EXAGERE RIVISTA - Maggio-Giugno 2025, n. 5-6 anno X - ISSN 2531-7334

I corpi nell’era digitale

di Gianfranco Pecchinenda

Riflessioni a partire dal volume di V. Gallese, S. Moriggi, P. C. Rivoltella, Oltre la tecnofobia. Il digitale dalle neuroscienze all’educazione, Raffaello Cortina 2025

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Il volume presentato da Vittorio Gallese, Stefano Moriggi e Pier Cesare Rivoltella si configura come un’opera multidisciplinare e sapientemente articolata, che affronta l’attuale tema dell’influenza delle tecnologie digitali sulla formazione degli esseri umani e sulle loro interazioni, con una particolare attenzione ai contesti educativi.

Come dichiarano con chiarezza gli stessi autori nella loro introduzione, si tratta di un lavoro che si colloca all’interno dell’ampio dibattito “sull’uso eccessivo e improprio delle evidenze neuroscientifiche, dal montare di un autoritarismo intollerante e colpevolizzante verso i più giovani, dalla fiducia soluzionista nel controllo e nella proibizione”. 

Ben consapevoli che la comparsa e la diffusione di nuove tecnologie nel corso della storia umana ha sempre generato atteggiamenti da “apocalittici” o, all’opposto, da “integrati”, i tre autori provano innanzitutto ad evitare sia una tecnofilia ingenua sia un’opposta e sempre sterile tecnofobia. Più che condannare o elogiare i media digitali, essi propongono pertanto un’accurata prospettiva multidisciplinare volta a studiare come i nuovi media stiano contribuendo a modificare, più in generale, il nostro modo di “essere umani”. 

La postura dei corpi

E lo fanno prendendo come oggetto di studio principale il corpo: “Lungi dall’essere un semplice spettatore passivo della rivoluzione digitale – essi scrivono – il corpo umano rimane il perno attorno a cui ruota la nostra esperienza, anche nell’era degli schermi e della realtà virtuale”. 

In tal senso una parte importante del loro lavoro si inscrive pienamente all’interno di un ben assimilato approccio archeologico introdotto e sviluppato da diversi decenni nell’ambito della sociologia dei media anche italiana. In esso, il richiamo all’analisi della storicità della percezione in autori che vanno da Platone a Walter Benjamin, da McLuhan a Meyrowitz e, naturalmente, a molti altri ancora, serve soprattutto a sottolineare con forza un’evidenza non ancora del tutto assimilata nel dibattito attuale sui nuovi media: che il digitale non va inquadrato come una rottura assoluta, ma come l’intensificazione di processi tecnologici già in atto da tempo, e più precisamente da quando l’essere umano – un essere che si è potuto evolvere solo grazie al contributo determinante delle protesi tecnologiche con cui ha integrato il suo debole organismo – ha cominciato a vincere le sue prime lotte per la sopravvivenza e si è affermato in quanto essere bio-tecnologicamente ibrido. 

È sull’analisi di questi aspetti che l’integrazione tra analisi filosofica, neuroscienze sociali e teoria dell’educazione proposta dagli autori diventa particolarmente interessante, consentendo di chiarire questioni spesso sottovalutate nella letteratura corrente, come l’influenza dell’estetica digitale anche sulle dinamiche relazionali e cognitive. 

Come già accennato, l’assunto di partenza dell’intero lavoro – che il corpo sia la prima interfaccia con il mondo – oltre ad essere concettualmente solido e stimolante, serve soprattutto ad evitare la trappola di una visione puramente astratta o disincarnata dell’esperienza digitale. E in tal senso uno dei punti nodali della loro analisi è proprio l’attenta proposta di una rilettura della relazione tra corpo e tecnologie. Gli autori, innanzitutto, rifiutano l’idea di una “disincarnazione” dell’esperienza digitale e propongono invece una visione “embodied” secondo cui il digitale non abolisce la corporeità, ma la riorganizza: i media, in tal senso, non sono semplici veicoli di contenuti, ma forme simboliche che strutturano l’esperienza emotiva degli individui incidendo sulle modalità con cui percepiscono il tempo, lo spazio e il significato della loro stessa identità. Questa convergenza teorica rafforza l’idea già accennata secondo cui il digitale non sia un “fuori” dell’umano, bensì un’estensione situata della sua possibilità di essere-nel-mondo, un approccio che condivido e che mi è particolarmente caro.

La tirannia degli schermi 

Circa vent’anni fa, in occasione della presentazione ai lettori italiani della traduzione di un’opera del filosofo francese Jean-Jacques Wunenbuger dall’emblematico titolo L’uomo nell’era della televisione (Ipermedium libri 2005), ebbi l’occasione di sottolineare una riflessione simile, e a mio avviso altrettanto fondamentale, sul rapporto tra corpo e tecnologie, che l’autore francese riprendeva a sua volta dal suo grande maestro Gaston Bachelard.

Rifacendosi al celebre mito platonico della caverna, Wunenburger si riferiva in quel saggio all’homo televisivus come a un essere sempre più simile al prigioniero di una caverna audiovisiva. Gli schermi televisivi, considerati in tal senso come dei veri e propri altari delle immagini, “scaraventano gli spettatori all’intero del contesto di una cerimonia laicizzata proiettandoli in uno spazio-tempo la cui caratteristica più significativa sarebbe a suo parere quella legata alla postura dei corpi”. Secondo questa tesi, i sempre più diffusi rituali legati alla fruizione delle immagini schermiche avrebbero alla lunga finito per imporre ai loro fruitori alcune ben determinate posizioni del corpo (del volto, del collo, degli arti) e dello sguardo, particolarmente adatte a un più adeguato godimento dello spettacolo schermico. 

Tali posture – sottolineava ancora Wunenburger – “sembrano comportare una evidente degenerazione della vita corporea”, una sorta di preoccupante atrofia biologica sostenuta da un iperattivismo incentrato principalmente sul sistema visivo, a discapito di una serie di movimenti molto limitati del resto del corpo.

Quello che egli definiva un progressivo asservimento del corpo alle esigenze specifiche degli schermi televisivi, potrebbero oggi essere riconsiderate proprio sulla base della prepotente e apparentemente inarrestabile diffusione dei media digitali – a partire dallo smartphone, assoluto e onnipresente protagonista del mondo attuale – che rendono sempre più necessarie ben determinate modalità di orientare gli occhi e lo sguardo a partire da una precisa distanza, plasmando un inedito sistema visivo fondato sull’adattamento reciproco tra occhi, schermo, dita e arti più in generale. 

Insomma, che ne sarà dei corpi in una società in cui trionfa sempre più un’immobilità (se non una vera e propria “indifferenza”) fisica in relazione ai processi di interazione? Il “silenzio degli organi” – come ammoniva Wunenburger – potrebbe diventare, piuttosto che il tratto distintivo di una sana immaginazione creativa, la paradossale fonte di una letargia che condanna i flussi di immagini a scivolare sulla superficie dell’essere anziché essere interiorizzata, lasciando rimbalzare solo “l’eco dei rumori della vita”. La nostra – temeva Wunenburger – potrebbe diventare non tanto, come ingenuamente e troppo semplicisticamente si viene propagandato, una civiltà dell’immagine, quanto piuttosto una civiltà caratterizzata da una tendenziale scomparsa di un tipo di immaginario che necessita al contempo non solo di volontà, energia e lavoro, ma soprattutto di un tipo di interazione tra gli esseri umani fondata soprattutto dal contatto e dal movimento fisico.

L’esperienza schermica: un fatto sociale totale

Pur non condividendo del tutto l’atteggiamento eccessivamente apocalittico di Wunenburger, ho sempre ritenuto importante prestare attenzione ad alcune conseguenze inintenzionali legate alla diffusione di un tipo di esperienza sempre più pervasa dalla mediazione schermica. In particolare, mi riferisco al potenziale processo di deprivazione sensoriale (questione su cui mi sono soffermato dettagliatamente in un saggio dedicato ai videogiochi: G. Pecchinenda, Videogiochi e cultura della simulazione, Laterza 2003). 

Ciò premesso – e assumendo una prospettiva teorica simile a quella tracciata a suo tempo da Bachelard e successivamente da Wunenburger – potremmo considerare i nuovi media digitali, nel loro insieme, una sorta di fatto sociale totale, un fenomeno la cui influenza pervade eccessivamente tutto il corpo sociale creando, come tra le righe sostengono acutamente anche gli autori di Oltre la tecnofobia, effetti inediti per l’essere umano. 

Bisogna tuttavia anche prendere in considerazione il fatto che, talvolta, le organizzazioni sociali si possano modificare più a causa di una certa rappresentazione stereotipata delle tecnologie che non a causa delle tecnologie stesse: le tecnologie – tutte le tecnologie – infatti, non sono mai neutrali, né tanto meno incontrollabili (come molto spesso ci viene raccontato). In buona sostanza esse nascono, si sviluppano e si diffondono sempre in uno stretto rapporto dialettico con le società in cui nascono, si sviluppano e si diffondono.

C’è però un fatto nuovo, e a mio avviso determinante, che caratterizza l’esperienza mediale contemporanea, ed è quella dell’emergere di un genere di esperienza di una realtà puramente tecnologica apparentemente sempre più autonoma e priva di referenti “al di la” degli schermi.

Si tratta di un fenomeno rispetto al quale le considerazioni che ritroviamo nel testo che stiamo analizzando, sembrano approfondire solo parzialmente. Indipendentemente dai giudizi di valore al proposito, non si può a mio avviso evitare di riconoscere che il tipo di esperienza dell’essere umano nell’era digitale pare contrassegnata da un impoverimento radicale che, in linea con le considerazioni già espresse a suo tempo da autori quali lo stesso Benjamin, Simmel o anche Max Weber, caratterizza l’esperienza moderna più in generale. E su questo tema, forse, una maggior attenzione sia alla sociologia classica, sia a quella odierna più marcatamente orientata all’analisi dell’evoluzione dei media digitali, potrebbe contribuire a rendere meno deterministiche talune, pur condivisibili, considerazioni di senso comune che gli autori stessi tendono apertamente a criticare.

Il fatto che il progresso tecnologico possa significare tutto tranne che una maggiore conoscenza da parte del singolo dei materiali e delle condizioni della propria esistenza, deve allora costituire più un possibile spunto per ulteriori riflessioni e approfondimenti, che non la base per affermazioni di carattere apocalittico da applicare a questo o quel medium di turno. Essendo alla fin fine sempre l’esperienza vissuta la matrice ultima su cui si forgia l’immaginario collettivo, ed essendo tale esperienza a sua volta sempre più spesso strutturata a partire da mediazioni schermiche di vario genere, soffermarsi troppo sull’analisi del medium di turno (in questo caso i media digitali) può rischiare di far perdere di vista altre importanti questioni riguardanti le trasformazioni del nostro modo di fare esperienza.

La questione della corrispondenza

Il dato da cui poter partire, allora, così come già indicato ad esempio anche da altri autori, è che la realtà verso la quale l’uomo contemporaneo tende a rivolgere la propria esperienza richiede sempre meno il supporto di facoltà corporee, con tutte le conseguenze che ciò comporta.

Il tema a mio avviso fondamentale intorno al quale questo discorso stimola il nostro interesse, pur senza approfondirne troppo la riflessione, riguarda dunque proprio alcuni degli effetti inintenzionali provocati dalla ridefinizione schermica della realtà. 

C’è, a tal proposito, un esempio tratto dal lavoro di Norbert Elias, al quale amo talvolta rifarmi e che forse riuscirà a rendere meglio il senso di alcuni dei concetti finora espressi: «Supponiamo che io – scriveva il grande sociologo tedesco – stia visitando una città che non conosco, con al pianta della città in mano. In questo caso non ho alcun problema nel distinguere tra due diversi modi di esistenza. Le strade, le case, le piazze possono essere classificate come realmente esistenti. La pianta della città è una rappresentazione simbolica di quella realtà. In questo caso non è necessario dubitare della corrispondenza tra simbolo e realtà. (…). Non è irragionevole concettualizzare la relazione esistente tra una città ed una usa mappa come una relazione tra qualcosa che esiste veramente e la sua mera rappresentazione simbolica. Come merce – egli continua – le mappe appartengono alo stesso livello di realtà della città che rappresentano. Come rappresentazioni simboliche della città, esse si pongono allo stesso tempo la di fuori della città. Ci si deve poter distanziare dalla realtà fisica della città per poter disegnare o utilizzare queste mappe; si deve, in altri termini, ascendere mentalmente a un livello di sintesi superiore a quello dell’esistenza hic et nunc della materia».

Come si può notare, uno degli aspetti principali che emerge da questo esempio concerne proprio il fenomeno della corrispondenza tra sfere di realtà diverse. Tale diversità – viene suggerito – non andrebbe letta tanto in termini di contrapposizione tra un mondo reale e “altri” mondi falsi o fantastici, quanto in base al grado di sintesi raggiunto dai simboli presenti all’interno di ognuno di essi in relazione agli altri. 

Se queste riflessioni conservavano però una certa validità per il modello comunicativo basato sull’immagine analogica, cui si riferiva Elias, le cose cambiano ulteriormente se dirigiamo la nostra attenzione verso l’attuale epoca di ridefinizione digitale dell’immagine. Cominciamo infatti a trovarci ora di fronte non a realtà basate sulla “rappresentazione di…” qualcosa, ma a realtà che non trovano corrispondenza alcuna se non in sé stesse (o in altre rappresentazioni digitali). È l’universo dei mondi paralleli creati attraverso la mediazione delle tecnologie digitali, che trovano ad esempio una loro straordinaria modalità esperenziale negli odierni programmi di simulazione elettronica e nei videogame, nonché praticamente in tutti i social media.

La cultura della simulazione emergente, pertanto, è una cultura in cui l’azione sociale e le interazioni sono – sia da un punto di vista percettivo sia sensoriale –  rivolte, mediante protesi, verso una realtà totalmente simulata, verso una “realtà” che, almeno in linea di principio, non ha necessariamente corrispondenze con la realtà tradizionalmente intesa, ovvero con quell’universo che ha come referenti materiali le coordinate spazio-temporali cui eravamo abituati. Ed è in tali ambiti che si manifesta l’esperienza degli esseri umani contemporanei, e in modo particolare quella delle più giovani generazioni.

Una cultura della simulazione

A corollario di tutto ciò aggiungiamo infine una considerazione, tratta questa volta da un’esperienza di tipo personale: un mio nipote adolescente, grande appassionato di calcio, e in quanto tale grande consumatore di “partite televisive” e di videogiochi (in particolare “simulatori di calcio”), ha avuto di recente l’occasione di assistere per la prima volta ad un incontro della sua squadra “in prima persona”, allo stadio, insieme a me. Dopo le prime emozioni legate al clima coinvolgente che anima ogni spettacolo del genere e all’impatto con una “realtà” per lui nuova, ho potuto assistere ad un suo crescente disagio per la -situazione-stadio, che si è lentamente tramutata prima in fastidio e poi addirittura di noia. Per lui il gioco del calcio era quello di cui aveva fatto esperienza fino ad allora attraverso la mediazione esclusiva dello schermo. Il calcio “vero”, quello “reale”, implicava determinate inquadrature, certe sonorità, la possibilità di rivedere le azioni principali da diversi punti di vista, più o meno rallentate e ripetute numerose volte. Quella cui aveva appena assistito era insomma una sorta di surrogato della partita di calcio come finora l’intendeva lui; qualcosa che gli somigliava ma non era quella “vera”.

Bisogna a tal proposito sforzarsi di comprendere che per cogliere la differenza tra “realtà” e “rappresentazioni di realtà” è necessario aver avuto una qualche esperienza della prima. Per coloro che hanno conosciuto solo le seconde, il significato dei termini subisce necessariamente una sorta di slittamento. Nel caso appena citato – che ho fondati motivi di poter ritenere tipico di un certo atteggiamento generazionale – la partita “vera” finisce per essere quella “schermica”, mentre quella dei videogiochi diventa inevitabilmente una sua simulazione. Quella “da stadio”, invece, tenderà inesorabilmente a divenire un tipo di esperienza meno interessante (e pertanto, probabilmente, anche meno popolare), perché priva dei connotati psico-sensoriali più adeguati alle mutate aspettative delle nuove generazioni di potenziali fruitori.

Non bisogna assolutamente dimenticare – anzi è importantissimo a mio avviso notarlo – il fatto che la simulazione della partita videogiocata non è riferita alla “realtà”, ma alla sua rappresentazione televisiva. Ovvero il videogiocatore partecipa ad un incontro presentato esattamente secondo gli schemi, le inquadrature e tutte le modalità tratte dalla sua rappresentazione schermica. Ed è precisamente questo l’ambito rispetto al quale sarebbe interessante proporre qualche approfondimento ulteriore in un saggio come quello che stiamo analizzando, provando soprattutto a comprendere gli aspetti neuroscientifici della questione esperienziale.

Anche perché – anche a costo di ripetermi – ho la netta sensazione che, affiancando a quella tecnologica anche l’analisi di altre variabili, l’inutile panico mediatico, e l’inutile determinismo ad esso correlato (così adeguatamente e acutamente messo in evidenza dagli autori) tenderebbe inevitabilmente a lasciare spazio ad un ben più complesso e diversificato quadro analitico di riferimento.

Il Manifesto dell’Oltretecnofobo, che conclude il volume, sintetizza infine i principi ispiratori dell’opera, che mi sento di condividere pienamente: la tecnologia è un prodotto umano, non una minaccia esterna; il digitale è un ambiente, non un nemico da cui difendersi; il futuro non è da temere, ma da progettare collettivamente. Queste affermazioni richiamano una pedagogia della complessità e della responsabilità, coerente con l’idea che ho appena provato a sintetizzare secondo cui il compito degli studiosi non sia tanto quello di proteggere i soggetti con cui si condivide un determinato ambiente tecnologico, ma quello di contribuire ad attrezzarli anche simbolicamente per abitarla con un più adeguato senso critico.


V. Gallese, S. Moriggi, P. C. Rivoltella,

Oltre la tecnofobia.

Il digitale dalle neuroscienze all’educazione,

Raffaello Cortina 2025

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