di Andrea Borghini
Nel 1992 il politologo nippo-americano Francis Fukuyama dà alle stampe un testo che suscita un vivace dibattito, ben oltre la comunità accademica: The End of History and the Last Man (La Fine della Storia e l’ultimo Uomo)[1]. Nel testo si ipotizza che il crollo del muro di Berlino e quindi dell’URSS coincida con la fine della Storia per come l’abbiamo conosciuta, come processo unidirezionale, e che il capitalismo e la democrazia non abbiano davanti a sé più ostacoli in grado di fermare la loro espansione verso l’intero mondo conosciuto. Ben presto non vi sarà più nulla da scoprire, non vi sarà più una frontiera oltre la quale poter affermare hic sunt leones.
Al di là del contenuto del volume, che, dicevamo, ha sollevato un’ampia eco e la cui portata, a distanza di anni, lo stesso Fukuyama ha ridimensionato, quello che qui interessa precisare è il significato storico e filosofico del testo, già a partire dal titolo. Parlare infatti di ‘fine della storia’ presuppone la fine di una dimensione temporale progressiva (diacronica) e la sua sostituzione con una visione sincronica degli eventi. È probabile che questo volume abbia contribuito, con altre esperienze, a riproporre il dibattito sul Tempo, sulla Storia e dunque sulla Memoria.
In questo nostro lavoro vorremmo proporre alcune brevi riflessioni sui rischi legati all’eclissi della memoria che la fine della storia porta con sé.
Tra i contributi al dibattito figura certamente l’idea di ‘presentismo’, neologismo dal sound poco gradevole, coniato dallo storico francese Hartog[2], che sta ad indicare la difficoltà, nella quale ci troviamo a vivere, a pensare il tempo in una dimensione diversa dal presente, e quindi un tempo senza memoria e senza proiezione nel futuro. Se si guarda alle statistiche, sembrano particolarmente afflitte da questo male le giovani generazioni, vittime di un ‘sistema’ che ha tolto loro ogni possibilità progettuale e speranza e che ha rimpicciolito la dimensione biografica, come sottolinea un grande sociologo recentemente scomparso, Zygmunt Bauman, all’istante, e lo spazio al punto. Il sociologo polacco, che aveva uno stile oratorio e di scrittura molto eclettico e ricco di riferimenti letterari – e che si poteva permettere citazioni e voli pindarici, proprio perché aveva una solida preparazione storica e una memoria altrettanto salda – ribadiva come l’epoca che stiamo attraversando – la celebre ‘modernità liquida’, quindi ancora una volta volutamente incapace di trattenere i ricordi e di serbare memoria – si caratterizza per la ricerca ossessiva, declinata al presente, di una vita felice, una life politics, nella quale anziché orientarsi a costruire un domani migliore, ci si orienta “…alla febbrile ricerca di un oggi diverso. Una caccia che non ha mai fine, che dura quanto il succedersi dei giorni che implorano di essere resi diversi”[3]. D’altra parte è lo stesso autore che, a chiosa di questa sua riflessione, riprende un verso del Faust di Goethe “Fermati attimo, sei bello!” ad indicare evidentemente la concentrazione ossessiva sull’istante e sul tempo, al di là di ogni processualità storica.
Altro aspetto in linea con questa pervicace damnatio memoriae è la diffusione di un nozionismo il cui emblema è Wikipedia: attraverso l’enciclopedia virtuale si perde di vista in qualche modo – e quindi non vi è bisogno di mantenerne la memoria – il contesto entro il quale un personaggio storico, un evento, un processo, una citazione sono stati prodotti e hanno acquisito, diremmo con Weber, ‘senso’, e si estrapolano liberamente tali nozioni, le quali si accumulano disordinatamente senza più un filo conduttore.
Con questo non intendiamo arruolarci nelle fila dei ‘passatisti’ o dei nostalgici, i quali sostengono che l’epoca di Internet sia un’epoca di regressione culturale e di stupidità dilagante. E non intendiamo farlo proprio in base al fatto che la memoria storica ci aiuta ad individuare nel corso delle vicende umane una fase per certi versi analoga. Ci riferiamo a Platone che nel Fedro criticava l’introduzione della scrittura come tradimento dell’oralità e come inizio della fine della memoria. Questo illustre precedente storico ci aiuta a sostenere che l’avvento dei social non può essere liquidata come un’era che coincide con la fine della Storia come fil rouge in grado di costruire la nostra identità individuale e collettiva. Ma è altrettanto vero che i segnali sono poco incoraggianti se pensiamo ad un ultimo aspetto che ci preme mettere in evidenza. Ci riferiamo al fatto che oggi la tendenza diffusa a confutare ogni filosofia della storia, dietro la quale si sarebbe annidato l’Occidente sterminatore e colonialista, è il presupposto di un processo sempre più ampio, e considerato politically correct, di dare voce agli ultimi, a coloro che la Storia ha consegnato alla categoria dei vinti o degli invisibili, di dare il via ad una ‘rivolta degli iloti’ attraverso la quale consentire a culture altre di emergere, culture storicamente ritenute subalterne, e che oggi hanno la possibilità di esprimere il proprio punto di vista in un mondo divenuto globale. Se indubbiamente tale tendenza è condivisibile e auspicabile, nella misura in cui è riconducibile a delle precise ragioni storiche – la colonizzazione materiale e quella dell’immaginario[4], guidate nel tempo dalle Western Societies –, è altrettanto vero che essa sta producendo anche degli effetti perversi, che sono invece il prodotto dell’annichilimento del senso storico, della cancellazione della memoria, e che coincidono, tra le altre cose, con l’iconoclastia crescente, la quale a sua volta rappresenta uno dei modi per mettere noi occidentali di fronte alle nostre responsabilità storiche. Pensiamo a tutte quelle manifestazioni di cui ci danno notizia i quotidiani in cui la rimozione delle colpe passa attraverso la rimozione materiale dei simboli fisici – statue, palazzi, ritratti – ritenute emblemi di tali colpe: dagli Stati Uniti, con le rimozioni delle effigi che riproducono le fattezze del colonizzatore Colombo, allo Stato indiano dell’Uttar Pradesh che ha eliminato dalle guide ai siti turistici il Taj Mahal perché edificato da un musulmano e non da un indù.
Il rischio di queste pratiche crescenti è che la memoria storica, l’unica in grado, insieme alla ragionevolezza e all’onestà intellettuale, di dare senso e orientamento all’uomo, al di là di razza, genere, etnia o nazione, finisca per essere l’unica vittima di una guerra che non avrà vincitori.
Bibliografia
- Bauman, La Società sotto assedio, Laterza, Roma-Bari 2002.
- Fukuyama, La Fine della Storia e l’ultimo Uomo, Rizzoli, Milano 1992.
- Hertog, Regimi di storicità. Presentismo e esperienze del tempo, Sellerio, Palermo 2007.
- Latouche, Decolonizzare l’immaginario, EMI, Bologna 2002.
[1] F. Fukuyama, La Fine della Storia e l’ultimo Uomo, Rizzoli, Milano 1992.
[2] F. Hertog, Regimi di storicità. Presentismo e esperienze del tempo, Sellerio, Palermo 2007.
[3] Z. Bauman, La Società sotto assedio, Laterza, Roma-Bari 2002, p. XXX.
[4] S. Latouche, Decolonizzare l’immaginario, EMI, Bologna 2002.