EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Formare al cambiamento. Intervista a Gilda Esposito

intervista di Francesco Orietti

In una società sottoposta a costante cambiamento diviene sempre più importante riflettere su quel processo sociale che è l’educazione.

Con la dottoressa Gilda Esposito – docente e ricercatrice di Pedagogia Sociale del Dipartimento di Scienze della Formazione e Psicologia presso l’Università degli Studi di Firenze e parte del team di Mo.Ca. “Movimenti di Cambiamento” (spin off dell’Università degli Studi di Firenze) – abbiamo riflettuto sul tema del cambiamento e su come l’educazione, oggi, ci permetta di essere parte attiva del mondo attraverso quel processo sociale che passa anche da nuovi spazi e luoghi di apprendimento non formale.

 

– Quanto oggi l’educazione ci prepara ad essere soggetti di una società in continuo cambiamento come la nostra?

– A livello globale è in atto una grande e profonda riflessione sul futuro dell’educazione. Spesso parlare del futuro può sembrare un escamotage per non voler parlare del presente, ma l’idea è quella che nel rapporto tra educazione e società, proprio quest’ultima, ancor più nel periodo storico presente, cambi molto più velocemente dell’educazione, che dovrebbe essere lo spazio e l’insieme di strumenti che permette alle generazioni di adattare e tramandare un modello sociale e di costruzione della conoscenza. Il cambiamento tuttavia deve arrivare a essere considerato una parola chiave nella società contemporanea e nell’educazione, che, invece, non si interroga abbastanza su di esso.  Il cambiamento è un qualcosa che c’è sempre stato, le società cambiano costantemente e la nascita delle discipline sociali è legata all’interpretazione di esso. Tuttavia, in contraddizione e con un taglio rispetto al passato, questo non è mai stato così rapido e mutevole. Oggi il cambiamento è veloce, disorientante e quindi anche nella scuola – intesa come spazio preposto all’educazione nella società occidentale da almeno due secoli – si fa fatica a starne al passo. Quindi la relazione che la pedagogia sociale studia tra società ed educazione non è mai stata così complessa perché nonostante ci siano anche interventi a livello istituzionale – come la L. 107/2015 “Buona Scuola” o tutte le riforme del sistema scolastico che si sono susseguite negli ultimi anni – sembra sempre che la scuola e il corpo docente rimangano sempre qualche passo indietro rispetto ai profondi cambiamenti della società. Gli spazi più evidenti che anche a prima vista dimostrano questa tesi sono i mezzi di comunicazione, i temi di interesse dei ragazzi e il mondo del lavoro. Proprio quest’ultimo è cambiato tanto profondamente e velocemente – soprattutto dopo la “grande recessione” iniziata nel 2007 – e la scuola, che già faticava nel preparare a professioni per un mondo del lavoro stabilizzato come quello del secolo scorso, oggi si trova a dover preparare adeguatamente per professioni che ancora non esistono. La discussione è immensa e si può presentare da tanti punti di vista. C’è chi torna, addirittura, a sostenere tesi degli anni settanta come la descolarizzazione di Ivan Illich o la pedagogia critica, che miravano a mettere in discussione il potere insito nel sistema educativo stabilitosi dall’Ottocento. Ci sono esempi estremi nel Sud del mondo, in India in particolare, dove si sostiene che l’insegnante – come figura di colui che “trasmette” la conoscenza alle nuove generazioni – non sarà più necessario e questo perché ormai la conoscenza è ampiamente disponibile e fruibile in modalità open access attraverso la rete; le uniche figure necessarie saranno quelle del facilitatore o del mediatore educativo.

Credo, dunque, che sia un momento estremamente fertile per guardarsi intorno e per capire cosa sta cambiando e soprattutto cosa non sta cambiando. Una riflessione profonda dovrebbe concentrarsi su quanta resistenza ci sia al cambiamento nei sistemi educativi formali legata probabilmente sia a una questione generazionale che di categoria.

 

– Tutta questa resistenza al cambiamento in cosa si traduce?

 

– Non può che tradursi, da un lato, in classi multiproblematiche dove i ragazzi non apprendono, sono disinteressati e non si riconoscono negli argomenti trattati. In una scuola che sembra, dunque, non rispettare i bisogni e gli interessi dei ragazzi e che li conduce verso altri spazi dove acquisire conoscenze. Sembra esserci, inoltre, una forte impreparazione verso la costruzione di un linguaggio scolastico multiculturale, dato che la scuola dovrebbe diventare sempre più capace di parlare e far interagire ragazzi che provengono da culture differenti. Per questo alcuni sostengono non sia più la scuola lo spazio primario per l’apprendimento e già adesso si evidenzia quanto lo sia in misura minima rispetto al passato e rispetto ad altri ambienti di apprendimento non formali. Proprio in questi ambienti non formalizzati sembra che si sviluppino le pratiche innovative più interessanti rivolte a tutte le fasi della vita.

Tutto questo a poco a poco si sta riversando in esperienze di nicchia, all’interno di alcuni spazi della scuola grazie al lavoro e alla volontà di alcuni singoli insegnanti, che iniziano a mettere in pratica didattiche di tipo innovativo. Per riportare un esempio pratico stiamo proprio sperimentando un progetto di didattica attraverso le arti: artisti e docenti che lavorano insieme in classe e attraverso le arti sviluppano da un lato la creatività – quindi le competenze trasversali – e dall’altro provano anche a rafforzare la didattica curricolare sia nelle materie scientifiche che umanistiche. È il Progetto Europeo META “Minority Education Throguh Art” che ci vede impegnati come Dipartimento di Scienze della Formazione e Psicologia dell’Università degli Studi di Firenze.

 

– Come si è evoluta la pedagogia in questi anni, estendendosi dall’età infantile verso l’educazione continua in tutte le fasi della vita?

 

– Già dagli Accordi di Lisbona del 2000 a livello di Unione Europea si inizia a parlare di Learning (apprendimento) e di Life Long e Life Wide Learning, ovvero un apprendimento continuo e ovunque per tutta la vita. In effetti, siamo noi in Italia che parliamo molto di pedagogia legandola alla filosofia o ad altre scienze dell’educazione. A livello internazionale si parla di educazione e di apprendimento con un approccio totalmente trasversale e interdisciplinare. Dopotutto, l’educazione è lo spazio per la trasformazione ed è ormai assodato che è un processo che va –  secondo alcuni – addirittura dal concepimento fino alla terza età. C’è uno sviluppo crescente di attività educative non formali rivolte all’età adulta e all’invecchiamento attivo, poiché l’educazione viene vista come uno spazio e un processo per ritardare l’invecchiamento e/o per renderlo più salutare possibile.

 

L’apprendimento, per chi lavora in questo campo, diventa trasversale, inoltre, non solo per l’individuo ma per le comunità. Sempre più, infatti, bisognerebbe cominciare a parlare di apprendimento comunitario e di formazione collettiva. Nell’epoca della comunicazione digitale tanto dell’apprendimento avviene fuori dai luoghi deputati: social network, blog e, più in generale, la rete, anche mediante percorsi strutturati come i Mooc (Massive online open courses), vanno configurandosi come spazi di apprendimento con diversi livelli di intenzionalità. Ma la cosa evidente è che l’apprendimento è ovunque e per tutti.

Se – come ci ricorda Watzlawick – “è impossibile non comunicare”, si potrebbe quasi sostenere che oggi sia “impossibile non apprendere”. Certamente, la differenza la fa la consapevolezza che aiuta nel dare una direzione, un obiettivo ai nostri progetti di formazione e di apprendimento.

 

– Si sente parlare anche di crisi dell’educazione. Ma è l’educazione che è in crisi o sono in crisi i luoghi a essa deputati?

 

– È evidente che i luoghi dell’educazione si stanno contaminando gli uni con gli altri, non sono più definiti come lo erano in passato. Così come non sono più nettamente definite le età dell’apprendimento, che è stato spalmato nell’arco di tutta la vita.

Inoltre, non evidenzierei una crisi nell’educazione. Se c’è una crisi è da evidenziare, in primo luogo, nel senso etimologico e nel senso tradizionale della parola, nel suo rimandare a un qualcosa di idealistico. Proprio per questo preferisco il termine formazione che – anche nell’accezione che dà Franco Cambi – rimanda al processo del prendere forma, del costruire qualcosa, del trasformarsi. Un concetto molto costruzionista in cui, nonostante sia messo in discussione da altre correnti come il connettivismo a esempio, mi riconosco pienamente.

In secondo luogo, questa crisi, probabilmente va ricondotta proprio agli spazi e ai luoghi dedicati all’educazione formale. Ma ben venga questa crisi! Perché forse più questa crisi diventerà profonda, fino all’emergenza, più si sarà invogliati al cambiamento. Edgar Morin ci dice una cosa bellissima, ovvero che “a volte è proprio la conoscenza che ci impedisce di conoscere”. Se le persone sono convinte di sapere già, di avere già le risposte, se non sono curiose si accontenteranno di quello che già sanno. Non andranno mai verso nuove risposte, né verso nuove interpretazioni.

Questo secondo me è il momento giusto per cambiare le prospettive. C’è una mia collega di Napoli che in classe dice: “è il momento di girare le sedie”. Questo per guardare al progetto formativo in maniera diversa. È per questo che io personalmente credo maggiormente nei processi partecipativi e nella figura del facilitatore educativo piuttosto che il classico docente.

Per questo più che dire che è in crisi l’educazione in generale, direi che lo è l’educazione così come la conosciamo. C’è una famosa TED Talk di Ken Robinson che dice “la scuola uccide la creatività”. La creatività è una delle capacità fondamentali che chiede oggi il mercato del lavoro. È da intendersi anche come capacità di adottare un pensiero divergente, come capacità di guardare le cose da altri punti di vista e quindi saper identificare e intercettare bisogni nuovi. Una cosa, quindi, estremamente funzionale al mercato del lavoro. Robinson invece dice che la scuola è lo spazio dove la creatività si perde, solo raramente si acquista. Ci sono studi che hanno visto come la creatività diminuisca nel passaggio tra i diversi ordini scolastici. Si è notato quanto si perdono le capacità immaginative, la fantasia, la capacità di spaziare tra universi diversi. Questo perché la creatività non viene allenata a fronte di una didattica rigida e formalizzata.

 

– Nello sviluppo della creatività, invece, quanto possiamo ritenere importanti gli ambienti educativi non formali o informali?

 

– Tantissimo, sicuramente. Sull’informale, in realtà, c’è tutta una discussione, poiché il grande rischio è che si tratta di un apprendimento non guidato. C’è chi crede, appunto, che da ora l’apprendimento sarà totalmente libero e anarchico. Io non credo in questo. Ad esempio nelle culture orientali c’è la figura del maestro come colui che facilita un processo. Proprio nel buddismo – per citare un modello culturale – il maestro esorta l’allievo nella sua personale ricerca della conoscenza anche a fronte di una trasmissività iniziale. Si incoraggia una ricerca di risposte basate sull’esperienza personale e si porta avanti un processo dialogico continuo.

Un approccio che è proprio degli spazi non formali di apprendimento in cui si investe sui processi di socializzazione, di scambio di punti di vista attraverso metodi partecipativi. Si stimola la creatività nel guardare alle cose da punti di vista diversi e ai problemi pensando che non ci sia un’unica soluzione, allenando quindi la capacità di sapersi immaginare anche le cose più strane e meno lineari.

Nell’incontro di punti di vista differenti sicuramente l’intelligenza collettiva – un concetto in cui credo profondamente –  come intelligenza più capace, creativa e trasformativa dell’intelligenza dei singoli, è in grado di far emergere il meglio tra le diverse proposte. Ma se hai solo un’unica soluzione, se ne immagini solamente una, si capisce che c’è mancanza di spazio per la costruzione di un processo creativo.

 

– Lo sviluppo della “rete” ha ampliato immensamente il portato della conoscenza umana: quanto la scuola, in generale, ci prepara a governare tutta questa conoscenza? Quali possono essere degli strumenti utili?

 

– La scuola è permeata da una forte resistenza, come dicevamo già in precedenza. Personalmente la vedo molto impreparata e incapace di aprirsi al diverso. Entra in campo una fortissima ideologia per cui, da un lato, tutto quello che è nuovo è malvagio e, dall’altro, si continuano a sostenere tesi sui giovani che sembrano essere disinteressati, superficiali e difficili da coinvolgere. Chiaramente questo fa sì che si inneschi un conflitto intergenerazionale, nel quale internet è sicuramente uno dei nodi del contendere.

A fronte di una maggioranza di docenti che ancora demonizza lo strumento – probabilmente poiché non lo conosce – ci sono alcune esperienze di apertura che possono essere considerate delle mosche bianche. Internet sicuramente non ha ancora autorevolezza all’interno della scuola e, anzi, viene visto come nemico o come un qualcosa usato da insegnanti meno allineati. Proprio per questo poi i ragazzi apprendono fuori dalla scuola e senza mediazione perché la scuola si rifiuta. Non vengono forniti strumenti utili per navigare.

 

C’è una mancanza di contemporaneità nella scuola. Nel corso dei laboratori organizzati durante il progetto “Apprendere per il Futuro”, è emerso che in classe non si parla mai di tematiche importanti come intercultura, migrazioni, resilienza, mondo del lavoro, ecc. La stessa cosa è successa in un altro laboratorio sulla Democrazia Digitale. I professori non parlano di queste cose, alla didattica tradizionale si può sacrificare poco o niente. Manzoni, Dante, vanno benissimo, ma è importante chiederci se bastino da soli. Chiederci se valga la pena spenderci così tanto tempo o se non converrebbe piuttosto lavorare su una competenza trasversale molto importante come quella di “imparare ad imparare”. Utilizzando anche modalità innovative come la flipped classrom (insegnamento capovolto) o con l’inquiery-based learning, un apprendimento attivo mediante la ricerca che procede col porsi domande, problemi e immaginando scenari.

Inoltre bisognerebbe interrogarci sempre più – soprattutto come esperti di educazione – sulle relazioni di potere e sul potere in generale. Potere che hanno gli insegnanti, il potere che hanno tra i pari i diversi ragazzi, il potere di decidere che cosa imparare e cosa no. Se ne parlava nella pedagogia critica, ma poi si è tutto diluito per far sì che si stabilizzasse una forte gerarchia verticale. Si lavora poco sulla condivisione delle esperienze e sull’educazione tra pari – come suggeriva anche Enzo Catarsi – entrambi vie utili per decostruire i rapporti di potere e per prendersi cura delle relazioni.

 

– Educazione e formazione. Due parole che, spesso, sembrano essere usate come sinonimi. Eppure, anche se non così immediato, esiste un confine tra loro. Può dirci qual è?

 

– Sono due parole che non sono uguali per niente. All’interno della letteratura educazione e formazione riportano a due approcci teoretici diversi. L’educazione viene dalla paideia greca e comprende in sé tutta la storia dei modelli educativi, con delle basi ideologiche e inclusive poiché al suo interno comprende sicuramente anche la formazione. Formazione è l’espressione di una mutata idea del processo dell’uomo, del suo prendere forma all’interno dei diversi contesti e nell’arco di tutta la vita. È un approccio che si sviluppa dall’Ottocento con la Bildung in Germania e da noi, in Italia, ricordiamo i grandi contributi che hanno dato Franco Cambi e Paolo Orefice e, più in generale, la “Scuola di Firenze”. Formazione fa riferimento a un processo che è continuativo, mentre educazione va più a riferirsi a dei modelli. La terza parola che è importante citare – considerando anche il contesto internazionale – è “learning” (apprendimento) un concetto che mette più degli altri l’accento sul protagonista del processo che è la persona.

Io, personalmente, mi riconosco maggiormente nel concetto di formazione che è formarsi e dare forma. Un processo mutuo. Andando oltre le parole, comunque, le quali sicuramente rivestono la loro importanza, sarebbe opportuno concentrare le riflessioni future sui nuovi metodi, sui nuovi setting e sugli strumenti educativi, formativi, di apprendimento o in qualsiasi modo si decidano di chiamare.

 

– Tornerei, in chiusura, su una riflessione per porre un ulteriore focus sul cambiamento. Abbiamo detto che il cambiamento è veloce, mutevole e che, sempre più spesso, può spaventare. Nel prendere forma del soggetto sociale, quanto il sistema scolastico (dalla Scuola dell’Infanzia all’Università) oggi riesce a trasmettere conoscenze per “governare il cambiamento”?

 

– Poco, forse per niente. Né la scuola e, allargando il campo, poco anche l’Università. Infatti queste cose si stanno realizzando fuori da questi luoghi, ad esempio negli spazi di innovazione sociale, nelle human foundation, nelle grandi organizzazioni e negli studi di ricerca che si occupano di innovazione sociale, negli hub lab, nei world café.

È una sfida molto complessa, ci sono da abbattere grandi muri partendo dal tentativo di lavorare sulla democrazia all’interno degli istituti educativi. Questo per far sì che non vengano continuamente riproposti gli stessi modelli. I tempi probabilmente, però, all’interno degli istituti educativi formali, non sono ancora maturi per accogliere queste innovazioni neanche a livello di didattica.

 

– Che cosa si intende oggi per innovazione sociale? Pensa che possa esserci un collegamento con i processi educativi?

 

– Innanzitutto credo che l’innovazione sociale – come sostengono alcuni – sia un “quasi-concept”, ovvero una scatola vuota che è oggi più un’aspirazione e un desiderio per il futuro che non la realtà. Se ne parla perché è necessario parlarne, ci sono sicuramente alcune pratiche che sono interessanti, ma non siamo in una fase di innovazione sociale. Siamo in una fase in cui si continuano a fare le cose che si facevano in passato, con alcune piccole modifiche. Soprattutto, l’innovazione sociale per come la conosciamo e per come è stata teorizzata e definita (anche dall’Unione Europea), non viene quasi per niente affrontata dal punto di vista degli esperti dell’educazione. Invece, ciò che sta alla base dell’esperienza che stiamo portando avanti con Mo.Ca. uno spin off dell’Università degli Studi di Firenze, è che l’innovazione sociale non è possibile se non è un processo formativo, trasformativo e istituzionale. Alla base quindi c’è l’acquisizione di nuove conoscenze e competenze per la comprensione e la soluzione dei problemi, la sperimentazione, la valutazione e la diffusione di nuove pratiche. Quindi è tutto un processo formativo, che tuttavia fa fatica ad emergere, con il rischio di non avere un progetto trasformativo coerente. Pensiamo, ad esempio, alle Transition Town (Movimento delle Transizioni)[1]: si parla di innovazione cercando di capire come dovrebbe cambiare l’individuo e di conseguenza la comunità, attraverso un percorso di inner-transition che è, a tutti gli effetti, un percorso formativo di tipo non formale con elementi importanti anche in termini di competenze trasversali.

L’innovazione sociale è quindi un orizzonte importante, ma, ancora oggi, ben lontano da essere realtà.

 

– La scuola potrebbe essere il primo contesto in cui sperimentare e far crescere questa innovazione?

 

La scuola dovrebbe essere un laboratorio di innovazione sociale. La scuola ha la cosa più importante: i ragazzi. Ha le loro fragilità, i loro sogni, il loro bisogno di stare nel mondo.

Dopotutto innovazione sociale è nuove idee, nuovi progetti, nuovi servizi, ma, prima di tutto, è nuove relazioni. È quello il grande pezzo da mettere in gioco, quella è la grande sfida: lavorare in forma diversa, insieme. Per questo serve un salto e un cambio di prospettiva, mentre la scuola è ancora fortemente legata ad un approccio top down.

[1] Transition Town è un movimento culturale che nasce in Inghilterra, nella città di Totnes, dal lavoro di Rob Hopkins. Il movimento nasce per cercare nuove opportunità, all’interno delle comunità locali, di fronte ai grandi cambiamenti della società (economici, climatici, ecc.). Per maggiori informazioni: https://transitionnetwork.org/

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