di Federica Biolzi
Nel tardo medioevo chi uccideva veniva perseguito molto spesso solo per facilitare un accordo privato con i parenti della vittima. Diverse, fino a tempi relativamente recenti, sono state le attenuanti che le norme prevedevano in particolare per i crimini commessi tra le mura domestiche.
Uccidere un proprio simile è oggi classificato come il più grave dei crimini, con pene che sono tra quelle più elevate contemplate dall’ordinamento. Ma non è così in tutto il mondo, vi è molta differenza tra i paesi occidentali e il resto del pianeta.
Lorenzo Todesco, docente di Sociologia generale all’Università di Torino, ci presenta per le edizioni Il Mulino (2024) Interazioni fatali. Uomini e donne che uccidono in Italia: una ricerca dettagliata con un approccio di genere sull’omicidio nel nostro paese, che ha, tra l’altro, il pregio di basarsi su una serie di dati quantitativi che ci permettono di delineare e fotografare con completezza il fenomeno.
-Vi è una domanda fondamentale con la quale lei inizia il suo saggio, ne approfittiamo per farla nostra e riproporgliela: perché si uccide? O meglio, quali sono le teorie più significative che la letteratura sociologica ci ha fornito in questo ambito?
– Prima di rispondere alla sua domanda, è d’obbligo una premessa. L’omicidio è un crimine la cui analisi e comprensione risultano complesse per due principali ragioni. Da una parte, in quanto multidimensionale: nel senso che, per essere pienamente compreso, va osservato a partire dalle tre dimensioni analitiche macro, meso e micro in cui si articola la realtà sociale. Dall’altra, in quanto caratterizzato da una forte eterogeneità rispetto alle circostanze in cui può maturare, sicuramente maggiore di quella riscontrata per altri delitti. Si pensi, banalmente, alla differenza che corre tra gli omicidi strumentali – con un obiettivo ben preciso e un movente razionale, spesso legato a questioni economiche – e quelli definiti espressivi, in cui chi uccide lo fa per manifestare il suo stato d’animo, i suoi impulsi incontrollati o le sue emozioni. Volendo fare qualche esempio concreto, un episodio letale che coinvolge due appartenenti a cosche criminali rivali è caratterizzato da motivazioni, dinamiche e contenuti molto diversi rispetto all’assassinio di una donna che non vuole sottomettersi alle smanie di possesso e controllo di un uomo. Che è ancora differente rispetto all’uccisione all’esterno di un bar consumata tra due sconosciuti per uno sguardo di troppo. Per affrontare al meglio questa complessità, è necessario fare riferimento a teorie sociologiche con approcci e punti di vista molto diversi ma ben integrati tra loro, che permettono di comprendere i differenti tipi di omicidio a partire dalle sopra citate tre dimensioni analitiche.
– Quali sono, dunque, questo approcci teorici utili alla comprensione dell’omicidio?
-Possiamo citare, in primo luogo, le teorie strutturaliste. Queste evidenziano l’importanza della struttura e del contesto sociale nel produrre i comportamenti criminali e violenti, con una particolare attenzione al ruolo giocato dalla stratificazione e dalle disuguaglianze sociali. Penso, per citarne solo una, alla teoria della tensione, proposta da Robert K. Merton alla fine degli anni Trenta del secolo scorso. Secondo Merton esiste, per l’appunto, una tensione tra la struttura culturale della società – ossia, le mete socialmente prescritte a cui aspirare (ad esempio, la ricchezza) e i mezzi legittimi con cui ottenerle (ad esempio, lo studio, il lavoro, l’impegno) – e la struttura sociale; ossia, la distribuzione delle effettive opportunità di successo in tal senso, a seconda della posizione nel sistema di stratificazione sociale occupata da ciascun attore. È proprio questa tensione a spingere alcuni individui verso la delinquenza: i vincoli nelle possibilità di realizzazione personale rispetto alle mete socialmente prescritte generano frustrazione e sono potenziali catalizzatori di episodi violenti, anche letali. Le classi sociali che più rischiano di incorrere nei comportamenti criminali sono quindi quelle economicamente e socialmente deprivate, risentendo maggiormente dello scarto tra le loro aspirazioni e le limitate opportunità di cui dispongono.
-E cosa può dirci rispetto alla dimensione culturale? Anche questo approccio gioca un ruolo nella comprensione dell’omicidio?
-Certamente, ce lo insegnano le teorie culturaliste. In quest’ottica, l’agire degli attori sociali non è influenzato solo dalla struttura e dal contesto sociale, ma anche dalla costellazione valoriale degli individui e dalle norme che li guidano. In tutti i paesi occidentali contemporanei esistono gruppi sociali che non riconoscono le norme sociali vigenti, figlie dei valori della società conforme come il lavoro, l’onestà, il rispetto per le regole e per gli altri. Al contrario, vengono sdoganati (dis)valori – almeno ai nostri occhi – come il disprezzo delle regole, la prevaricazione e la violenza. Si tratta di subculture proprie di alcuni gruppi, spesso appartenenti alle classi deprivate o comunque marginalizzate. Rispetto all’analisi dell’omicidio, appare particolarmente illuminante – tra le altre – la teoria della subcultura della violenza, proposta da Franco Ferracuti e Marvin E. Wolfgang alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Secondo questi studiosi, non tutte le subculture devianti, pur distaccandosi dai valori della società conforme, propongono contenuti totalmente opposti e in radicale conflitto con quelli dominanti. Ma ne esiste una – da loro definita subcultura della violenza – che sdogana in misura incondizionata le azioni efferate e brutali, e socializza i suoi membri a metterle in atto. La subcultura della violenza, infatti, promuove l’uso della forza – anche con esiti letali – nel nome di un’esaltazione esagerata di valori come onore, rispetto e coraggio, di elementi identitari come una concezione virilista della maschilità e di caratteristiche individuali come la prestanza fisica. Dunque, la diffusione degli omicidi è dovuta a un subcontesto culturale di valori e norme che non condanna, ma anzi in molti casi incoraggia, una pratica che nella società conforme è considerata gravemente deviante. A margine di questo discorso va poi sottolineato che pure valori e norme socialmente accettati e condivisi non escludono, talvolta, il ricorso alla forza e alla sopraffazione: si pensi alle società in cui il modello culturale patriarcale – che giustifica e in alcuni casi legittima la violenza maschile contro le donne – risulta dominante.
-Al di là della struttura sociale e della cultura, vi sono altri fattori che aiutano a comprendere perché gli esseri umani arrivano a uccidere?
-Sì, e sono oggetto dell’attenzione dell’approccio interazionista allo studio dell’omicidio. Le teorie che vi fanno riferimento cercano di spiegare, al di là delle dinamiche strutturali e culturali, perché proprio l’interazione tra quei due attori sociali – e non altri – è sfociata nel sangue, piuttosto che concludersi meno drammaticamente. Gli omicidi si consumano nel contesto di un’interazione faccia a faccia, e per comprenderli a pieno è quindi necessario focalizzarsi su una serie di micro-dinamiche relazionali e interpretative, che portano il fatto di sangue a consumarsi in quella specifica circostanza, e non in un’altra. In questo approccio la dimensione di analisi è quindi il micro, rispetto al macro dell’approccio strutturalista e al macro/meso di quello culturalista. Tra le teorie interazioniste, vale certamente la pena di menzionare ai fini della comprensione della violenza letale la teoria degli omicidi come transazioni situate, proposta da David Luckenbill nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso. La teorizzazione di Luckenbill, che pesca a piene mani dal pensiero di un sociologo classico come Erving Goffmann, considera l’omicidio l’esito fatale di un’interazione intensa e conflittuale tra l’autore, la vittima e gli eventuali testimoni. La dinamica interazionale è costituita da una escalation alimentata sia da chi finirà per uccidere, sia da chi è destinato a soccombere. In tale escalation, ciascun contendente cerca di affermare e salvare la propria faccia – ossia, la reputazione sociale e la dignità, quell’immagine di sé a cui si tiene molto che si vuole dare nel corso di un’interazione – a spese di quella dell’altro; per farlo, si rimane rigidamente ancorati alle proprie posizioni, a prescindere dalle conseguenze che questa scelta comporta. In questa dinamica interazionale, i contendenti interpretano un ruolo le cui azioni sono influenzate dal modo in cui la controparte interpreta il suo, e dalla reazione di eventuali testimoni. È questo intreccio interattivo di ruoli – secondo uno schema in fasi dettagliatamente descritto da Luckenbill – a produrre l’esito fatale dell’evento.
-La sua articolata analisi sulle vicende dell’omicidio ci aiuta anche a sfatare un mito, quello di credere che, in un passato mitico, vi sia stata una minima presenza di crimini verso la persona. Come stanno effettivamente le cose?
-La diffusione della violenza omicida nell’Europa tardomedioevevale e della prima età moderna risultava eccezionalmente più elevata di quella registrata nelle epoche successive. Giusto per dare qualche numero, tra il 1200 e il 1450 il tasso di omicidio fluttuava, a seconda della regione europea considerata, tra i 13 e i 72 casi per 100.000 abitanti; l’attuale tasso oscilla in Europa attorno a quota 1, ed è addirittura inferiore nella maggior parte dei paesi. Parliamo di un declino impressionante, che caratterizza l’avvento della modernizzazione al pari di eventi epocali come la nascita degli Stati, la diffusione dell’individualismo e l’urbanizzazione. Le cause del declino furono molteplici, e tra loro interrelate: l’affermazione delle istituzioni statali, che attraverso l’instaurazione del monopolio della violenza legittima pacificarono i territori e contennero la diffusione della violenza interpersonale; lo sviluppo dell’economia di mercato, il cui sistema di reciproche dipendenze economiche e sociali è del tutto incompatibile con l’impiego della forza e della prevaricazione per dirimere le controversie; la diffusione della dottrina protestante, che da una parte collocò la violenza in una retorica moralizzatrice dominata dalla provvidenza, dal peccato e dal rimorso, dall’altra agì energicamente per spingere le autorità secolari alla criminalizzazione dell’omicidio, fino ad allora in tanti casi largamente tollerato; il declino delle culture dell’onore e del duello, che avevano grandemente contribuito agli elevatissimi tassi di omicidio delle società tradizionali europee; la diffusione dell’individualismo, che progressivamente attenuò quella violenza interpersonale generata dai forti legami collettivi e dalle obbligazioni tra gli individui e i loro gruppi di appartenenza, anche in termini di difesa in caso di aggressione e di ritorsione per un affronto subito.
-Cosa ci può dire rispetto alle specificità italiane in tal senso?
-In Italia la diffusione dell’omicidio è stata per molti secoli notevolmente più elevata di quella di molte realtà europee. Da una parte, i processi sopra descritti sono avvenuti con ritardo: si pensi, ad esempio, alla tardiva unificazione del territorio nazionale sotto un unico potere centrale; o al lentissimo declino delle culture dell’onore e del duello; o alla diffusione del modello familiare mediterraneo, con la sua fittissima rete di obbligazioni parentali e tutte le conseguenze che ne derivano in termini di diffusione degli omicidi prodotti da una simile dinamica familiare e relazionale. Dall’altra, certi processi sono avvenuti solo in misura limitata, o non sono proprio avvenuti; ho in mente, in particolare, la mancata affermazione della dottrina protestante in Italia, bastione del cattolicesimo romano e della controriforma che mirava ad arginare i nuovi precetti teologici. L’eco della campagna contro l’omicidio del protestantesimo nel nostro paese fu così ben lieve rispetto a quanto avvenne in altre realtà europee, in cui la violenza letale si ridusse con passo nettamente più deciso.
-Lei dedica una gran parte del suo lavoro, a nostro parere una delle più importanti del testo, all’analisi di genere dell’omicidio. Come si comporta la variante genere rispetto al fenomeno da lei studiato e, segnatamente, di quello tristemente passato alle cronache come femminicidio?
-Il genere è la variabile cruciale per la comprensione dei femminicidi, concetto coniato dalla sociologa femminista Diana H. Russel nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso: quelle uccisioni di donne perpetrate da uomini prodotte dalle disuguaglianze tra i generi e nelle relazioni tra questi presenti nella società. Parliamo, dunque, di quegli episodi fortemente caratterizzati da una componente misogina o di possesso, e/o da un senso di affermazione e legittimazione del potere e della superiorità maschile, e dei presunti diritti che ne derivano, e/o da una pulsione sessuale – talvolta sadica – nei confronti delle donne.
Oltre a questo fondamentale contributo, il genere costituisce una lente analitica ben più ampia ed estremamente feconda nello studio del più generale fenomeno dell’omicidio, capace di dare ampiamente conto della già menzionata eterogeneità propria di questo crimine: uomini e donne infatti uccidono, e vengono uccisi, in circostanze – a livello di luogo e arma del delitto, rapporto autore-vittima, ecc. – e per ragioni molto diverse. Un’importante difformità riguarda anche la frequenza con cui si riesce ad assicurare il colpevole alla giustizia, nettamente più elevata negli omicidi che vedono coinvolte donne piuttosto che in quelli al maschile. Analizzare gli omicidi a partire da un approccio di genere consente di tratteggiare quattro tipi di delitto – uomini che uccidono uomini, uomini che uccidono donne, donne che uccidono uomini, donne che uccidono donne – tra loro ben distinti; con caratteristiche intra-tipo in parte simili, e infra-tipo abbastanza eterogenee, da inquadrare e dare conto delle molteplici situazioni in cui un omicidio può avere luogo. In particolare, gli episodi tutti al maschile – quelli largamente più eterogenei a livello di movente – sono nettamente diversi dai due tipi con entrambi i sessi coinvolti, tra loro più simili in quanto spesso consumati tra partner o ex; quelli esclusivamente al femminile – a loro volta – risultano molto distanti dagli altri, dal momento che vedono spesso coinvolte un’adulta e una bambina. A conti fatti, le donne uccidono le due figure a cui maggiormente le lega la struttura sociale di genere: i partner, in quanto mogli o compagne, la prole in quanto madri. Gli uomini, invece, hanno una platea di potenziali vittime decisamente più variegata, anche in virtù della loro presenza tanto nelle attività lecite della vita quotidiana, quanto in quelle illecite. Le donne, inoltre, sono principalmente uccise da partner o ex, con un ulteriore richiamo, quindi, al ruolo di mogli o compagne; gli uomini, piuttosto, da conoscenti e sconosciuti. Se si osservasse l’uguaglianza di genere solo attraverso la lente analitica dell’omicidio, dunque, il nostro paese risulterebbe ancor più conservatore di quanto già è nei fatti, con le donne fortemente schiacciate sui loro ruoli tradizionali.
-Ci sono altri contributi che l’approccio di genere può portare alla comprensione dell’omicidio?
-Sì. L’approccio di genere si dimostra prezioso anche per comprendere alcune caratteristiche della diffusione dell’omicidio nello spazio e nel tempo. Da una parte, nei paesi – o nei periodi – in cui questo crimine è ampiamente diffuso, la percentuale di casi con donne coinvolte come autrici o vittime è estremamente contenuta; quest’ultima aumenta, invece, al diminuire della violenza letale. Dall’altra, l’andamento dei tassi di omicidio dipende in primo luogo dalla diffusione degli episodi tra uomini, in particolare giovani; quelli che riguardano anche – o solo – le donne tendono infatti a essere meno soggetti a fluttuazioni in contesti e periodi diversi.
-Un’ultima questione, che ci aiuta a meglio inquadrare il tutto in una cornice più ampia, come si caratterizza, il nostro paese rispetto ai suoi vicini europei, rispetto a questo tipo di crimine?
-A differenza del turbolento passato precedentemente menzionato, l’Italia è oggi uno dei paesi europei in cui si rischia meno di essere uccisi, e questo vale tanto per gli uomini, quanto per le donne. Considerando il triennio 2020-2022, l’Italia si colloca al primo posto della classifica dei paesi europei – sono esclusi solo quelli piccolissimi, con popolazione inferiore ai 100.000 abitanti, e quelli transcontinentali – con meno uccisioni, a pari merito con la pacifica Svizzera e la Slovenia: solo 0,5 omicidi ogni 100.000 abitanti, un tasso pari quasi alla metà di quello mediano europeo (0,9). Si tratta di un’assoluta rivoluzione non solo rispetto a quanto avveniva nel nostro paese nei secoli passati, ma pure se si volge lo sguardo anche solo a un trentennio fa: nel triennio 1990-1992, l’Italia si collocava al 27° posto (su 40) della stessa classifica: 3 omicidi per 100.000 abitanti, ben al di sopra della mediana europea (2,2). In quegli anni, l’Italia raggiunse il picco delle uccisioni registrate nel dopoguerra, in larga misura – ma non esclusivamente – a causa del dilagare della violenza mafiosa; con l’eccezione della Finlandia, l’omicidio risultava più diffuso solo in parte dell’Europa orientale e in alcune Repubbliche balcaniche dell’ex Jugoslavia, attraversate all’epoca da tensioni, conflitti e violenze. Allargando lo sguardo rispetto ai soli paesi europei, L’Italia è collocata in una delle aree geografiche – l’Europa occidentale – in cui si uccide meno al mondo, e risulta avere un tasso di omicidio pari alla metà di questa. Possiamo quindi affermare che – rispetto al rischio di essere assassinati – il nostro sia oggi uno dei paesi più sicuri di tutto il pianeta: la diffusione dell’omicidio non è distante da quella del Giappone (0,5 vs 0,2 casi per 100.000 abitanti nell’ultimo triennio disponibile), tra le nazioni capifila in tal senso.
-Come ci si può spiegare un cambiamento di questa portata?
-La comprensione di questa spettacolare rimonta risulta assai complessa, e in larga misura esula il fuoco del mio volume, focalizzato su un singolo paese e non su un’analisi comparata. Tuttavia, si possono evidenziare un paio di elementi esplicativi utili in tal senso. In primo luogo, è fondamentale il fatto che – come detto – la fortissima crescita degli omicidi avvenuta in Italia nel corso degli anni Ottanta sia stata in buona misura trainata dall’esplosione della violenza nell’ambito della criminalità organizzata. Nel momento in cui questa violenza è per diverse ragioni venuta meno, il risultato è stato un vero e proprio crollo nella diffusione degli omicidi, ben maggiore di quello avvenuto in altri paesi che non hanno registrato una simile dinamica. Inoltre, il ruolo cruciale delle mafie nell’impennata della violenza letale ha prodotto un secondo meccanismo, che testimonia nuovamente l’importanza dell’approccio di genere allo studio dell’omicidio. I fatti di sangue maturati nell’ambito della criminalità organizzata hanno riguardato quasi esclusivamente individui di sesso maschile. Nel triennio 1990-1992 – quello dell’apice della crescita degli omicidi – si era quindi in presenza di un vasto bacino di delitti tra uomini; proprio quelli – come abbiamo detto – che risultano maggiormente soggetti a fluttuazioni, fatto che ha favorito e reso possibile la successiva caduta verticale.
Lorenzo Todesco
Interazioni Fatali
Uomini e donne che uccidono in Italia
2024, Il Mulino