Il silenzio di Dio: i limiti di misericordia e potenza[1]
di Primavera Fisogni
Che fine ha fatto Dio, di fronte a tanto male? Dall’esplosione della pandemia, a inizio 2020, fino alla terribile guerra di aggressione sferrata dalla Russia nei confronti dell’Ucraina, a colpire non è tanto la mancanza di una risposta a quella domanda esistenziale, ma la (quasi) totale assenza di essa dal confronto culturale. Come a dire che il Dio delle grandi religioni monoteiste non è più considerato il player principale nel destino degli uomini, i quali giocano la loro partita etsi Deus non daretur: con quali risultati – dall’ambiente ai conflitti – è sotto gli occhi di tutti.
Il presente articolo cerca di portare a tema il perché di questa cancellazione, che non può essere spiegato soltanto con la tesi dell’ateismo galoppante, in particolare nel Vecchio continente. Si intende invece argomentare che questo fenomeno è l’esito di due approcci antitetici alla persona divina, oggi prevalenti. Da un lato è in atto un processo di ridimensionamento del Dio biblico in rapporto alle creature, esito della teologia contemporanea: un itinerario accelerato nel corso dell’ultimo secolo dove non la grandezza, ma la piccolezza, non la forza, ma la tenerezza di Dio acquistano rilevanza nel rapporto con credenti e non credenti. Dall’altro, si fa leva – soprattutto nel fondamentalismo di matrice islamista Mir – su un’idea di Dio in cui prevale la grandezza e la potenza.
Se la dottrina della misericordia ha il vantaggio di parlare al cuore di tutti, non soltanto dei fedeli delle grandi religioni monoteiste, si apre però al rischio di spersonalizzare la Persona di Dio, riducendola a fattore emotivo. Un Dio potente, invece, specie quando il suo nome viene brandito come arma, non può che dividere e abitare un discorso respingente. Per l’azione di queste due forze contrarie, progressivamente Dio scompare dalla scena e con lui ogni possibile teodicea, per cedere il posto, nel tribunale della Storia, all’uomo con gli esiti brutali dell’esercizio della propria libertà, in un contesto privo di speranza e pessimistico.
L’assenza della domanda, dunque, sembra collegata al venir meno dell’Interlocutore. Come riaprire un dialogo di cui si avverte più che mai l’esigenza, per rifondare la speranza, che è sempre trascendente? Dall’analisi emerge quanto meno una suggestione: che la via da rilanciare – sul piano teologico e filosofico – sia quella della creaturalità, cioè della consapevolezza che non bastando a sé stesso, nella sua finitudine, l’uomo abbia bisogno di un postulare un Creatore: un Soggetto di relazione al quale aprirsi nell’amore, non un Ente da portare a giudizio, come sempre è avvenuto nelle grandi sventure dell’umanità.
Il Dio della piccolezza
La sofferenza, il dolore, i drammi e le sventure – le sfaccettature amare della fragilità umana – hanno sempre acceso i riflettori su Dio, nella tradizione monoteista cristiana ed ebraica. Suona strano che un dio personale, anzi “il” Dio creatore, sintesi all’estrema potenza di intelligenza, volontà, sentimento, possa lasciare le sue creature in balìa del male. Facciamo da sempre molta fatica a conciliare la libertà personale con il mistero del male e, ancora di più, con il silenzio di Dio, a volte particolarmente assordante. La Shoah, lo sterminio di milioni di ebrei, ma anche di omosessuali, disabili, antagonisti politici del regime nazista ha segnato un punto di non ritorno a questo proposito, facendo ipotizzare agli esegeti il fenomeno trascendente dell’hester panim, vale a dire del nascondimento intenzionale del volto-presenza di Dio al popolo di Israele, le cui radici vanno cercate, a livello biblico, nel Deuteronomio (31: 17): «In quel giorno, la mia ira si accenderà contro di loro; io li abbandonerò, nasconderò loro il mio volto e saranno divorati. Molti mali e molte calamità cadranno loro addosso; e in quel giorno diranno: “Questi mali non ci hanno forse colpito perché il nostro Dio non è più in mezzo a noi?”».
Interpretato sia in senso negativo – Dio punisce il suo popolo, celandosi –, sia in termini positivi – quello nascosto è un Dio comunque presente, per chi ha fede – questo scomparire dall’orizzonte alimenta sempre la nostalgia dell’essere supremo. Da qui bisogna partire per mettere a fuoco quanto sembra accadere ai nostri giorni: siamo immersi in uno stato di estrema precarietà globale e drammi, dalla pandemia al terribile conflitto di aggressione ai danni dell’Ucraina da parte della Russia, crisi economiche-finanziarie, emergenze climatiche che mettono seriamente in pericolo la sopravvivenza anche in aree cosiddette “fortunate”. Se anche Dio ha celato il proprio volto, in questa amara fase dell’umanità, non ne facciamo problema.
Che sta succedendo?
La prima risposta, forse la più ovvia, è la constatazione di un disincanto generalizzato circa l’onnipotenza dell’Essere supremo, alla luce del dilagante ateismo, quanto meno in Occidente, dove anche i credenti vivono spesso una fede piuttosto annacquata. La pandemia spirituale, cioè l’attutirsi del senso del sacro favorito anche dall’allontanamento dai luoghi di culto, dalla liturgia, dalla somministrazione dei sacramenti ha giocato al rinforzo della tiepidezza di fede. Ma l’assenza della domanda su Dio nei drammi che stiamo vivendo sembra adombrare uno stato di cose più complesso, riguardo all’Onnipotente. Ecco, è proprio questa parola, un aggettivo capace di evocare il mysterium tremendum dell’Essere creatore a non avere più cittadinanza oggi nella percezione del Creatore. Si è verificata una torsione, per così dire: l’onnipotenza di Dio si misura sempre di più nella sua piccolezza e nel suo darsi, al cuore degli uomini, come misericordia, cioè amore. Papa Francesco ha ribadito, nella sua enciclica Deus est caritas la precedenza della misericordia su tutti gli attributi divini.
A questa conclusione la teologia arriva attraverso un percorso che ha negli ultimi pontefici i principali propulsori. Impossibile non pensare a Giovanni Paolo I, recentemente portato agli onori degli altari che presentò al mondo un Dio che è padre e, insieme madre[2]. Quella che sembrava un’affermazione poco ortodossa, se non del tutto azzardata, ha trovato il suo sviluppo nel magistero di papa Francesco, il quale ha ribadito il tratto più tenero, emozionale, affettivo del termine “misericordia”. Una parola che nell’Antico Testamento trova corrispondenza nell’ebraico rehem, parola indicante l’utero, lo spazio più intimo del corpo femminile, dove la vita, neo generata, viene accolta e accompagnata nel suo sviluppo. Va collocata qui, più che nella dottrina paolina della kenosis, il fenomeno del ritrarsi di Dio: mentre lo “svuotamento” (kenosis[3]) riguarda il farsi uomo di Cristo, il Figlio di Dio trinità, che s’è spogliato delle prerogative divine per la salvezza dell’umanità, la qualità rehem di Dio è il riposizionarsi dell’onnipotenza nell’alveo dell’amore. I due aspetti sono collegati.
Ma, mentre la kenosis adombra un aspetto negativo – Dio cede prerogative, si ridimensiona, benché a muoverlo sia l’amore per le sue creature, in particolare per gli esseri umani – l’essere rehem carica di essere, perché fa comprendere che l’onnipotente è la Vita al massimo grado.
La conseguenza di questa rivoluzione copernicana fa sì che ogni affermazione della potenza di Dio in termini di grandezza suoni distonica o, meglio ancora, blasfema. Si pensi soltanto ai proclami dello Stato Islamico, a quella formula “Dio è grande” in netto contrasto anche con il Corano, per il quale Dio è anzitutto “il misericordioso”.
Il prossimo paragrafo schizza, nei suoi tratti essenziali, l’altra faccia della percezione misericordiosa dell’Onnipotente ai nostri giorni.
Il Dio della grandezza
La teologia del Califfato, attivo tra il 2014 e il 2017 tra l’Iraq e la Siria, segna l’altra faccia della scomparsa di Dio dalla scena del mondo, cioè l’irruzione di un’onnipotenza ad uso e consumo della politica: una torsione brutale, sulla quale conviene brevemente riflettere.
Dei 100 nomi di Dio evocati dal Corano, o dei 99 proclamabili – essendo uno noto soltanto ad Allah – lo Stato Islamico ha attuato una riduzione drastica, preferendo di gran lunga l’epiteto akbar, grande, su tutti gli altri. L’enfasi continua su questo attributo, in occasione di stragi terroristiche ed esecuzioni, quasi una sorta di mantra subito prima o subito dopo la violenza perpetrata trasmette un approccio alla complessità della persona divina limitato alla potenza nel castigo, mettendo in ombra il profilo di clemenza e di misericordia, che sono invece il cuore della teologia islamica.
Può essere rahman il Dio di uno Stato che, asserendo di fondarsi sulla fede in quel principio, fa dello sterminio, della morte e dell’odio le basi della propria politica? No di certo. La giustizia divina, presa a riferimento dall’Isis nel corso della sua breve e sanguinosa storia, non è quella nel segno dell’amore paterno verso le creature, bensì un “fare giustizia” senza pietà, come si evince con chiarezza dagli intenti del Califfato, nel numero 8 di Dabiq. Le parole riportate sono riferite ad Abū Mu’ab az-Zarqāwī (1966-2006), terrorista, primo leader e propugnatore dello Stato Islamico.
«Abbiamo una religione che ha rivelato che Dio è una bilancia e un giudice. Il suo dettato è decisivo e il suo giudizio non è un divertimento».[4]
E infatti l’Isis si è guardato bene dal proclamare un Dio anzitutto ar-rahmani rahimi, perché questo avrebbe inevitabilmente significato dar conto di atti individuali e collettivi contrari al primo insegnamento del Corano, con cui iniziano le sue sure, proclamando la misericordia di Allah. L’attributo – misericordioso – è così importante che, tra i 99 “bellissimi” termini (al-asmā’ wa al-husnā), è l’unico a diventare anche apposizione, cioè propriamente un nome, il solo nome che può prendere il posto di Dio quando lo si invoca. L’uso è talmente radicato nella pratica islamica che, ricorda il teologo Hans Küng[5], c’erano credenti che erroneamente scambiavano “il Misericordioso” per un altro essere divino. Termine di intersezione tra le religioni monoteiste, rahman rinvia a un nucleo semantico che esprime l’amore di Dio verso le creature, a partire dalla sua forma più viscerale e intima, nella dimensione dell’utero materno.[6] Oscurare tale prerogativa di Dio impone di mettere tra parentesi lo slancio tra le creature, a partire dagli esseri umani, enti prediletti per i quali il mondo è stato creato, anche nella tradizione islamica. Vicario di Dio sulla terra[7], è proprio sulla base della misericordia divina che l’uomo può disporre del mondo e che Dio si fa difensore e tutore del genere umano. Dimenticare la preminenza della misericordia divina porta ad assumere comportamenti in contrasto con lo stile di vita più appropriato a un credente. Le virtù islamiche[8], ricordiamolo, mettono radici comuni nel principio della misericordia. Il perdono, di cui non esiste traccia nel lessico dell’Isis, che si proclama poggiare sulla più autentica fede islamica, spicca da protagonista nella rosa virtuosa che prevede devozione, riconoscenza e fratellanza. In Corano, 16, 26:
«Il perdono è meglio che contraccambiare male al male».
Trascurare questa componente nella vita di relazione non è cosa da poco, perché significa oscurare un principio fondante della fede islamica, vale a dire la capacità di discernimento, presupposto dell’agire morale (Corano, 41, 34 s):
«Che non sono cosa uguale il bene e il male, ma tu respingi il male con un bene più grande e vedrai allora che colui che era a te nemico, ti sarà caldo amico. E tal grado non potranno raggiungere se non i costanti pazienti (…) che i favoriti del favore supremo».
Presupposto del perdono, cioè dell’agire misericordioso da parte dell’uomo, è riconoscere le proprie fragilità: una presa d’atto che assume piena valenza metafisica, teologia e antropologica specialmente alla luce del confronto, impari, tra la finitezza della condizione creata e Dio. È pur vero che della misericordia di Dio non si può dare alcuna giustificazione, a maggior ragione per Allah, di cui non si può in alcun modo afferrare l’essenza, non essendovi tra Dio e l’uomo nemmeno quel rapporto analogico che invece è asserito nella fede cristiana (la persona è “a immagine e somiglianza”). Ma sul piano dell’esperienza – per gli islamici è materia di rivelazione – la misericordia divina possiede il massimo grado di priorità tra le attribuzioni. Perché, dunque, l’Isis non ha proclamato la misericordia e la clemenza, né tanto meno la pratica? Chiaro sintomo di una riduzione della dottrina ai propri scopi di annientamento, nel nome di un Dio potentemente mistificato, mettere tra parentesi il dovere della misericordia nelle relazioni umane verso “gli altri”, avalla il presupposto di non sentirsi in alcun modo tenuti alla concordia. Ma un’altra conseguenza è sottesa alla rimozione della misericordia e consiste nel voler dare un volto a Dio, proprio quel Dio che non può essere in alcun modo conosciuto nella sua essenza.
A parole, e nei fatti, contrario a tutte le forme di adorazione che non siano la proclamazione dell’unicità divina, l’Isis ha fatto dell’Onnipotente una sorta di feticcio a proprio uso e consumo. L’oscuramento della misericordia produce questo esito perché soltanto essa costituisce, nella sua insondabilità e imponderabilità, un attributo divino. Non lo sono la forza e la grandezza, sempre assoggettate a un parametro di riferimento, ma neppure la giustizia, misurata in relazione a norme. La visione dell’Islam come una religione di «bilancia e spada», propagandata dallo Stato Islamico, oltre ad esprimere una riduzione della complessità della fede, ne configura un’immagine dai contorni netti, tracciando contestualmente un profilo di Dio necessariamente parziale. Eccezion fatta per la misericordia, ogni nome con cui si cerca di designarlo, riconduce Allah alla finitezza dell’esperienza umana. Lo aveva compreso al–Bukhārī, il compilatore della più autorevole raccolta di detti e fatti relativi alla vita del profeta, secondo il quale il vero Islām è:
«nutrire gli affamati e presentare il saluto della pace, tanto a coloro che si conoscono, quanto a coloro che non si conoscono».[9]
Non facile buonismo, da contrapporre come la tessera di un puzzle alle violenze sconsiderate dell’Isis, ma onesto esito della lettura dell’incipit dei capitoli del Corano, laddove si proclama la misericordia di Dio. Se la misericordia diventa il punto di partenza, nella pur limitatissima capacità di comprensione di Dio, allora non può che darsi una religione in cui la condotta si orienti alla concordia interpersonale. Allora, ecco che il miglior Islām è quello del quale non bisogna temere né la mano né la spada. Esattamente agli antipodi di quanto il redattore di Dabiq si è sforzato di argomentare, evocando «la bilancia e la spada». La costante esaltazione della potenza divina a scapito della misericordia è una traccia blasfema dell’Isis, nella prospettiva della fede islamica, perché esprime la pretesa dello Stato Islamico di mediare tra Dio e gli uomini, facendosi portavoce di Allah.
Presentati a grandi linee i due approcci contemporanei all’idea del Dio personale, è ora di compiere un passo ulteriore per capire come mai si sia rarefatto l’appello all’Onnipotente in questa fase globale così sventurata. Interrogarsi sul ruolo di Dio significa chiamarlo in causa nelle vicende della storia, evocarlo e giudicarlo. Non stupisce, quindi, che il discorso sull’Onnipotente – cioè sul Dio unico delle grandi religioni monoteiste – si sia presentato come una chiamata a processo, con accusatori e difensori. Nel corso del Novecento c’è un punto di svolta riguardo a questo atteggiamento. A segnarlo è Etty Hillesum, pensatrice olandese che visse nel pieno dello sterminio nazista e ne fu testimone e vittima (1913-1943), le cui riflessioni appaiono oggi più che mai illuminanti per inquadrare il rapporto rarefatto con Dio.
La domanda su Dio: una ricerca di giustizia
Dalla Teodicea di Leibniz nel XVIII secolo, agli scritti della pensatrice olandese Etty Hillesum, è sempre stata la questione della giustizia a fare problema ogni qual volta si è interrogato Dio a fronte dell’esplosione di fenomeni del male (terremoti, guerre, genocidi). Scrive Hillesum:
«Come potrò descrivere tutto ciò? E far sentire quanto la vita sia bella e degna di esser vissuta e giusta, sì proprio giusta?».[10]
Che cosa può esserci di giusto nelle persecuzioni gratuite contro un popolo, l’escalation di violenza e terrore nei confronti di persone innocenti? La domanda, ripetutamente formulata dalla filosofia e dalla teologia post-Olocausto[11], è più che mai pertinente. La giustizia a cui fa riferimento Etty non sembra essere di tipo retributivo, né un concetto astratto di impronta giuridica, anche se l’intellettuale aveva conseguito una laurea in legge. Del resto, la Hillesum per prima dichiara la difficoltà di esprimere quanto in lei, come sempre, era chiarissimo. Quello che fa Etty è un processo: chiama a giudizio il primo Essere, Dio onnipotente e Creatore. Si fa pubblico ministero e avvocato difensore, portando alla luce i disastri del male e giunge alla conclusione che Dio non ha niente a che vedere con le persecuzioni, le morti di tanti innocenti, le difficoltà incontrate dalla sua gente, le deportazioni dal campo di smistamento di Westerbork.
Stupisce questa lucida presa di posizione di fronte al divino personale, da parte della giovane donna, resa impavida dal dialogo ormai fitto, continuo con il Padre Eterno. Più che alla mistica, il confronto serrato con Dio assume in Hillesum il carattere di una spasmodica teodicea. E sorprende, ancor di più, perché arriva dal cuore dell’Olocausto. Etty, per capirci, non è una sopravvissuta che si pone la domanda: «dov’era Dio quando nei forni crematori bruciavano gli ebrei?». Lei sta dentro, accanto ai morituri, destinata alla morte ella stessa, come abbiamo visto, avendo piena coscienza di quanto stava accadendo.
Nel linguaggio della filosofia, ancor di più in quello della fenomenologia, questo atteggiamento di adesione critica al vissuto si riferisce alla conoscenza diretta o allo stare dentro negli eventi. Ma proprio perché quella di Etty è una teodicea, come lo sarà – dopo Auschwitz – quella di altri pensatori, che giungeranno a concludere la debolezza di Dio, è utile contestualizzare la sua riflessione alla luce della Teodicea per eccellenza, quella di Leibniz. Anche la celebre difesa di Dio tematizzata dal filosofo tedesco del XVIII secolo nasce dal problema del male e conduce a discolpare Dio, riconducendo la responsabilità di tutto all’uomo.
Etty va persino oltre. Arriva a voler aiutare Dio per contenere l’odio degli uomini, fonte della tragedia del totalitarismo. È interessante osservare che lo sforzo dell’intellettuale ebrea, teso alla giustificazione dell’Eterno, si inserisce nella dottrina post-Auschwitz elaborata da alcuni teologi ebrei[12].
Queste pagine ci porteranno a capire meglio perché il bene è radicale, mentre il male resta un accidente, per quanto possa risultare sconvolgente.
La scoperta di Dio, nell’anno e mezzo che ha cambiato la vita di Etty Hillesum, avviene per gradi e procede parallela alla consapevolezza di sé. Quanto più si affina la capacità della giovane donna di guardare alla propria interiorità, si verifica – in parallelo – l’acuta visione delle cose del mondo e la consuetudine amichevole con l’Essere eterno, il Dio della Bibbia. Ebrea non praticante, è grazie all’analistaS pier che Etty avvicina il Nuovo Testamento, San Paolo e Sant’Agostino: il suo Dio è amore e misericordia, non il Dio degli eserciti, non l’Onnipotente. Prevale nell’Essere divino, al contrario, una debolezza disarmante difronte al male, all’odio e all’ingiustizia.
Una condizione che ingrandisce, se possibile, la miseria della condizione umana perché fa delle persone non soltanto creature, ma soggetti capaci di due estremi: aiutanti di Dio stesso contro le brutture del mondo, attraverso l’amore, il rispetto e il perdono; antagonisti di Dio, quando operano il male.
«Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi».[13]
È da queste parole, scritte nel luglio 1942, che può iniziare anche il dialogo tra Etty e Leibniz sul perché, essendo Dio sommo bene, possa essere permesso il male, in particolare il male agito dagli uomini. Entrambi si fanno avvocati dell’Eterno: mentre il filosofo tedesco parte dalla perfezione di Dio, Etty ne mostra la fragilità, somma, in quanto sommo è il grado di amore verso le sue creature. Il male, per Leibniz, nella prospettiva di Dio, è sempre qualcosa che ha a che fare con il bene, sulla base di quella che il filosofo tedesco indica come «la regola del meglio, che non soffre di nessuna eccezione o dispensa» (Teodicea[14], I, 25). Precisamente, la volontà divina antecedente sceglie il bene, mentre quella conseguente opta per il meglio. Esito del volere di Dio, in definitiva, è sempre il bene come fine. Come si pone, allora, la sofferenza procurata da una malattia o la spietatezza dei dittatori verso gli innocenti?
“La ragazza che non sapeva inginocchiarsi”, così Etty si definisce nel suo Diario, riconoscendo la propria incapacità di misurarsi intimamente – faccia a faccia – con Dio. Così si sarebbe intitolato anche un suo scritto, un racconto, un saggio autobiografico, se la vita glielo avesse permesso. Sta di fatto che l’intellettuale olandese, quasi senza rendersene conto, si trova un giorno in ginocchio: non nell’ovattata atmosfera di una chiesa o di una sinagoga, ma in bagno, la mattina, mentre si prepara alla toilette. La naturalezza spiazzante di quella scena si integra perfettamente con l’apertura di Etty al mondo. Semplice e naturale. La Hillesum è questo, anche quando parla di/con Dio. Ecco che l’11 luglio 1942, alle undici di mattina, inizia proprio così le pagine del Diario dedicate alla sua personalissima teodicea:
«Si dovrebbe parlare delle questioni più gravi e importanti di questa vita solo quando le parole ci vengono semplici e naturali come l’acqua che sgorga da una sorgente».
Mentre scrive queste parole la coscienza dello sterminio degli ebrei è vivissima, in Etty e nella società che frequenta, insieme con la percezione di trovarsi di fronte a un’azione distruttiva che va anche al di là dell’odio verso gli ebrei («Su tutta la superficie terrestre si sta estendendo piano piano un unico, grande campo di prigionia e non ci sarà quasi più nessuno che potrà rimanerne fuori»). Colpisce la lucidità della descrizione, che fa pensare a come l’Olocausto in atto dovesse essere ben noto in Europa, anche nella prima fase della cosiddetta “Soluzione finale”.
Colpisce, soprattutto, che Hillesum – a differenza di Leibniz – trovandosi di fronte ad una forma estrema di male, non abbia subito puntato il dito contro Dio, ma si sia interrogata sul ruolo dell’uomo:
«è per responsabilità nostra?»
Mette anche sé stessa sul banco degli imputati: come sempre Etty non chiede sconti. Lavora anche di fantasia, pensa a quando le arriverà il foglio di deportazione, medita inizialmente di non dirlo a nessuno, di camminare in silenzio, di preparare il suo zaino. Nella quiete di un sentimento interiore forgiato dalla sofferenza – come si è visto nei precedenti capitoli – Hillesum conclude di non sentirsi «nelle grinfie di nessuno», deportata o meno.
«mi sento soltanto nelle braccia di Dio per dirla con enfasi (…) nelle braccia di Dio credo che mi sentirò sempre».
L’intimità con il Padre eterno, espressa con parole semplici e naturali, nello stile di Etty conduce a riflessioni metafisiche sulla posizione di Dio nei riguardi del male degli uomini:
«Mio Dio, sono tempi angosciosi (…) Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani (…) Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini».[15]
Ecco, al culmine di questa “Preghiera della domenica mattina”, come l’ha chiamata Etty, la risposta implicita alla domanda posta sopra, sulla responsabilità del genere umano nel male del mondo:
«Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi».[16]
Il male è privato così della sua inspiegabile e incomprensibile dimensione divina (Dio lo permette) e soprattutto derubricato dal livello di “sostanza”, di qualcosa di esistente per sé stesso, indipendentemente da tutto e quindi di allignare (il male radicale). Non possiamo davvero non riconoscere la capacità della Hillesum di prendere posizione contro il pensiero dominante ai suoi tempi, che porterà – alla fine del regime nazista – alla domanda: dov’era Dio quando gli ebrei bruciavano ad Auschwitz? Ma se Dio, a giudizio di Etty, non ha parte alcuna nello sterminio e nell’esercizio cosciente e responsabile dell’odio umano, allora si apre la questione: dov’è l’onnipotenza divina? Ci troviamo di fronte a un’assoluzione dell’Essere eterno, da un lato, e al suo ridimensionamento, dall’altro? Dio è ancora Dio?
«E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi».[17]
Pur rifuggendo dal linguaggio professionale della filosofia, Etty Hillesum consegna un argomento decisivo alla teologia, attraverso il piano fenomenologico. Vediamo di comprendere, allora, perché Etty salva Dio e, insieme, anche l’uomo. Dio è un’esperienza interiore. Nulla, di questo mondo, sarà in grado di dare la prova decisiva dell’esistenza, della bontà, dell’onnipotenza di Dio come può farlo l’interiorità personale, nel suo volgersi alla relazione con la Persona trascendente. La fede, in Etty, è stata il guadagno di un esercizio di attenzione interiore: non dimentichiamolo. La giovane olandese ha trovato Dio quando ha scavato dentro sé stessa: per prima lei lo ha “disseppellito” dalla costipazione spirituale che lo metteva in ombra. Allora: se possiamo “sentire” questo Altro in noi, se possiamo entrare in dialogo con Lui, è evidente che Dio si fa piccolo, si mette al nostro stesso livello, cerca il modo di comunicare con noi. Chi agisce così, se non Qualcuno che ci vuole, ci desidera fino al punto di abbassarsi, farsi conoscere? Non può essere altro che un Essere amante.
A rendere grande l’uomo, aprendo spiragli di ottimismo sulla possibilità dell’esercizio del bene contro ogni possibile odio, non è tanto il fatto di avere in sé Dio. Etty nota che spessissimo ci si dimentica di questa Presenza. Il vero punto di forza delle persone sta nell’essere amate da Dio: cosa mai dovrebbe indurre l’Eterno, Onnisciente, Incommensurabile Essere personale ad aprire un canale di contatto con gli uomini, se non un sentimento altrettanto eterno, capace di intuizione immediata dell’altro, soprattutto incommensurabile, come l’amore? È interessante, a questo punto, notare analogie e differenze tra la visione di Etty e quella del filosofo Max Scheler (1874-1928). Celebre al suo tempo, ammirato da Edith Stein, fenomenologo sui generis, decisivo nella formazione filosofica di Karol Wojtyla, Scheler aveva teorizzato in L’eterno nell’uomo l’intuizione che la persona ha di Dio, grazie al fatto di essere persona, un centro attivo di volontà, sentimento, intelligenza. Proprio questi “ingredienti” portano a trascendere i propri limiti e a riconoscere, con l’intuizione, la Persona di Dio. Se in Scheler questa illuminazione ha un tratto eminentemente intellettuale, è il frutto di un ragionamento antropologico, in Etty avviene naturalmente con la scoperta di sé. La scoperta o la riscoperta di Dio, quindi, per Hillesum non si limita a un guadagno intellettuale, dal quale far poi discendere una serie di fruttuosi corollari, quanto piuttosto una consolazione, un argomento di forza interiore e, nel contempo, anche di ottimismo antropologico.
«Comincio a sentirmi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi. Con me vivrai tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò via dal mio territorio».[18]
A questo punto, una domanda si impone. Che cosa ci dà il diritto di aiutare Dio? Se non vogliamo leggere questo atteggiamento come frutto di arroganza, follia, atteggiamento derivato da un Ego smisurato – opzioni che non si possono minimamente riferire a Hillesum – come possiamo spiegarlo? Due sono le opzioni: da un lato si ridimensiona la potenza di Dio, lo si svuota di una delle principali prerogative divine e, di conseguenza lo si snatura; dall’altro si assegna anche all’uomo la possibilità di sperimentarsi divino, nella pienezza delle proprie facoltà. In questo caso, potremmo dire, la creatura ritrova un grado indiscusso di familiarità con il Creatore e, proprio sulla base di questa connaturalità con il divino personale, può aprire un dialogo con il Padre e soprattutto può compartecipare alla sua opera. Mi sembra questa l’intuizione di Etty, che consegna al suo Diario il 17 settembre 1942:
«(…) la parte più profonda e ricca di me in cui riposo, io la chiamo “Dio” (…) E quando dico che ascolto dentro, in realtà è Dio che ascolta dentro di me. La parte più essenziale e profonda dell’altro. Dio a Dio».[19]
Si capisce, allora, perché Etty neghi la responsabilità di Dio nella tragedia del totalitarismo e la restituisca in pieno agli uomini, insieme con la possibilità di ribaltare la situazione aiutando Dio. Come ciò si realizzi, la giovane donna olandese lo ha colto in via esperienziale: significa dare pienamente spazio al positivo della condizione umana, all’esperienza del bene. Non tanto in senso astratto, mediante il pensiero filosofico o la religione, percorsi che comunque rispetta e dai quali trae alimento spirituale. La grandiosa riserva di bene, lo ha compreso a partire dall’urto della sofferenza, è in ciò che è dato, nelle cose, nell’interazione con gli altri esseri viventi. Siamo di fronte a una conoscenza che cambia nel profondo la tessitura della vita umana, imponendo anche una ri-definizione del male radicale, com’era stato consegnato al pensiero moderno. Prima di giungere alle conclusioni, ragionando su che cosa sia la profondità del bene, nella prospettiva di Etty Hillesum, dobbiamo fare ritorno a Hannah Arendt, la cui opera affronta il punto più alto che il male ha toccato nel corso del Novecento. Cerchiamo di capire, sia pure in forma succinta e inevitabilmente lacunosa, perché il paradigma del male radicale non regga alla prova dell’esperienza di Etty, giustificando una visione della vita che è buona e degna di essere vissuta, anche nelle condizioni più estreme.
Riaprire la domanda: la svolta della creaturalità
Vediamo, a questo punto, di tirare le fila del ragionamento fin qui svolto. Siamo partiti da una constatazione: nei tempi che stiamo vivendo, costellati di male, tra pandemia, disastri ambientali, conflitti, morte di migliaia di migranti, tendiamo a non porci il problema del “perché” Dio permetta questo, ma neppure sentiamo il bisogno di interpellarlo per sentirlo più vicino, in un abbozzo di dialogo. È un fatto. Più che attribuirne la ragione alla progressiva erosione dell’idea stessa di Dio dalla cultura onlife – tra reale e digitale – che caratterizza il nostro presente, intessuta di relativismo, ateismo, pandemia spirituale, de-ideologizzazione, si è cercato di capire quale percezione di Dio abiti il sentire contemporaneo. Sono stati così individuati due macro filoni:
* da una parte emerge la detrazione degli attributi divini correlati all’onnipotenza, per portare il focus sull’intensità dell’amore-misericordia. In tale linea si incanalano due orientamenti, quello della kenosis paolina, o svuotamento divino, culminato nella morte in croce di Gesù Cristo, il mistero dell’incarnazione, morte e risurrezione al cuore del Cristianesimo.
* Dall’altra parte si assiste allo sbandieramento della potenza divina usurpata, in modo blasfemo, da suoi presunti vicari: s’è discusso il caso recente dell’Isis, ma si potrebbe ampliare e aggiornare il discorso all’aggressione perpetrata dalla Russia ai danni dell’Ucraina, implicata a doppio filo con l’ideologia del Ruskiy Mir, quel “mondo russo” che fa della fede cristiana ortodossa un vessillo anti-modernista e anti Occidentale.
Nessuno di questi due approcci, a ben considerare, basta in sé per spiegare la scomparsa della domanda su Dio. La via della misericordia possiede un carattere inclusivo, avvicina uomini di fedi diverse o non credenti, nel dare valore alla dimensione emotiva della persona. L’amore, l’accudimento, la tenerezza sono tratti del nostro divino quotidiano, ci portano a fare esperienza del trascendente in gesti caldi e rispettosi. La via della potenza porta sempre al conflitto: è divisiva, impositiva, non negoziabile. Chi crede la trova distonica; chi non crede si allontana ancora di più dall’incontro, eventuale, con il Dio-persona.
Tuttavia, i due piani condividono un fattore comune.
Portano l’uomo al centro. Nella misericordia Dio si spoglia di tutto per le sue creature, che in tal modo occupano la scena da protagoniste, anche se il Protagonista è un altro, proprio in virtù del proprio rimpicciolimento e della propria incommensurabile umiltà; nel piegare Dio a proprio uso e consumo, per esercitare un potere su altri, ancora una volta a scomparire è l’Onnipotente. Perché la sua potenza, incommensurabile, può essere misurata da un essere finito, limitato, im-potente, come l’uomo, esclusivamente nell’intensità del cuore, cioè sul piano dell’amore.
Etty Hillesum aveva capito, in modo esperienziale e al culmine dell’Olocausto, che la domanda su Dio è di per sé sbagliata, perché ha sempre il tenore di un giudizio su Dio. Essa affiora quando le cose vanno malissimo, quando la vita ci urta, ci mette in ginocchio, mentre dovrebbe abitare sempre il cuore dell’uomo, per la condivisione della qualità divina in esseri capaci di amare e alimentare la vita.
La pensatrice olandese ci ha insegnato che nei momenti bui della vita siamo noi a doverci interrogare. Che, riferito all’oggi, significa chiedersi, ad esempio: dov’è l’umanità mentre il pianeta brucia a causa della CO2? O nelle stragi contro i civili inermi in Ucraina? L’assenza di Dio non è il vuoto, ma il pieno di attenzione del Creatore verso la sua creatura. Siamo lasciati liberi, su una scena in cui siamo – all’apparenza gli attori principali -: soltanto nel domandare conto, a noi stessi, dell’uso della libertà – attributo divino – Dio è ritrovato.
In fondo, nell’interesse crescente delle giovani generazioni alla salute del pianeta si rileva un primo, importante passo anche verso il rilancio della trascendenza – non siamo soltanto per noi, ma sempre per qualcun Altro.
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Etty Hillesum non ha soltanto difeso Dio dall’accusa di non intervenire nelle sofferenze del genere umano, in particolare nel genocidio del suo popolo prediletto, ma ha introdotto un nuovo elemento di confronto. Ha infatti ammesso che bisogna aiutare Dio nelle fasi oscure della storia. Quella che all’apparenza suona come una boutade o una formula emotiva, di intenso valore poetico ma nessuna valenza teologica, si rivela in realtà molto in sintonia con le riflessioni di papa Francesco consegnate all’enciclica “Fratelli tutti”. In che senso? Alla base di un’azione “divina” – essere di supporto all’Essere supremo – deve esserci il presupposto di una connaturalità: si può aiutare l’Onnipotente perché si possiede lo stesso afflato divino, perché si è, in qualche misura divini. L’intuizione di Hillesum, ebrea non praticante all’inizio del suo percorso di discernimento, consegnato alle Lettere e al Diario[20], poi sempre più intensamente vicina alle Scritture, specialmente ai Vangeli e agli scritti paolini, sta al centro della rivelazione. L’uomo è certamente un essere divino, se – come proclamano i testi rivelati – è una creatura, cioè se gli esseri umani partecipano, da figli, alla natura del Dio Creatore. Molti decenni più tardi, nel 2020, papa Francesco ha dedicato alla fraternità la sua enciclica Fratelli tutti. Una condizione che si giustifica sia sul piano antropologico – far parte della stessa famiglia umana – sia su quello spirituale/teologico, in quanto fratelli in Dio.
«Le diverse religioni, a partire dal riconoscimento del valore di ogni persona come creatura chiamata ad essere figlio o figlia di Dio, offrono un prezioso apporto per la costruzione della fraternità e per la difesa della giustizia nella società» (§ 271, VIII Capitolo).
Nella prospettiva della fraternità la domanda “Dov’era Dio quando il male ci flagellava?” non ha senso, a meno che non si allarghi all’umanità e la si riformuli come una chiamata alla responsabilità fraterna. Questa prospettiva è l’unica per riportare Dio al centro della scena, rendendo davvero “persona” anche la sua misericordia e riconducendone potenza/grandezza all’amore di Padre verso le creature. Quindi, in conclusione, se Dio non fa problema come nella tradizionale modalità della Teodicea – l’Onnipotente a processo – è forse perché si apre una fase nuova nel rapporto con il Creatore. Una fase che, è bene ricordarlo, ha già conosciuto in ambito filosofico una fase di enorme valore, con le riflessioni del metafisico Gustavo Bontadini, il maestro di Emanuele Severino (1903-1990), in particolare quelle consegnate, circa 60 anni fa, a Per una teoria del fondamento, il lucido manifesto a fondamento della creaturalità, con il solo strumento del pensiero[21].
[1] A Maria Piccoli, Madre Canossiana e guida spirituale.
[2] N. Scopellini, F. Taffarel, «Lo stupore di Dio». Vita di Papa Luciani, Milano, Ares, 2019.
[3] http://www.cultura.va/content/cultura/it/organico/cardinale-presidente/texts/famiglia-cristiana-articoli0/la-kenosis-di-cristo.pdf
[4] In Dabiq, 8, 2015, pag. 3. «We have religion that Allah revealed to be a scale and a judge. Its statement is decisive and its judgment is not amusement».
[5] Egli sostiene che l’attributo “misericordioso” è l’unica bussola efficace per la conciliazione tra i credenti delle diverse fedi monoteiste, ma pure per una stabile concordia su scala globale. «Se vogliamo realizzare la convivenza dei musulmani con gli ebrei e i cristiani è oggi particolarmente importante ricordare che anche nell’Islam è Dio stesso il difensore dell’umanità, nella dimensione umana autentica (…) ogni appello (…) preceduto ‘nel nome di Dio clemente e misericordioso». H. Küng, L’Islam. Passato, presente e futuro, Milano, Rizzoli, 2005
[6] G. Ravasi, La misericordia, Bologna, EDB, 2015.
[7] C. Baffioni, Filosofia e religione in Islam, Firenze, La Nuova Italia Scientifica, 1997, pag. 157.
[8] H. Küng, L’Islam, op. cit., pag. 191.
[9] C. Baffioni, Filosofia e religione nell’Islām, pag. 157. C. Baffioni, Filosofia e religione nell’Islām, pag. 157. C. Baffioni, Filosofia e religione nell’Islām, pag. 157.
[10] Diario, 22 settembre 1942, pag. 208.
[11] Sul senso teologico dell’Olocausto, nel pensiero ebraico contemporaneo, si veda: R. Rubenstein, “Evil, Suffering and the Holocaust”, in M. Morgan e P. Gordon (editori), Cambridge Companion to Modern Jewish Philosophy, Cambridge, Cambridge University Press, 2007.
[12] «Much of the post-Holocaust theology subsequent to After Auschwitz relates in some way to its radical thesis that the Holocaust can only make sense if we erase the covenant theology of traditional Judaism and reconfigure our understanding of God and human power». S. Magid, “The Holocaust as Inverted Miracle: Shalom Noah Barzofsky of Slonim on the Divine Nature of Radical Evil”, in Spiritual Authority (2009), pag. 35.
[13] Diario, op. cit. pag. 169.
[14] W. Leibniz, Saggi di Teodicea. Sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male, introduzione di Gianfranco Cantelli, Milano, Rizzoli, 1993.
[15] Ivi, pag. 169.
[16] Ibidem.
[17] Ibidem.
[18] Diario, pag. 170.
[19] Ivi, pag. 201.
[20] E. Hillesum, Diario 1941-1943, Milano, Adelphi, 1985; Lettere. Edizione integrale, Milano, Adelphi, 2013.
[21] Mi piace citare le parole di Marco Berlanda, da “Giù le mani da Bontadini, il vero anti-Heidegger”, Vita e Pensiero, agosto 2022, pag. 117: «Soprattutto, sul piano teoretico, egli non ricorre a formule allusive o poetiche per descrivere l’essere, ma si avvale della ragione concettuale e della dimostrazione dialettica; e ammette che il divenire, il tempo e la finitezza sono caratteristiche essenziali dell’esserci (la persona in primis, nda) ma sostiene che tali realtà rinviano all’altro da sé, in ragione della loro problematicità, anzi della loro contraddittorietà, che viceversa Heidegger ignora (…) Per una teoria del fondamento (1973) rappresenta il culmine della riflessione di Bontadini e il suo testamento spirituale. A distanza di mezzo secolo questo saggio mantiene intatto il suo valore. In particolare, colpisce l’inaudita audacia con la quale, in esso, il pensiero dimostrativo nutrito di evidenza empirica riesca ad elevarsi sino ad accertare la creaturalità del mondo».