di Regina Rensi e Barbara Gualco
“La vita non è quella che si è vissuta ma quella che si
ricorda e come la si ricorda per raccontarla”.
Gabriel Garcìa Màrquez, Vivere per raccontarla.
La testimonianza è la riproduzione verbale o scritta di contenuti mnestici riferiti ad una particolare esperienza o ad uno specifico evento vissuto [1].
Le scienze cognitive hanno ampiamente dimostrato come la memoria sia un fenomeno dinamico e ampiamente ricostruito che consta dei processi di percezione, codifica, immagazzinamento e recupero, su ciascuno dei quali possono agire fattori di distorsione cognitivi, emotivi, relazionali e culturali [2]. Possono formarsi, quindi, delle false memorie, ossia dei ricordi distorti dell’evento di cui il soggetto è stato testimone, in cui l’episodio originario è arricchito di particolari non presenti nella realtà ma fortemente plausibili, oppure vengono ricordati elementi dell’accadimento in maniera diversa da come erano nella realtà [3]. In altri termini i falsi ricordi possono essere considerati come fenomeni produttivi che rivelano la normale manifestazione di un processo creativo, quale, appunto, quello della memoria.
Le principali fonti di distorsione del ricordo individuate dalla ricerca sono di natura interna, ossia legate alle caratteristiche dell’osservatore, di natura esterna con riferimento alle informazioni successive all’evento che incidono sulla fissazione del ricordo modificandolo (post-event e misinformation effect) [4] e di natura relazionale e comunicativa come per esempio suggerimenti, nuove informazioni, conoscenze e pregiudizi che causano una distorsione del ricordo [5] [6].
Ecco allora che, soprattutto in ambito processuale, occorre tenere conto della possibile esistenza di tali distorsioni che possono inficiare l’accuratezza (corrispondenza tra realtà oggettiva e soggettiva) e la credibilità (rapporto tra ciò che si ritiene di sapere e le motivazioni a dichiararlo) della testimonianza che risulta, quindi, avere una componente oggettiva e una costruzione soggettiva.
I testimoni, “sono gli occhi e le orecchie della giustizia” [7], ma alla luce della consapevolezza degli errori cognitivi nel ricordo, possiamo credere in assoluto ad un individuo che dice di ricordare esattamente un evento che “ha visto con i suoi occhi”?
Interessanti sono gli esperimenti condotti durante la seconda metà del Novecento da Loftus [8] e da Brewere e Treyens [9] rispettivamente relativi a come il livello emotivo e gli schemi di conoscenza possono inficiare il recupero del ricordo. Nel 1979 Loftus sottopone un gruppo di soggetti a due condizioni: nella prima i soggetti attendono fuori del laboratorio e sentono che all’interno si sta svolgendo una discussione sul fatto che certe attrezzature non funzionano. Successivamente, dal laboratorio esce una persona con in mano una penna e le mani sporche di grasso; nella seconda condizione gli stessi soggetti attendono fuori dal laboratorio e sentono, all’interno, una conversazione concitata che si conclude con un rumore di vetri e sedie rotti, e con l’uscita dalla stanza della stessa persona della prima condizione che però, in questo caso, ha in mano un taglierino insanguinato.
In una seconda fase, ai soggetti viene fatto svolgere un compito di riconoscimento del colpevole mostrando loro delle fotografie: la percentuale di riconoscimenti corretti è del 49% nella prima condizione, ossia quella “senza arma”, del 33% nella seconda condizione “con arma”. La paura, quindi, tende a restringere l’attenzione su un elemento focale, l’arma, e a dimenticare il resto. Generalmente il testimone e soprattutto la vittima hanno una restrizione del campo visivo e attentivo durante l’evento traumatico di cui fanno esperienza per cui non colgono i dettagli della scena.
Qualche anno più tardi, nel 1981, gli sperimentatori Brewer e Treyers lasciano trenta soggetti per pochi minuti da soli in una stanza presentata come lo studio di uno psicologo e successivamente gli chiedono di descrivere l’arredamento e gli oggetti presenti in essa. L’ipotesi di partenza è che il ricordo di un individuo viene influenzato dagli schemi che possiede, per cui vengono ricordati molto bene gli oggetti in linea con lo schema, meno bene gli oggetti che non ne fanno parte, in maniera falsa gli oggetti che fanno parte dello schema ma che in realtà non sono presenti durante l’accadimento dell’evento da ricordare. I risultati hanno confermato l’ipotesi. Infatti, 29 soggetti hanno ricordato la presenza di sedie e scrivania, 8 di un quadro e di un orologio, 23 di libri che fanno parte delle cose che dovrebbero esserci nello studio di uno psicologo ma che nella realtà non erano presenti nella stanza.
Questo esperimento ha permesso di evidenziare come, nel recupero del ricordo, gli individui sono portati ad usare gli schemi di conoscenza per completare una lacuna mnestica.
Un altro esperimento che ha dimostrato come la memoria sia una ricostruzione del passato e non una fotografia precisa di quanto ci è accaduto, è quello effettuato da Neisser nel 1986 [10] su un gruppo di cento studenti di un college americano, il giorno dopo l’esplosione della navicella spaziale Challenger. Neisser chiede agli studenti di scrivere la loro esperienza immediata dopo aver appreso la notizia. Una delle ragazze intervistate, in un primo tempo riferisce: “Mi trovavo nella classe di religione ed alcune persone entravano ed uscivano parlando dell’evento. Non avevo capito i dettagli, ma soltanto che era esploso. Dopo la lezione andai nella mia camera a guardare il programma televisivo che parlava dell’esplosione e da lì ho appreso i dettagli di quanto era accaduto.”
Quasi tre anni dopo, agli stessi studenti viene chiesto di raccontare nuovamente l’evento e la ragazza di cui sopra dà questa versione: “Quando ho saputo dell’esplosione, mi trovavo seduta nella mia camera da letto con la mia compagna di stanza e guardavamo la televisione. Lo abbiamo appreso da una notizia flash ed ambedue siamo rimaste sotto shock. Ero sconvolta. Ho salito le scale per dirlo ad un amico ed ho telefonato ai miei genitori”.
Osserviamo che, eccetto qualche elemento rimasto invariato, la versione offerta in questa seconda circostanza è nettamente differente. Dall’esperimento è risultato che un quarto dei racconti era molto diverso dall’originale, la metà era leggermente differente e meno di un decimo era fedele con la prima versione. Tutti i partecipanti erano convinti che i loro racconti fossero stati precisi.
Da quanto esposto, risulta evidente che la verità testimoniale richiesta dall’art. 497 del c.p.p.[1] contiene un grande paradosso che porta a riflettere e a fare delle considerazioni sul tema. Infatti, è possibile essere certi di dire tutta la verità?; il testimone giura di dire tutta la verità ma è un impegno che può mantenere?; il testimone può impegnarsi a essere sincero ma non a dire il vero; essere sincero non equivale a dire il vero. Il testimone può fornire involontariamente una deposizione diversa dal reale svolgimento dei fatti, in quanto la componente di verità soggettiva può avere alterato la percezione dell’evento e dei fatti accaduti tali da renderli diversi da ciò che è avvenuto effettivamente. Non solo, ma occorre tenere presente che la dichiarazione resa nel processo può essere inficiata dall’effetto temporale in quanto segue a distanza di molto tempo l’accadimento dell’evento, cosicché è plausibile che i ricordi in questo lungo lasso di tempo possano essersi modificati o essere andati incontro ad un vero e proprio processo di iscrizione [4][11].
II contenuto della deposizione deve essere considerato “come qualcosa che non può mai essere pura riproduzione fotografica di un fatto obiettivo, ma il prodotto di una molteplicità di coefficienti: in parte soltanto dati dagli elementi di quel fatto obiettivo, ma in parte costituiti dalla natura stessa della personalità psichica del testimone e da tutti gli elementi esteriori che hanno agito nel passato e che attualmente agiscono sul testimone stesso”[12].
Le persone in realtà credono di avere dei ricordi, mentre invece hanno solo ricordi di ricordi, perché la mente confonde le cose.
Goffman [13] diceva che la vita non è altro che una rappresentazione teatrale, e forse è quello che avviene anche in un processo, in questo caso penale, dove ciascuno si rappresenta ed interpreta la realtà in base al proprio modo di percepirla, modo che è unico per ogni individuo. Il giudice si trova davanti a realtà costruite nel dialogo tra le parti e ricostruite poiché ciascuno racconta ciò che crede di aver percepito. Lo stesso giudice, poi, sceglie quali delle verità dichiarate appare essere quella più coerente in base però a proprie convinzioni personali, giuridiche, al modo in cui lui stesso ha percepito le dichiarazioni, se le è rappresentate e interpretate.
Bibliografia
[1] W.Stern, The Psychology of Testimony, in “Journal of Abnormal and Social Psychology”, 34, 1939, pp. 3-20.
[2] M. Vannucci, Quando la memoria ci inganna, Carocci, Roma, 2008.
[3] D.M. Bernstein, E.S. Loftus, Reconstructive Memory, in J.H. Byrne, Learning Memory,
Mcmillan, New York , 2003.
[4] E.F.Loftus, Planting misinformation in the human mind: a 30 year investigation of the malleability of memory, in “Learning & Memory”, 12, 2005, pp. 361-366.
[5] E.A. Kensinger, D.L. Schacter, Reality Monitoring and Memory Distortion: Effects of Negative Arousing Content, in “Memory and Cognition”, 34, 2006, pp.251-260.
[6] A. Baddeley, W. Michael, M.W. Eysenck, M.C. Anderson, Memory, Psychology Press, United Kingdom, 2009.
[7] G. Bentham, Teoria delle prove giudiziarie, Tipografia della Società Belgica, Brusselles, 1842.
[8] E.F. Loftus (1979), Eyewitness testimony, Harvard University Press, Cambridge, 1979.
[9] J.R. Anderson, The adaptive character of thought, Lawrence Erlbaum Associates, Hillsdale NJ, 1990, pp.129-130.
[10] U. Neisser, Conoscenza e realtà, Il Mulino, Bologna, 1993.
[11] G. Ubertis, G., La ricerca della verità giudiziale, in Ubertis G. (a cura di), La conoscenza del fatto nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1992.
[12] C.L. Musatti, Elementi di psicologia della testimonianza, CEDAM, Padova, 1931.
[13] E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 2000.
[1] Art. 497/2 c.p.p. “Prima che l’esame abbia inizio il presidente avverte i testimoni dell’obbligo di dire la verità […]Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione mi impegno a dire tutta la verità e non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza”.