EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

È questa la vita migliore per me?

di Claudio Fratesi

Premessa

Pochi pazienti arrivano in terapia con la consapevolezza di voler cambiare, la grande maggioranza arriva per alleviare un dolore o uno stato d’animo che li affligge, togliere il dolore come aggiustare un’auto in panne, convinti che nella loro vita tutto resterà uguale.

Ci sono anche le ideologie, le religioni, i precetti culturali che per molte persone sono così tanto importanti da costituire la sostanza per convincersi che la loro vita funzioni così. “Per me la religione è il palo centrale e tutto ruota intorno”, mi disse una paziente molto osservante che si chiudeva gli occhi davanti alla sua crisi di coppia che era di un’evidenza accecante.

“Ho una moglie e figli e va tutto bene.”, “Con mio marito va tutto bene da sempre.”

Di fronte a queste affermazioni è difficile insinuare delle riflessioni, sono affermazioni rigide che non sempre sono supportate da fatti reali: dicono che va tutto bene con il partner e poi scopriamo che non si baciano da anni, che non si dedicano una serata da fidanzati da una vita.

Manca la consapevolezza dell’importanza che rivestono le relazioni che viviamo, non ci poniamo domande a riguardo, evitiamo riflessioni sul tema per pregiudizi culturali, ideologici, religiosi o semplicemente per paura di guardarci dentro e chiederci come va.

Una paziente dopo molti anni di matrimonio sereno, stava attraversando un periodo di crisi con il marito e invece di affrontare la crisi di coppia, si era convinta di provare sentimenti per un altro uomo. Durante una notte insonne, presa da sensi di colpa, svegliò il marito e, aiutata dal buio, gli disse: “Abbiamo fatto tanta strada insieme e adesso la macchina si è fermata. Lasciami scendere un po’ per fare un giro intorno e vedere cosa c’è. Così posso tornare”. Non so cosa rispose il marito e cosa accadde tra loro, ma ritengo bella e significativa la metafora che questa donna ha trovato per esprimere il suo disagio.

Il mondo, che da anni era il  migliore possibile si era trasformato in un altro mondo, prima impensabile,  che ora sembrava migliore del precedente. Sono i casi della vita che modificano il mondo che viviamo e noi modifichiamo i casi della vita che incontriamo, un gioco alla pari che si modifica continuamente, perlomeno questo accade nelle situazioni funzionali che non significa prive di dolore. 

Ma nelle situazioni patologiche, quelle disfunzionali, il mondo che viene vissuto è rigidamente considerato come l’unico possibile e non è contemplato alcun cambiamento.

La psicoterapia è la ricerca di una maggiore complessità, la ricerca di nuove strade che aprano nuovi orizzonti. Quando un paziente arriva a permettersi nuovi scenari nella sua vita o semplicemente ad allargare quelli che vive migliorando le relazioni in cui è coinvolto, già è molto avanti verso lo star meglio.

Leibniz nel suo “Principi della Natura e della Grazia” del 1714 sostiene che questo mondo sia il migliore dei mondi possibili.

Leibniz afferma che Dio ha scelto questo mondo come il migliore dei mondi possibili, poiché c’è un giusto bilanciamento tra il bene e il male.

Dio sceglie questo mondo anziché un altro perché c’è una ragion sufficiente intrinsecamente legata a questo mondo.

Come se Dio scegliesse tra tutti i mondi appunto, possibili, secondo il principio del meglio o di convenienza, il mondo in cui viviamo.

Per Leibniz, quindi, Dio non è una semplice macchina che mette in moto il mondo, senza dare ulteriori spiegazioni, il mondo è qualcosa di vivo e di dinamico.

Leibniz a mio avviso espose un concetto rivoluzionario per i suoi tempi, un punto di vista talmente nuovo da offuscare l’assioma che Dio ama tutti ed è Buono o, pensiero ancora più blasfemo, concludendo che Dio non è onnipotente.

Per Leibniz Dio non vuole o non può creare un mondo buono e giusto, un mondo dove tutti possano essere felici e soddisfatti, un Eden appunto.

Se Dio non vuole, allora è un Essere non buono, forse giusto ma non buono e su questa presunta giustezza dovremmo porci numerose domande: quali sarebbero i criteri di giudizio ai quali sono sottoposti gli uomini e quali sarebbero gli scopi che avrebbe in mente Dio?

Se Dio non può, allora che fine farebbe il concetto di Onnipotenza, di Disegno Divino e di giudizio universale? ‘Se esiste Aushwitz non può esistere Dio’ affermava Primo Levi, un’affermazione che sgretolava i concetti di Onnipotenza e di Bontà di Dio e ne metteva seriamente in discussione l’esistenza stessa.

Sembra che Voltaire, accecato dalla sua Fede illuminista, non abbia voluto cogliere la “rivoluzionaria blasfemia” di Leibniz e si prendesse gioco delle concezioni del filosofo tedesco fino a ridicolizzarle nel “Candido” del 1759 con la figura di Pangloss. 

Scendendo su un piano di pensiero a me più congeniale, dopo molti anni di pratica psicoterapeutica, mi sono convinto che chi chiede aiuto sia una persona che non è riuscita a capire e/o superare il suo disagio; ovviamente ci sono differenze tra le persone e non è possibile generalizzare, c’è chi chiede aiuto  perché è consapevole di vivere una vita che gli genera disagio e chi non ne è consapevole  e non ha idea che il dolore che lo fa soffrire sia strettamente legato alle relazioni che ha e conseguentemente alla vita che vive.

Tanti sono abituati a interpretare ogni sintomo fisico come il riflesso, o meglio la somatizzazione, di un disagio psicologico e tanti altri sono ancorati alle visioni organicistiche che vedono l’essere vivente principalmente un ammasso chimico e rifiutano ogni lettura del dolore che non sia organica.

Corrado Bogliolo, docente, psichiatra ideatore e caposcuola dell’approccio consenziente, ritiene fondamentale avvicinarsi alle persone sofferenti con il massimo rispetto e attenzione, evitare di salire su piedistalli di paglia e pensare che l’organizzazione della vita di ciascuno di noi, compreso chi sta male a vari livelli, è la migliore che abbiamo saputo trovare: meglio di così non sappiamo funzionare.

La prima domanda che mi pongo, quando incontro una persona in un primo colloquio, è la seguente: “Come mai questa persona è convinta che meglio di così non riuscirebbe a vivere?”. 

Il miglior mondo possibile di Leibniz non era un mondo senza dolore, senza persone sofferenti, senza ingiustizie, al contrario era un mondo pieno di sofferenze e di ingiustizie, popolato di persone convinte che meglio di così non potessero vivere. 

Caso clinico 

Franco aveva 20 anni quando improvvisamente iniziò a manifestare comportamenti Bizzarri, faceva il pizzaiolo stagionale in un locale sulla riviera, lavorava molto ed era bravo e veloce nel fare le pizze e, come gran parte dei giovani della sua età, non si risparmiava nell’abuso di sé stesso: poche ore di sonno, un po’ di alcol e qualche droga leggera con gli amici.

Un giorno iniziò a intercalare nei discorsi frettolosi in cucina la frase a voce alta “Sono un Dio!”

Tutti pensarono che si riferisse alle sue capacità di pizzaiolo e nessuno dei suoi compagni di lavoro ebbe il minimo sospetto su niente altro. Ma con il passare dei giorni Franco aumentò sempre di più la frequenza e il volume della voce nel dire “Sono un Dio”. La situazione iniziò a destare preoccupazione, il titolare del locale e un paio di compagni di lavoro iniziarono ad indagare sul perché Franco ripetesse quella frase anche 20/30 volte durante un turno di lavoro.

Le risposte di Franco furono confuse, alternava momenti di euforia a momenti di tristezza profonda nei quali si domandava a voce bassa “Sono un Dio?” riferendosi al possesso di poteri soprannaturali come un Dio dell’antichità.

La situazione precipitò in pochi giorni e Franco non andò più a lavorare, se non a sprazzi, quando sentiva nella sua testa la chiamata per andare.

Una notte scappò di casa a piedi e mezzo nudo, lo trovarono i carabinieri che era già mattina, era molto confuso, fu ricoverato nel reparto psichiatrico dell’ospedale locale.

Ricomposta l’acuzie, dopo un paio di settimane, venne dimesso dall’ospedale con una massiccia terapia farmacologica e l’indicazione di iniziare un lavoro psicologico su sé stesso.

Mi contattò il padre di Franco, mi consultai con la Psichiatra di riferimento e optai per una Terapia Familiare.

Quando ci sono disturbi psicotici è molto difficile fare una psicoterapia individuale, nelle psicosi si frantuma l’integrazione delle parti psicologiche che formano l’insieme della personalità, compaiono deliri e allucinazioni ed è sempre presente un distacco dal piano della realtà; tutto questo rende molto difficile il contatto duale.

La Terapia Familiare permette di ricostruire un “io familiare”, un contenimento psico affettivo, così da poter lavorare in maniera sinergica con tutti i familiari coinvolti.

Del primo colloquio con la famiglia di Franco ricordo il volto incredulo e sbigottito del padre, un uomo sulla cinquantina, rappresentante venditore, una persona abituata a dare un’immagine positiva di sé stesso e del prodotto che vende.

Non riusciva a capacitarsi che fosse accaduto qualcosa di così brutto a suo figlio, non solo per l’amore che provava per lui, ma anche per la certezza di aver costruito una famiglia sana e felice, la migliore possibile.

La madre, casalinga, donna silenziosa e apparentemente in posizione di sudditanza nei confronti del marito, altrettanto incredula, si era convinta che i problemi di Franco fossero colpa esclusiva del probabile uso di sostanze stupefacenti: non riteneva fosse possibile che nella loro bella e serena famiglia potessero accadere disgrazie del genere.

In quel primo incontro mi aspettavo di conoscere anche Francesca, la sorella maggiore di Franco, una ragazza  che da alcuni anni studiava e conviveva a Bologna, ma per motivi non chiari non riuscì a venire in seduta. Parlammo di lei e del rapporto che aveva con Franco e con tutta la famiglia; i genitori concordarono nel dire che dall’infanzia il rapporto tra figli era sempre stato molto intenso, fino a 5 anni prima, quando la sorella si era definitivamente stabilita a Bologna.

La partenza della ragazza aveva interrotto bruscamente il rapporto tra fratello e sorella e Franco ne aveva sofferto molto. Franco all’epoca perse un anno scolastico, si era rinchiuso in casa ed ebbe bisogno di una “curetta” psichiatrica e in pochi mesi tutto era tornato normale. Un normale non ben specificato.

Non ricavai un quadro chiaro dal racconto laconico dei genitori, evidentemente l’argomento era pesante e non gradivano parlarne e anche Franco per tutto il colloquio si limitò ad annuire, il suo sguardo spesso era assente, annebbiato probabilmente anche a causa della terapia farmacologica che stava assumendo.

Nei disturbi psicotici la terapia farmacologica è indispensabile, quella cosa semisconosciuta che chiamiamo Mente è il frutto più complesso ed elaborato del substrato organico che è il cervello. La mente secondo Bateson è la relazione tra il cervello individuale e l’ambiente circostante, è una relazione e un equilibrio. La psicosi rappresenta un urto troppo grande per essere integrato dalla persona e l’equilibrio si rompe, la visione della realtà socialmente condivisa prende altre strade e segue altre logiche, incomprensibili per gli altri, accade ciò che comunemente viene chiamato follia. Si tratta di logiche incomprensibili per chi non fa parte della famiglia del paziente, logiche “folli” che rappresentano comunque, anche in questi casi, la loro migliore organizzazione possibile per affrontare il mondo.

La terapia farmacologica è fondamentale per riunire queste parti mentali che hanno perso un centro comune. Ѐ il primo fondamentale passo per iniziare una ricostruzione.

Nel susseguirsi degli incontri emerse il quadro di una famiglia che sotto la pelle di unione e serenità mostrava di fatto gravi lacune nella esplicitazione dei problemi e forti disarmonie nella distribuzione dei ruoli.

Il padre di Franco, molto spesso assente per motivi di lavoro, era stato più volte accusato dalla moglie e dalla figlia di essere un marito infedele e un uomo egoista, sospetti mai confermati ma nemmeno mai veramente sopiti.

Franco era cresciuto in una famiglia con un padre assente e una madre appiattita sui bisogni del marito.

Franco aveva trovato nella sorella il sostituto di un padre assente e di una madre silenziosa e distante, la sua personalità non si era costruita in maniera autonoma e armonica

Con la partenza della sorella l’intera struttura familiare era andata in forte tensione, Franco era rimasto privo di un sostegno e di un punto di riferimento affettivo e la madre era rimasta ancora più sola senza la fedele alleata di sempre.

Finalmente, in una seduta con tutta la famiglia al completo, riuscii ad approfondire cosa fosse accaduto quando la figlia si era trasferita a Bologna e Franco era andato in crisi.

Francesca scoppiò in lacrime: “E’ stato molto difficile anche per me. Telefonavo tutte le sere, mi immaginavo mamma e Franco da soli a cena e mi veniva una grande tristezza”.

Anche la madre ruppe in un pianto: “Eravamo soli, mio marito non c’era mai. Ma sapevo che era giusto che Francesca facesse la sua vita”.

Il Padre: “Io lavoravo per tutti, quando tornavo a casa mi rendevo conto che c’era tristezza ma non pensavo che la situazione fosse così drammatica. Ogni tanto facevo un salto a Bologna per pranzare con Francesca.”

La madre: “Quando Franco ha iniziato a stare male non sapevo cosa fare, non parlava, non usciva, non studiava, ci siamo rivolti al medico di famiglia che ci ha inviati da un suo amico psichiatra. E non volevo appesantire Francesca”.

Francesca: “L’ho saputo mesi dopo anche se immaginavo che qualcosa stesse succedendo perché non riuscivo a parlare con Franco”.

Franco: “Non ricordo quasi niente, mi sembra che esageriate tanto”.

Padre e Madre: “Ci sembrava una bella famiglia la nostra, anche gli amici ce lo riconoscono, volevamo una famiglia così, due figli e le soddisfazioni giuste e invece ci accorgiamo che Franco sta male, Franco non è contento.”.

Una famiglia bella, considerata serena e soddisfatta, ma sotto la superfice del visibile celava una situazione molto meno funzionale.

La forte convinzione da parte dei genitori di aderire a un modello familiare agognato ha tolto a loro stessi la capacità di farsi domande e di guardare la sostanza delle cose. “la luce che ci illumina la strada se diventa troppo forte ci acceca”

Distanza emotiva tra i coniugi, abdicazione dal ruolo genitoriale, solitudine, tutto annebbiato dal desiderio di avere comunque una famiglia bella, la migliore possibile.

Con la malattia di Franco il sistema famiglia si era, in maniera drammatica, di nuovo riunito: padre e figlia richiamate in casa, la madre costretta a uscire allo scoperto e rompere il silenzio e Franco “spezzato” diventato bisognoso e dipendente come un bambino. 

Questa famiglia non è qualcosa di eccezionale, è una famiglia comune, una famiglia che si è sviluppata ed è cresciuta sulla sua storia in base a delle premesse che nella testa dei genitori erano molto chiare, forse troppo.

Nel corso della terapia abbiamo approfondito su quali basi poggiavano le loro aspettative rispetto alla famiglia modello standard, un obiettivo che hanno voluto credere di aver costruito anche al costo di non vedere le manchevolezze e i bisogni dei figli.

Credenze così potenti da offuscare i bisogni reali.

Non possiamo affermare che la patologia di Franco sia solo il frutto di un’organizzazione familiare non equilibrata nei ruoli e distorta nella comunicazione affettiva, sicuramente il poco sonno abbinato all’uso di sostanze stupefacenti hanno contribuito molto al breakdown, ma di fatto questa anomalia familiare ha influito enormemente sull’evoluzione incompleta della personalità del ragazzo.

Quello che mi interessa sottolineare è l’idea che questa famiglia aveva di sé stessa, la convinzione di essere una famiglia sana e felice, la loro migliore immagine possibile.

Riflessioni Conclusive

Prendendo come riferimento il caso della famiglia appena descritta mi preme soffermarmi sul concetto di “migliore possibile”: ne erano convinti? Fingevano di esserne convinti? Domanda capziosa?

Senza scomodare troppo Freud sappiamo che esistono forze in ciascuno di noi che sfuggono al nostro controllo e condizionano in maniera pressante le nostre scelte e pertanto la nostra vita.

Non alludo solo alle dinamiche inconsce freudiane o junghiane ma anche alle forze sistemiche, alle lealtà familiari invisibili, agli script familiari.

Cantiamo continuamente in un coro e ogni nostro comportamento è interconnesso agli altri comportamenti di coloro che appartengono ai sistemi ai quali siamo appartenenti, è per questi intrecci che per esempio una moglie disperata non lascia un marito violento o un marito periferico non si separa da una moglie fredda e distante.

Conosco una ragazzina gravemente anoressica che ha già dovuto ricorrere a due ricoveri ospedalieri per non morire, la mamma è depressa da sempre, parole della madre, la ragazzina si sente violentemente in colpa perché con i suoi sintomi fa soffrire tutti, soprattutto la madre, ma si sentirebbe ancora più in colpa se lei diventasse felice e lasciasse la madre depressa.

Sono situazioni a doppio legame, significa che qualsiasi cosa faccia la ragazzina sarebbe comunque un errore e una colpa. E tutto ciò è sottopelle, avvertito ma non mentalizzato, la ragazzina vorrebbe star meglio e la madre non desidera altro che vedere la figlia contenta, ma lealtà familiari invisibili e patologiche condizionano ogni processo di crescita.

Siamo appoggiati sulle nostre certezze, anche se fanno male e ci inducono lamenti, ma la certezza dà sicurezza e quindi in maniera implicita affermiamo che meglio di così non possiamo stare. Confondiamo abilmente verbi che sono di fatto diversi, Devo-Posso-Voglio, li confondiamo per non uscire allo scoperto e per non assumerci le nostre responsabilità: Devo e Posso ci giustificano, mentre Voglio ci fa scoprire e ci obbliga a scendere in campo e rischiare lo scontro.

Mentire agli altri fa poco male ma, per essere convinti che meglio di come viviamo non possiamo vivere, implica mentire a sé stessi e allora il gioco diventa duro.

Troviamo mille scuse per non fare un passo, giustifichiamo la nostra condotta incolpando gli altri o il destino, mentre quando vogliamo giudicare gli altri non troviamo attenuanti e andiamo dritti all’indole: “È fatto così! È la sua natura!”

In conclusione, credo che la via più utile per fare meno errori con le persone che amiamo e per stare meglio noi stessi sia quella di chiederci: “È questa la vita migliore per me? E se sì, perché sono convinto che sia la migliore?”.


Riferimenti Bibliografici

Bateson Gregory Verso un’ecologia della mente Adelphi Milano 1976

Boszormeny Nagy Lealtà invisibili Astrolabio 1988

Byng- Hall, J.  Le trame della  famiglia Raffaello Cortina 1998

Bogliolo ,C. Manuale di psicoterapia della famiglia Angeli 2008

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