di Marzio Rifiuti
“L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”, recita il primo comma del primo articolo della nostra Costituzione: il lavoro è elemento fondante dunque, intimamente connesso con l’economia, la società, la storia e imprescindibile da queste.
Negli ultimi settant’anni la società è profondamente cambiata. Dalla nazione prevalentemente agricola del Primo Dopoguerra, l’Italia è diventata una nazione industriale ed è nato, nel 1970, lo “Statuto dei lavoratori”, la cornice giuridica al lavoro “in fabbrica” che, sotto molti punti di vista, rimane ancora valida.
Ma c’è bisogno di altro.
Tecnologia, globalizzazione, nuovi mercati, crisi economica, comunicazione, Social Media, diritto e molto ancora sono oggi gli elementi che determinano grandi cambiamenti nelle relazioni sociali, nelle relazioni industriali, nel lavoro.
Tramontato il lavoro in fabbrica ci stiamo avviando a ritmi incalzanti verso l’era dei servizi, dello smart, dell’alta tecnologia, dell’automazione.
Peccato che tale ventata di innovazione non si rifletta nella attuale visione del lavoro: il dibattito sul tema è ancora, purtroppo, saturo di ideologia, preconcetti ed è soprattutto comandato dal timore di accogliere le innovazioni necessarie, di abbandonare le garanzie e le sicurezze appartenenti a un lavoro che però non esiste più. Forse è solo abbandonando questo terreno di certezze che sarebbe possibile crearne di nuove, necessarie, indispensabili al nuovo mondo del lavoro.
Analizziamo alcuni dati oggettivi, come il tasso di occupazione giovanile che, secondo stime ISTAT (Rapporto annuale 2017) si attesta al 39,9% nella fascia di età tra 15 e 34 anni, con un calo rispetto al 2008 del 10,4% e solo un lieve incremento dello 0,7% per il periodo 2015-2016, mentre si attesta al 72,5% quello tra i 35 e 49 anni con un decremento 2008/2016 del 3,6% e un lieve incremento 2015/2016 dello 0,6%.
Di segno contrario, invece, l’occupazione degli over 50: l’inevitabile innalzamento dell’età pensionabile a causa dell’allungamento delle aspettative di vita, unito alla crisi economica, che comporta una difficile programmabilità della produzione, porta alla tendenza ad assumere persone già in possesso di competenze. Il risultato è l’occupazione al 58,00% con un incremento dell’11% dal 2008 al 2016 e dell’1,7% tra il 2015 e il 2016. Elemento di riflessione importante: in Italia, oggi, si preferiscono persone anziane rispetto ai giovani, nonostante l’inevitabile maggior costo retributivo e contributivo.
Altro elemento importante, e giornalmente discusso, riguarda la precarità, intendendo come tale l’occupazione a termine.
Il numero di occupati a tempo determinato rappresenta il 10,7% della popolazione degli occupati e ha subito un incremento assoluto dal 2008 del 6,1% e dell’1,8% dal 2015 al 2016, mentre gli occupati a tempo indeterminato sono calati del 6,3% nel medesimo periodo.
In controtendenza, il dato relativo all’occupazione femminile, che è passato negli ultimi 10 anni dal 47,1% al 49,2%.
Interessante notare come il lavoro stia cambiando in relazione alle qualifiche: dal 2007 il numero di operai si è ridotto di oltre 1 milione e si sono ridotti gli operai in professioni tecniche e qualificate di circa 500mila unità.
Sono cresciute invece di circa 480.000 unità le occupazioni non qualificate o in professioni esecutive nel commercio e nei servizi.
A questa breve analisi statistica del mercato del lavoro in Italia, dobbiamo aggiungere un ulteriore elemento che riguarda l’analisi dell’incidenza della tecnologia rispetto all’occupazione.
È sotto gli occhi di tutti, infatti, che la tecnologia e l’automazione costituiscano un elemento determinante nel lavoro di ognuno di noi: lo migliorano, lo velocizzano, lo rendono meno oneroso e questo incide profondamente sull’economia, sull’occupazione di oggi e, soprattutto, su quella futura. Secondo dati OCSE, circa il 10% dei posti di lavoro sono ad alto rischio di automazione.
Secondo uno studio del 2017 di “The European House – Ambrosetti”, la situazione sarebbe ancora peggiore rispetto ai dati OCSE: la ricerca portata avanti da Ambrosetti ha riguardato l’analisi della possibilità di automazione relativa a 702 professioni, e ha portato alla elaborazione di un algoritmo che determina le percentuali di sostituzione.
Dall’analisi emerge che attualmente il 14,9% degli occupati potrebbe perdere il posto di lavoro nei prossimi 15 anni.
È necessario quindi che l’Italia sia in grado di cogliere le opportunità date dall’automazione e dall’innovazione creando nuovi posti lavoro in sostituzione di quelli che verranno inevitabilmente persi, in modo da gestire il cambiamento e non subirlo.
Come uscirne?
Gli effetti della tecnologia, unita al basso ricambio generazionale, rischiano attualmente di generare una scarsità di offerta di lavoro rispetto alle competenze realmente necessarie per il mercato. Tecnologia e competenza rivoluzionano quindi il modo di lavorare.
Fenomeni come lo smartworking o altri modelli flessibili e dinamici di organizzazione del lavoro troveranno necessariamente una maggiore diffusione per effetto dei mutamenti sopra analizzati e soprattutto per effetto del cambiamento dei modelli di business delle imprese (pensiamo solo a Industria 4.0 o alla gig economy).
Tutto questo porta oggi e porterà nel prossimo futuro a mutamenti sostanziali nelle relazioni industriali, come già si nota nel crescente numero di accordi di secondo livello, soprattutto nelle aziende innovative e nelle start-up, relativi ai premi di produttività o a sistemi articolati di welfare aziendale.
L’Italia, come sostiene la ricerca Ambrosetti, dovrebbe quindi essere in grado di mettere sul tavolo politiche di incentivi, di formazione ai lavoratori nuovi e vecchi, agevolazioni per l’industria 4.0 (super ammortamento, crediti d’imposta in ricerca e sviluppo), al fine di riassorbire e creare i posti di lavoro che saranno persi con l’automazione.
Stiamo andando in questa direzione?
Forse i “Tecnici del Lavoro” pensavano che con il Jobs Act potesse interrompersi l’assurda guerra ideologica sulla flessibilità che poco o nulla ha portato o aggiunto in termini di competenze e adeguamento alle richieste di mercato e che il futuro potesse intravedersi nel progetto di Industra 4.0, attraverso gli incentivi all’innovazione.
Invece il messaggio è che il lavoro si possa creare per legge, che l’occupazione si incentivi con la rigidità del rapporto, senza tener conto dei dati empirici.
Se un cambiamento dovrà esserci, è indispensabile mettere da parte il dibattito sulla flessibilità e i contratti di lavoro e parlare invece di investimenti e di crescita: se le aziende investono e crescono, si creano posti di lavoro.
Nello stesso momento, il mercato del lavoro deve essere in grado di offrire le competenze ricercate ed è di fondamentale importanza che lo Stato investa nella formazione dei lavoratori del futuro.
L’intento dei recenti interventi legislativi, volti a rendere dignità al lavoro mediante irrigidimento delle norme, se può essere condivisibile rispetto a situazioni estreme, come la questione dei Riders o dei lavoratori di Amazon, dove la precarietà ha raggiunto soglie inaccettabili, non lo è né può esserlo nel contesto economico attuale.
Così facendo, il rischio che, con la stessa velocità con cui si creano nuove opportunità di lavoro in Italia, le imprese fuggano verso intangibili paradisi fiscali e lavoristici, è troppo elevato.
Per scongiurare tale evenienza, una soluzione potrebbe essere quella di agire su altri fronti, come, per esempio, inquadrare i nuovi lavori nella miriade di opportunità contrattuali offerte dal nostro ordinamento, quali il lavoro occasionale, il lavoro autonomo puro, il lavoro a chiamata, il lavoro ripartito, il lavoro agile, il tempo parziale orizzontale, verticale, misto, e chi più ne ha più ne metta.
Allo stesso tempo, è necessario creare campagne di corretta informazione, affinché venga valorizzato il concetto che un’economia sana, in cui vi sia equità e giustizia, comporta dei costi. Oggi vi è ricerca continua dell’acquisto in sottocosto, che, in realtà, per essere sostenuto, comporta sfruttamento, disequità e rischia di distruggere l’economia.
Nello specifico, ridurre la durata massima dei contratti a termine da 3 a 2 anni, anziché creare occupazione stabile, può nuocere all’aspetto formativo, dando meno tempo ai giovani per formarsi e acquisire le competenze lavorative specifiche, e, di contro, riduce la possibilità per le aziende di formare il capitale umano. Per di più, introducendo l’obbligo di causale dopo un anno, si spingono le imprese a sostituire i lavoratori, accorciando ulteriormente la durata delle esperienze di lavoro e aumentando il turn-over.
La questione del termine, considerata oggi elemento di precarietà, è in realtà un falso problema. Rispetto a un’economia che si evolve e involve a ritmi vertiginosi e alla necessità continua di adattare e modificare il modello di businnes, le imprese decidono di assumere o licenziare chi ha o non ha la formazione necessaria e la capacità di adattarsi velocemente al cambiamento. La tendenza delle imprese a utilizzare contratti a termine o flessibili discende infatti più dall’assenza di prospettive di crescita che dai vincoli legislativi.
Il lavoro si crea con la crescita economica, non con i vincoli giuridici, che, progettati con l’intento di assicurare stabilità, di fatto determinano una situazione ancora peggiore per i lavoratori: i datori di lavoro, infatti, aggirano la rigidità dei vincoli imposti attraverso la non assunzione di personale. E’ solo attraverso il raggiungimento di una stabilità della crescita che si favoriscono le assunzioni a tempo indeterminato, non mediante rigidità e imposizione.
La politica del lavoro di oggi dovrebbe quindi essere incentrata non sull’irrigidimento in uscita, elemento che crea un cocktail disastroso all’interno della crisi economica in cui continuiamo a navigare, ma su l’incentivazione di un sistema di adattamento del mercato del lavoro alle modifiche e all’evoluzione dell’economia.
La perdita di posti di lavoro legata all’automazione è un dato che i nostri governanti tendono a non considerare, ma non è arrestabile.
Solo attraverso incentivi alle aziende che investono (attraverso per esempio sistemi di credito d’imposta o di detassazione), flessibilità, formazione e sostegno al reddito nelle inevitabili fasi di disoccupazione, sburocratizzazione dei sistemi di assunzione e creazione di un sistema di politiche attive che coinvolga sia il settore pubblico che il settore privato delle agenzie per il lavoro, si può pensare seriamente di contrastare, o meglio di “gestire”, il cambiamento.
L’inefficacia della politica attuale è palese. Basta leggere i dati Istat e Inps di settembre 2018, dove si registra un calo dei contratti a termine non compensato da un incremento dei contratti a tempo indeterminato con la perdita di 37.000 posti di lavoro in pochi mesi di applicazione del c.d. “Decreto Dignità”(Fonte: Il Sole 24 Ore, 25/11/2018).
“L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”: se questo assunto rimane valido, coloro che governano questo Paese, non possono prescindere dall’analisi dei dati statistici e dall’andamento dell’economia, non possono non avere una visione di lungo termine: è solo mettendo da parte i fervori elettorali, l’ideologia, i preconcetti e il timore di accogliere le innovazioni necessarie, che si potrà iniziare a pensare seriamente a interventi utili al futuro del nostro lavoro.
Bibliografia:
- Mckinseil global institute – automazione: come cambia il lavoro? – centro studi assolombarda –http://www.assolombarda.it
- The Future of Employment: How susceptible are jobs to computerisation? Di C.B. Frey e M.A. Osborne – oxfordmartin.ox.ac.uk
- Atti del “ Forum The European House Ambrosetti “ Lo scenario di oggi e di domani per le strategie competitive” Cernobbio 7,8,9 Settembre 2018;
- Itala Oggi Sette – n. 255 pag. 1 29/10/2018;
- Istat – Raporto Annuale – La situazione del Paese edizione 2018;
- Istat – Raporto Annuale – La situazione del Paese edizione 2017;
- OCSE – http://www.oecd.org/employment/future-of-work/