EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

Giochi virtuali e inconsapevole solitudine

di Monica Pratelli

Marco ha due anni o poco più, sta abbracciando un orsacchiotto, lo culla come fosse un bambino e lo adagia nel suo lettino. Questa notte Marco non sarà solo e potrà dormire sonni tranquilli. Ecco, inizia così il gioco simbolico, cioè la capacità, da parte del bambino, di rappresentare mediante simboli, nomi, pensieri, qualcosa che, in quel momento, non è presente.

Freud, osservando il nipotino Ernst di diciotto mesi, elabora importanti considerazioni sul gioco, che assume una funzione trasformativa ed evolutiva per il bambino.

Il piccolo gioca con un rocchetto legato a un filo, che lancia e fa sparire sotto il lettino, lo ritira a sé per recuperarlo, lo lancia di nuovo, accompagnando il tutto con espressioni vocali e mimiche di forte intensità affettiva. Il gioco, secondo Freud, mostra la possibilità, per il nipotino, di riparazione; l’assenza della madre, dolorosa e deludente, viene trasformata in un’esperienza controllabile e, quindi, sostenibile, che gli permette di contenere l’ansia da separazione e di sopportare il senso di solitudine. Freud deduce che, attraverso il gioco, il bambino ripetutamente riproduce un’esperienza dolorosa e la elabora, utilizzando una capacità di riparazione immaginaria, divenendo egli stesso soggetto attivo e superando così la difficoltà.

Il gioco simbolico è una forma di gioco virtuale, in quanto si svolge in assenza dell’oggetto reale e, al tempo stesso, lo presentifica, lo rende, nella mente del bambino, tangibile, concreto. Winnicott parla di fenomeni transizionali che servono a evocare simbolicamente la figura materna o, in genere, il caregiver; il bambino imita la realtà, la riproduce con i mezzi che ha a disposizione e gli oggetti che usa, nelle sue mani, cambiano la loro funzione, si trasformano.

– Nessun oggetto è più lo stesso dopo essere stato incontrato e usato da un bambino – afferma lo stesso Winnicott.

Una scopa diventa un cavallo, un imbuto si trasforma magicamente in una trombetta, in un cannocchiale o, addirittura, in un cappello, seguendo i pensieri dei piccoli, rendendo possibile ciò che in quel momento è assente.

Lev Vygotskij sostiene che nel gioco il pensiero è separato dagli oggetti e l’azione nasce dalle idee più che dalle cose.

Laura ha quattro anni e sta assemblando i pezzi di un trenino di legno. E’ così intenta da fare invidia all’adulto, che non riesce a trattenersi e chiede:

  • Posso salire anch’io sul tuo treno?
  • Va bene però mettiti qui – risponde la bambina indicando il secondo vagone – perché su questo ci sono io.

Laura dentro a quel vagone c’è davvero, nella sua mente è seduta lì o, forse, è lei stessa alla guida di quel treno.

Nel gioco dei bambini, come in quello degli adulti, del resto, reale e virtuale non hanno confini, non sono elementi contrapposti.

Certo che i piccoli e i grandi sono cambiati, sono cambiati i contesti, gli stimoli, i materiali a disposizione, ma la stessa cosa avviene con l’uso dei videogiochi; il ragazzino sudato fradicio impegnato in una partita di Champion è egli stesso su quel campo virtuale; in quel momento sta correndo all’impazzata per appropriarsi di quel pallone che sembra vero, ma non lo è, sta facendo il possibile per schivare l’avversario, anzi, ora si immedesima con il portiere, ora con l’attaccante, magari anche in un arbitro severo verso la squadra che ha scelto come rivale. Tanti ruoli con cui identificarsi ed è anche così che si cresce; l’unico inconveniente è il richiamo dell’adulto che, per l’ennesima volta, dice di spegnere. Spengere cosa? Come si fa a spegnere una partita o un combattimento o a chiudere con una second life di cui siamo protagonisti?

Magari sarebbe importante che le possibilità di scelta fossero più ampie, non focalizzate prevalentemente su materiali tecnologici, ma equilibrate, per far volare a una maggiore velocità la fantasia e consentire così un più adeguato sviluppo della rappresentazione e della simbolizzazione, tanto amate da J. Bruner.

In terapia familiare, quando sono presenti bambini utilizziamo la sabbiera, cioè un contenitore di sabbia, dentro al quale il terapeuta invita i figli a costruire la propria casa utilizzando materiali a disposizione (arredamenti in miniatura, costruzioni, personaggi, ecc.).

“Mi fai entrare nella tua casa? Ecco qui tutto l’occorrente per costruirla” – chiedo.

Ciò che conta, lo sappiamo bene, non è la qualità della prestazione, bensì ciò che viene comunicato, la raffigurazione che ne emerge, la narrazione che vi si collega. Per il terapeuta è davvero un modo di entrare nella famiglia, come un ospite desiderato e discreto, che può aiutare a “ristrutturare” quella casa, tinteggiando le “pareti”, troppo trasparenti, schiarendo quelle troppo buie e austere, sostenendo la ricerca di nuove regole di convivenza all’interno di quelle “stanze”, ma, soprattutto, permettendo di dare voce a pezzi preziosi di antiquariato, a oggetti testimoni di tutte le emozioni che, nel tempo, hanno riempito quella casa. Al bambino posso chiedere qual è, secondo lui, la stanza preferita di ciascun familiare e, in seguito, qual è l’oggetto preferito da ognuno di loro, cercando poi di confrontare le sue ipotesi con quelle dei genitori, permettendo così lo scambio. Quali sono gli spazi per i momenti sereni e piacevoli? Quali invece sono i luoghi della casa per quando siamo tristi o arrabbiati? Pietro, un bambino di nove anni riferisce, ad esempio, che nei momenti sereni ognuno in casa fa le proprie cose in stanze diverse (“Io sto in camera mia alla play, mamma tiene il suo forum su internet, papà guarda la tele in soggiorno e mia sorella sta su facebook in camera sua.”).

“E nei momenti in cui siete tristi o arrabbiati?”

“La stessa cosa” riferisce Pietro.

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Pietro ci aiuta forse a capire che, in famiglia, ognuno tiene per sé le gioie e i dolori, ognuno è in contatto con un mondo altrove.

La tecnologia è una risorsa indispensabile per lavoro e per diletto, aiuta a costruire reti sociali, a scambiare informazioni, ad acquisire conoscenze, a sviluppare competenze e abilità, favorisce lo scambio tra di noi, che, in pochi attimi, ci mettiamo in contatto, condividiamo, ci sentiamo vicini.

Forse manca però lo stare occhi negli occhi, si perde il non verbale, quella parte fondamentale della comunicazione, si perdono contenuti impliciti, non espressi con le parole. Mancano l’ascolto del respiro dell’altro, la lucentezza dello sguardo, la modulazione della voce e né gli emoticon né la quantità dei punti esclamativi possono colmare questo vuoto.

Per Pietro e per la sua famiglia non si profilavano, al momento, altri scenari; la costruzione di Pietro rappresentava il loro modo di condurre la quotidianità, di trascorrere i momenti insieme nella loro casa. La seduta con la famiglia era giunta a termine, non ci furono commenti e il il terapeuta si limitò a valorizzare quanto il bambino aveva raccontato, perché gli aveva permesso di entrare come ospite in quella casa in miniatura con tanti spazi per tutti. Durante la seduta successiva il padre sentì il bisogno di dire: “Pietro è stato grande l’altra volta! Né io né mia moglie avevamo questa immagine della nostra famiglia. Ma lui ha ragione; è vero che ognuno fa cose per conto proprio e che scambiamo poco tra noi … ma già qualcosa è cambiato. In queste settimane abbiamo fatto cose insieme e ci siamo pure divertiti!”. In effetti il clima tra loro sembrava essersi un po’ modificato, gli sguardi s’incrociavano di più, la sorella esprimeva maggiore considerazione per il fratello più piccolo di lei di cinque anni, la mamma appariva più distesa, il padre poi era davvero soddisfatto.

Talvolta è difficile l’auto-osservazione, la possibilità di rivolgere lo sguardo verso se stessi; non è facile neanche procedere con un’osservazione del nostro contesto di vita, perché richiederebbe il salire virtualmente qualche gradino, per goderci la panoramica dall’alto. Ecco, questo è quello che è avvenuto durante il gioco della casa; Pietro ha regalato a tutti una sorta di viaggio in mongolfiera e tutti si sono affacciati a guardare in basso, esplorando per un attimo la loro casa senza tetto costruita con lo sguardo esperto del bambino. Uno sguardo che ha permesso alla famiglia di conquistare gradualmente un equilibrio tra due diversi livelli di condivisione senza cadere nella rete di dipendenze, che limitano o ostacolano la relazione faccia a faccia, che impediscono la manipolazione a cinque dita di oggetti e materiali camaleontici, che, nelle mani dei bambini, assumono forme e funzioni diverse grazie alla componente virtuale a cui si legano la fantasia, il desiderio di superare ostacoli e dolori, il bisogno di andare oltre ciò che è presente e tangibile.

 

Note bibliografiche

 

Piaget, J., La rappresentazione del mondo nel fanciullo, Bollati Boringhieri, 2013.

 

Piaget J., Lo sviluppo mentale del bambino, Einaudi, 2000.

 

Vygotskij, L., Bollati Boringhieri – 1987

 

Vygotskij, L., Immaginazione e creatività nell’età infantile, Editori Riuniti, 2011

 

 

Bruner J., Saper fare, saper dire, saper pensare. Le prime abilità del bambino, Armando Editore – 1992

 

Bruner J., La mente a più dimensioni, Laterza, 2003

 

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