di Elisa Puvia – Il presente contributo intende illustrare il ruolo della donna in qualità di madre all’interno della famiglia criminale mafiosa conosciuta con il nome di Cosa Nostra. [1]
Prima di illustrare le dinamiche di trasmissione dei ruoli e dei valori criminali mafiosi attraverso il percorso educativo, analizzerò quelle che sono state e, per certi versi continuano ad essere, le principali mistificazioni operate artatamente da Cosa Nostra, che ne hanno permesso la sopravvivenza e la continuità. Tali mistificazioni riguardano due importanti dimensioni: quella familiare, ovvero l’idea di famiglia come luogo privilegiato di formazione dell’identità e, all’interno di questo nucleo familiare, il ruolo svolto dalla donna nella veste di madre è dunque colei alla quale è affidata l’educazione dei figli.
Questi due passaggi preliminari permetteranno di cogliere nella sua essenza, l’importanza del ruolo affidato da Cosa Nostra alla donna. La tesi che cercherò di sviluppare è che il ruolo educatrice della madre è strategicamente funzionale alla perpetuazione dei rituali, delle norme, delle regole e dei valori attraverso i quali viene assicurata sopravvivenza e continuità all’organizzazione criminale.
Famiglia di sangue e famiglia mafiosa
Nella letteratura psicologica, la famiglia è definita come il luogo principale di formazione dell’identità e della coscienza, l’ambiente privilegiato per la trasmissione dei valori.
L’idea di famiglia così intesa diventa ancora più rilevante se si assume la prospettiva dell’organizzazione criminale di stampo mafioso. La famiglia mafiosa, infatti, ha strumentalizzato, facendola propria, l’istituzione familiare, i suoi valori, le relazioni tra i suoi membri e lo stesso modello organizzativo delle attività criminali.
Sono diversi gli aspetti dell’istituzione familiare che l’organizzazione mafiosa ha fatto propri, stravolgendone completamente il significato al fine ultimo di aumentare il proprio prestigio, la desiderabilità di appartenenza e in ultimo l’esercizio del potere basato da sempre su un controllo capillare del territorio e di conseguenza sul controllo delle singole famiglie. Un elemento di appropriazione è rappresentato da certa terminologia: ad esempio, la cosca è detta “Famiglia”, i membri sono chiamati “fratelli”, al capomafia è assegnato l’appellativo di “mammasantissima”.
Alla mistificazione e manipolazione della famiglia, il suo ruolo, i suoi valori, si aggiunge un altro elemento altrettanto importante e cruciale per la sopravvivenza stessa dell’organizzazione criminale: il ruolo della donna.
Donne di mafia
La figura femminile all’interno di Cosa Nostra è stata opportunisticamente e volutamente improntata ad una invisibilità. Lo stereotipo della donna come sottomessa, succube, inaffidabile, alla quale è precluso l’ingresso formale nell’organizzazione, è stato volutamente veicolato all’esterno per convenienza dell’organizzazione, per statuto interno mafioso (Principato, 2012) e da parte delle stesse donne non per debolezza ma per condivisione degli scopi o per complicità. Alle donne è stata negata un’identità autonoma, essendo conosciute e riconosciute unicamente come “la moglie”, la sorella”, la figlia”, del boss, del mafioso, ma questa posizione subordinata e legata all’uomo, questa super-identità acquisita (Principato,2012) ne rappresenta in realtà la forza e l’indipendenza: la sua presenza, infatti, è fondamentale per il mantenimento dell’organizzazione mafiosa grazie alla sua capacità riproduttiva ed educativa.
Nell’immaginario collettivo, parlare di donne di mafia ha sempre significato parlare di donne vittime oppure ribelli. In realtà le donne sentono e vedono tutto. A questo proposito, ecco cosa racconta il collaboratore di giustizia Leonardo Messina: “ La donna non è mai stata, né sarà mai affiliata ma ha sempre avuto un ruolo fondamentale. […] La donna non si è mai seduta intorno al tavolo per una riunione ma c’è sempre stata lo stesso. Molte riunioni si sono svolte in casa mia, o di quella di mia madre o di mia sorella. Sentono tutto ma non possono dire nulla. Le donne sono portatrici di segreti” (Dino, 1998).
Le donne hanno tradizionalmente svolto delle funzioni attive che hanno contribuito a rafforzare il potere delle organizzazioni criminali mafiose. Il ruolo fondamentale per la conservazione e la trasmissione dei valori di Cosa Nostra è quello di educare alle regole dell’organizzazione e soprattutto al loro rispetto. Alla donna, in quanto madre, è affidato questo compito di trasmettere e consolidare i valori mafiosi ai figli.
L’importanza della madre si sostanzia ancora di più nel richiamo all’essenza di Cosa Nostra come unico sistema sociale all’interno del quale il controllo dei processi di socializzazione è determinante e vitale per il corretto trasferimento dei modelli culturali dell’organizzazione. E’ il luogo unico di formazione dell’identità, venendo a mancare qualsiasi altra forma di identificazione in un’entità collettiva esterna, sia essa lo Stato oppure la collettività in generale. La centralità della famiglia – luogo d’incontro degli affetti e degli affari mafiosi – amplifica l’importanza della figura femminile. Alle donne, infatti, è affidato l’adempimento del delicatissimo compito educativo. Emerge, prepotente, la centralità – seppur sommersa – della figura femminile, nella veste di educatrice dei futuri uomini d’onore (Dino, 1998).
Madri di mafia
Le esigue ricerche sulla psicologia del fenomeno mafioso, in particolare sulla relazione tra genitori e figli nelle famiglie di mafia (si veda però Giordano, Lo Verso, 2014), hanno mostrato come non esista la famiglia mafiosa, ogni tentativo di operare delle generalizzazioni si scontra con l’inevitabile complessità del tema. Esistono tante famiglie differenti con caratteristiche specifiche, relative alla classe sociale, alla regione, all’epoca, il luogo di origine (Deambrogio, 2012). Tuttavia, queste ricerche hanno mostrato l’importanza dell’educazione ai valori ed i modelli mafiosi e come l’educazione familiare, ricevuta dalla madre, sia centrale nel processo di formazione dell’identità mafiosa. Luogo privilegiato in cui identità e valori vengono interiorizzati è il quotidiano (Dino, 2012). Bambini e bambine cresciuti in un ambiente mafioso difficilmente sfuggono a questo lavoro di inculcazione (Deambrogio, 2012), specialmente se consideriamo la scarsità di influenze che penetrano dall’esterno. Il quotidiano, diventa quindi la sfera privilegiata di controllo sociale, dimensione in cui si familiarizza con certe dinamiche, si rende normale ciò che normale non è (Dino, 2012).
Un fattore di differenziazione importante, che incide sul tipo di educazione ricevuta dai figli, è il genere della prole. I figli maschi vengono addestrati a modelli e codici culturali ritenuti idonei a divenire mafiosi; valori quali l’omertà, la virilità, la forza, l’obbedienza cieca a Cosa Nostra. In queste famiglie, i figli maschi vengono amati ed accuditi nella misura in cui dimostrano di soddisfare le aspettative mafiose della famiglia. Per quanto riguarda le figlie femmine, invece, è essenziale che le madri trasmettano loro il modello di subordinazione femminile all’autorità del maschio, imparando ad essere passive e ad ascoltare il maschio in tutto e per tutto, a farsi portavoce del modello trasmesso dal padre. A diventare le future mogli di boss: “Uomini come me sposano la donna adatta: la figlia di un uomo come me. Cosa Nostra le controlla fin da bambine, come noi” (parole del collaboratore di giustizia Leonardo Messina nel corso di un’intervista; Dino, 1998).
Un altro fattore di differenziazione importante è la provenienza o meno della madre da famiglie mafiose. Nel primo caso, le donne sono educate a rivestire il ruolo di moglie di un boss. Racconta ancora Leonardo Messina: “Il patrimonio di un uomo d’onore è principalmente avere una donna consapevole del suo ruolo. […] Io ho sposato la nipote di un capomafia, […] ci completiamo a vicenda. […] Quando tornavo a casa davo a lei la pistola o gli indumenti sporchi da buttare […]. Mia moglie si rendeva conto di quello che facevo” (Dino, 1998). Consapevolezza che è importante perché assicura continuità del modello cultuale mafioso. Tale centralità sommersa (Giordano, Lo Verso, 2014) acquista particolare valore nel momento in cui la figura maschile (mariti, figli, fratelli) viene a mancare perché uccisa, arrestata, oppure decide di collaborare. Mi focalizzerò su quest’ultima evenienza perché di particolare interesse nel presente contesto. Le donne appaiono in questi casi più conservatrici dei valori mafiosi rispetto agli uomini, si oppongono alla collaborazione dei figli, arrivando a scagliarsi contro chi decide di collaborare, colpevoli di avere tradito l’organizzazione, la regola del silenzio di cui le madri sono portatrici. Fra i tanti esempi, riportiamo le parole di Marianna Bruno, alla notizia del ruolo avuto dei figli (Emanuela e Pasquale Di Filippo) nella cattura del boss Leoluca Bagarella, cognata di Totò Riina: “ Non sono figli miei, forse non sono stata io a farli, è stato un sogno”.
Nel caso sia il marito a scegliere la strada della collaborazione, i figli possono diventare oggetto di ricatto, al fine di far ritrattare il marito infame. Diffusasi la notizia della loro collaborazione con la giustizia, Giusy Spadaro e Angela Marino, mogli di Pasquale ed Emanuele Di Filippo, in una telefonata alla redazione palermitana dell’Ansa dichiarano: “Siamo le ex mogli di quei due pentiti bastardi. Per noi loro sono morti”. Giusy Spadaro continua: “AI miei tre figli ho detto: non avete più un padre, rinnegatelo, dimenticatevi di lui” (Dino, 2012).
I figli rappresentano però anche la molla del cambiamento; sono chiamati in causa come soggetti a favore dei quali sono prese importanti decisioni o come soggetti che fanno nascere crisi, fratture. Paradigmatica a questo riguardo è la testimonianza di Carmela Iuculano, una giovane donna inserita nel contesto mafioso di Cosa Nostra, che decide di collaborare con la giustizia, proprio per amore delle figlie. La sua decisione non è facile, perché come racconta lei stessa: “da un lato c’erano i miei figli e dall’altro lato c’era mio marito, […] volevo collaborare per i miei figli e però allo stesso tempo mi faceva male accusare mio marito”. Saranno proprio le figlie, il loro racconto di bambine isolate e derise dai compagni di scuola a causa dei genitori, la chiave di volta che le farà prendere la decisione definitiva, quella della collaborazione: “Sinceramente ho detto: ma che sto facendo io? mi ero accorta finalmente che io ero una mamma”.
Conclusioni
Come abbiamo cercato di evidenziare in questo percorso, parlare di famiglia mafiosa implica necessariamente prendere in considerazione una realtà complessa e multisfaccettata. Il rapporto tra genitori e figli risente inevitabilmente di questa complessità. Riteniamo tuttavia di poter trarre un paio di conclusioni dal racconto che abbiamo cercato di fare.
Il disagio e la sofferenza possono rappresentare la molla per il cambiamento, proprio da parte di coloro che per la loro presunta debolezza sono stati formalmente esclusi dal sodalizio criminale, ovvero le donne e i loro figli. Per tornare alle parole della Iuculano rivolte all’ex marito: “il coraggio è questo, di seguirmi, non è quello di andare ad ammazzare le persone […]. scegliere finalmente la sua vera famiglia […] i miei figli devono vedere cosa è il bene e cosa è il male”.
Altro elemento su cui riflettere è l’importanza della rottura del consenso, attraverso la decisione di collaborare. Questo è ciò che fa maggiormente paura alle organizzazioni criminali. La scelta stessa della collaborazione; gli effetti della potenziale forza imitativa di una scelta di rottura pubblica e manifesta, riconoscibile da chiunque si trovi in una simile posizione. Che le istituzioni sono dunque chiamate ad incoraggiare e tutelare.
Riferimenti bibliografici
Deambrogio, C. (2012). Famiglia di sangue e mafia: un’analisi socio-criminologica. Archivio penale, n. 3, 1-19.
Dino, A. (2015). Il linguaggio delle donne fuoriuscite dalle mafie. Segno, n. 362, pp. 72-84.
Dino, A. (2012). Attrazioni fatali: genitori e figli nel quotidiano mafioso, pp. 153-175. In M. Massari (a cura di), Attraverso lo specchio. Scritti in onore di Renate Siebert, Cosenza, Pelegrini Editore.
Dino, A. (2010). Narrazioni al femminile di Cosa Nostra. In AA.VV., Donne di mafia, Meridiana. Rivista di Storia e Scienze Sociali, n. 67, 55-78.
Dino, A. (1998). Donne, mafia e processi di comunicazione. Rassegna italiana di sociologia, n. 4, 477-512.
Giordano, C., Lo Verso, G. (2014). Il boss mafioso ieri e oggi. Caratteristiche psicologiche e dati di ricerca. Narrare i gruppi, vol. 9, n. 1-2, 20-34.
Principato, T. (2011). Intervento tenuto in occasione della Festa di Libera all’interno del seminario Donne di mafia, donne contro le mafie, Firenze. In Narcomafie, marzo 2012, 42 – 44.
[1] La scelta di focalizzarmi su una sola realtà criminale è dettata da ragioni di sintesi. Molte delle dinamiche illustrate nel presente contributo non sono esclusive di Cosa Nostra, ma sono da ritenersi valide anche nella lettura di altre realtà mafiose (e.g., ‘Ndrangheta).
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