma delitto perfetto: l’uomo non può tirarsi via con la sua treccia da una legge che è costitutiva dell’anima e della realtà. Ma anche ne l’Erostrato di Sartre il delitto porta al naufragio esistenziale. Il protagonista del racconto non riesce, in modo pantoclastico, a incendiare il tempio della vita umana, immortalandosi e uccidendo a caso: cede e si arrende per viltà. Insomma, il male risulta, in qualche modo, pre-giudicato. Non esiste la possibilità di un male relativo o sadianamente assoluto, magari custodito in un espugnabile castello di Silling mentale o reale.
–Nella lettura del libro la mia attenzione si è focalizzata su un tema centrale: il rapporto con il peccato, il giudizio, l’esistenza di Dio, la morale. Il tema in questione è quello della tribunalizzazione della storia. Ci aiuti a comprendere questo interessante argomento, che appare ancora di grande attualità.
-Il termine tribunalizzazione della storia è di Marquard, ma nel mio saggio assume un accento del tutto particolare. La ragione umana viene ristretta dal soggetto a sola ragione giuridica, impegnata nel susseguirsi di vari processi: contro l’io, contro l’altro, contro gruppi diversi dal proprio, contro la vita, contro Dio. La vita sembra perciò diventata un gigantesco tribunale in cui la posizione di vantaggio è quella di chi assurge al ruolo di giudice. Il giudice si pone in una posizione di superiorità. Pretende di controllare la vita, emettendo sentenze e assumendo il potere della condanna. Ne L’adolescente lo scrittore parla di un tribunale che riconosce Cristo colpevole sotto tutti i punti di vista. E non a caso, il Grande Inquisitore proclama una sorta di giudizio apocalittico sulla vita tutta e sul Cristo ritornato sulla terra. Imbastisce un farsesco processo finale con cui vuole espellere Cristo dall’umano, condannandolo alla damnatio memoriae. Vuole giungere all’oblio del Nome stesso, per un’umanità nuova, assoggettata al fantasma mentale più bello: la tranquillità di un ordine pacifico e funzionante al posto della libertà. Il suo totalitarismo spirituale precede e accompagna, in qualche modo, i totalitarismi politici: il Grande Inquisitore, insomma, mira ad uscire dalla storia del testo per entrare nella storia degli uomini, nell’ottica di Michel Heller. La sua impresa, però, fallisce: Dio, anselmianamente, non può essere pensato non esistente. Non può essere eliminato dalla realtà. Non c’è possibilità di ateismo assoluto. E d’altro canto la storia del Novecento, nonostante i genocidi e i campi di concentramento, con il sangue de I testimoni dell’agnello (P. Romano Scalfi), ha evidenziato l’impossibilità di espellere dalla storia quella che Julián Carrón chiama la Bellezza disarmata. Il terrore, insomma, non ha potere sulla Bellezza che salva il mondo e l’umano. Ciò che il Grande Inquisitore condanna, peraltro, non è Cristo, ma solo un suo comodo fantasma. L’idea di un esangue personaggio che non ha a cuore la vita del popolo. Lo scrittore russo, invece, ha ben presente i passi del Vangelo ( Lc 24, 37-42 e Mc 6, 49-50) in cui Gesù stesso precisa di non essere un fantasma e altri versetti ( Lc 19, 41-42) in cui il Cristo piange per il destino del suo popolo. In Dostoevskij, insomma, c’è il convinto rifiuto del docetismo e della gnosi valentiniana. Il fallimento del Potere ideologico del nulla, poi, ha un riverbero anche sul piano umano. Anche la ragione giuridica, infatti, collassa, perché condanna ingiustamente Mitja ai lavori forzati. Questi, personaggio filosofico per eccellenza, accetta liberamente una pena ingiusta e sproporzionata rispetto all’atto effettivamente commesso. Nella sua vita si dispiega, misteriosamente, un’energia superiore e inspiegabile, un di più imprevisto che gli fa dire “io sono” anche nel tormento della sofferenza. La sua libertà liberata dall’irruzione nel testo di una forza divino-umana, accolta con un misterioso sì, apre il testo a una novità certa: la letizia certa che in-fine traspare in Alëša e negli amici di Iljuša.
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Vincenzo Rizzo
Dostoevskij. La salvezza in scena
Jaca Book editore, 2021