EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

I giovani e l’eccesso: la costruzione solitaria del sé

di Caterina Fratesi

La crisi dei giovani è la crisi del senso. L’antropologia, è una disciplina strutturalmente orientata al fondamento del (e alla produzione di) senso per vivere. La domanda di senso – rispetto l’origine del mondo come dei micro-eventi della quotidianità – accompagna l’uomo in ogni attimo della sua esistenza, eppure egli non se ne accorge. Neanche il più esistenzialista dei filosofi si sveglia ogni giorno chiedendosi quale senso abbia il suo svegliarsi: e per questo provocherebbe un sentimento di umana angoscia difficilmente sopportabile; e perché, tutto sommato, tale interrogativo non è necessario: il repertorio culturale nel quale egli è immerso fornisce già gli strumenti necessari affinché l’azione quotidiana sia prodotta nell’ambito di un conferimento di senso, cosa che di per sé rende desiderabile l’agire stesso. Conferimento di senso: lo sforzo incessante dell’essere umano nel comprendere le cose che gli capitano, dove comprendere non significa tanto conoscere quanto ri-conoscere, ricondurre la complessità del reale alle categorie consolidate[1]. Dette categorie di orientamento non s’imparano consciamente (non sarebbe il colmo dover studiare per diventare essere umani?) ma sono qualcosa che si respira vivendo in uno spazio, in un luogo e a contatto con gli altri. I processi della socializzazione e acculturazione – cioè il confronto con la necessità di vivere insieme agli altri discernendo comportamenti ideali o viziosi – avvengono tacitamente e producono un sé capace di agire con motivazione, di comprendere il reale[2]. Ma avvengono tacitamente non solo perché l’acquisizione è per emulazione, non riflettuta; soprattutto perché avviene per incorporazione: è il corpo il terreno dell’apprendimento culturale, attraverso di esso s’impara a muoversi, e muovendosi nel mondo ad agire ragionevolmente, e infine tramite l’azione produrre il senso dell’esistenza. Il ribaltamento del dualismo cartesiano, l’idea di un corpo finalmente senziente e non più solo componente naturale ha rivoluzionato dagli anni Sessanta l’antropologia tutta, recando con sé la necessità di ripensare la coscienza stessa[3]. Questo spiega perché il conferimento di senso è in larga parte inconsapevole, dunque dato per scontato: esso avviene tramite l’agire del corpo; il significato è soprattutto qualcosa di agito, più che saputo o pensato. È tramite l’azione che otteniamo quella cornice di senso necessaria all’esistenza umana, che costruiamo la realtà[4]; tuttavia è solo tramite il senso che siamo motivati ad agire.

-Una crisi culturale

Ci fu un tempo in cui il senso era collettivamente condiviso: orizzonti comuni motivavano l’azione. Grandi narrazioni costituivano un’arena per il pensare, l’agire e l’essere. Oggi sono state squalificate: la crisi della gioventù non è solo economica, né psicologica, è prima di tutto culturale. Neanche fossero filosofi esistenzialisti, i giovani vivono il dramma della mancanza di significato del proprio esistere[5]. Manca il senso, una cornice per l’azione. I miti erano capaci di offrirla: essi illustravano il perché di un determinato ordine di cose; la loro efficacia consisteva nel favorire l’agire motivato, riuscivano cioè nella sfida di dire alla gente da dove viene e dove va, suggerendo cosa è necessario fare. La loro struttura persuasiva si basava sulla capacità di integrare le esperienze degli individui in un racconto più ampio concernente il mondo[6]. Anche i miti che puntano a convertire un assunto sul reale sono miti: i movimenti giovanili del secolo scorso hanno senz’altro rappresentato una manifestazione storica del potere capacitante del mito, del suo potenziale a tradursi in azione. I singoli si riconoscevano nel mito, sebbene fossero anche capaci di individualizzarsi: non è questo il compito dell’identità? Per diventare noi stessi si parte sempre dagli altri, in modo che l’identità non sia formale ma puramente relazionale: è necessario specchiarsi nell’altro per riconoscersi. L’appartenenza è alla base del sé[7]; bisogna riconoscere sé stessi in qualcos’altro, aderire ad una narrazione condivisa. Il processo è di astrazione e il risultato consiste nel realizzare la nostra solitudine, che sarebbe meglio chiamare singolaritudine [8]. La dimensione sociale della coscienza è primaria dal momento che sono gli altri ad introdurci alla conoscenza dei simboli (in particolare il linguaggio) tramite i quali s’impara il mondo[9]; anzi lo si plasma, secondo l’assunto per cui gli esseri umani non hanno mai conosciuto il mondo, hanno solo saputo le storie che si raccontano su di lui. Per questo l’antropologia ha quasi del tutto abbandonata l’idea di un sé centrato, nucleo essenziale e armonioso della propria individualità (in-divisa), sufficientemente integrato e sufficientemente dinamico. Sempre più preferisce parlare di dividualità, sottolineando quella componente essenziale dell’identità che riguarda paradossalmente proprio coloro che sembrerebbero esclusi dal concetto: tutti gli altri[10].

La caratteristica fondamentale del mito e del senso è che sono condivisi da gruppi di persone in seno alla società. Tale condivisione è ciò che manca alla postmodernità: mi propongo di sostenere che la condizione dei giovani ne rispecchi le tendenze. Se non è possibile agire collettivamente è perché non si aderisce a una narrazione comune; se questa adesione non avviene è perché si è sempre più restii a riconoscersi completamente nelle narrazioni. L’individuo vive sempre un’eccedenza del sé rispetto ogni categoria; sta a dire che il sé – il protagonista indiscusso della modernità – è sempre in eccesso rispetto a qualsiasi forma di appartenenza: esso trabocca, rifiuta di incasellarsi. Questo parzialmente significa non assolvere il compito dell’identità, perché la stessa identità è una narrazione pratica. Significa anche che sono decaduti i legami tra disagio individuale e mobilitazione sociale perché nessuno si identifica più in un gruppo di riferimento, neanche nel gruppo-nazione. Le visioni del mondo che le appartenenze implicano sono frettolosamente messe da parte, neanche perché intrinsecamente ingiuste o inesatte, ma solo in quanto teorie; ossia perché portatrici di una e solo una interpretazione sul reale che, per sua natura, preclude tutte le altre. Quindi, se parlare di “grande narrazione” non significa linguaggio ma azione, l’aggettivo “grande” non si riferisce solamente alla sua dimensione – ossia all’ampiezza del consenso che è in grado di suscitare – ma anche alla sua unicità: una (o qualcuna) storia che guida l’esperienza e garantisce a quest’ultima un significato. Ora, è evidente che qualsiasi punto di vista sul mondo sia parziale, negoziabile, in questo senso limitato. Il relativismo è un presupposto sul quale si è costituita l’antropologia come disciplina, premendo sul ruolo dell’interprete in qualsivoglia processo ermeneutico. Inoltre ogni costruzione narrativa atta a spiegare la realtà è, almeno in qualche misura, coercitiva perché escludente; tuttavia è proprio l’antropologia a doversi fare carico del diritto al significato, ossia del diritto di ogni persona a disporre di un senso che in qualche modo appare pre-esistente il sé. Anche se ci sono molteplici verità, ciò che l’uomo ritiene vero è realmente vero – così come le condotte che suscita – e in quanto tale deve essere trattato (il che rappresenta anche il miglior giubbotto di salvataggio per ogni antropologo, altrimenti destinato a perdersi tra troppe verità). La crisi del senso dei giovani scaturisce dalla triste verità per cui niente è più vero, tutto è negoziabile[11]. L’era postmoderna preme su questo: l’unica teoria valida è rinnegare tutte le teorie. Il risultato è una sostanza senza forma, una fluidità di scelte libere. Il presupposto, invece, riguarda l’eccesso della modernità: l’affollarsi di punti di riferimento differenti.

-Attrezzi culturali

Quali sono le narrazioni di senso di cui i giovani dispongono nel mondo postmoderno? La domanda è mal posta: la questione non è di qualità ma di quantità. La cassetta degli attrezzi culturali – dispositivi del senso – è piena di gingilli diversi e incomprensibili, tutti pensati come equivalenti, nessuno come assolutamente necessario, tutti legittimi. Fuor di metafora, i giovani nella postmodernità sono, nell’ambito del conferimento di senso all’esperienza, soggetti al proverbiale imbarazzo della scelta. Guidati dal solo principio per cui la libertà di scelta tra diverse destinazioni vale sempre di più dell’eventuale libertà garantita da una sola delle mete. La crisi del senso che investe il mondo giovanile – e che si traduce nella difficoltà di azione – è paradossalmente una crisi dell’eccesso. Non ci sono valori assoluti (che sono stati svalutati) ma troppi significati tra i quali negoziare. La modernità è tutta in eccesso: presenta un sistema-mondo tutto al presente; punti di vista diversi e contraddittori sembrano validi; si affanna costantemente nel superamento del vecchio a favore del nuovo, nel dimenticare il successo ottenuto in vista del prossimo, nell’infinita ottimizzazione. L’unico fine della modernità è la continua modernizzazione[12]. Questo mito moderno segue la decaduta, ormai remota, sia della prospettiva greca di un mondo verticale ordinato gerarchicamente, sia dell’idea giudaico-cristiana, che l’aveva soppiantata, di un mondo orizzontale, ossia sagomato come un vettore che punta alla verità e alla salvezza. Adesso, nell’universo misurabile e relativo della scienza e della tecnica, conosciamo molto ma non sappiamo più niente. Ciò accade perché il mito moderno – il che significa il mondo moderno, il nostro modo di intenderlo e viverlo – fallisce nello scopo di fornire uno scopo. La scienza e la tecnica non plasmano un quadro di senso, non indicano direttive d’azione o morali[13]; viene alla mente la differenza tra il conoscere, basato sulla inconfutabilità dei dati, e il credere, basato sull’esperienza personale e il desiderio[14]. Il risultato è deregolamentato e privatizzante[15].

Oggi i riferimenti tradizionali – i miti, gli dèi, le trascendenze, i valori – sono stati erosi dal disincanto del mondo. […] Il risultato è il politeismo dei valori e l’isostenia delle decisioni, la stessa stupidità delle prescrizioni e la stessa inutilità delle proibizioni. Nel mondo governato dalla scienza e dalla tecnica l’efficacia degli imperativi morali sembra pari a quella dei freni di bicicletta montati su un jumbo[16].

Il moto della tecnica è accelerato: il tempo corre velocissimo al ritmo di una sovrabbondanza di avvenimenti non prevedibili; si ha sempre più l’impressione la propria storia individuale incontri la Storia universale. La complessità storica non può essere più incasellata in nessun mito che ne spieghi l’evoluzione, né tanto meno il progresso – un mito teologico, cristiano, appunto di recente abbandonato. La risoluzione giovanile è quella di sforzarsi di vivere un eterno presente[17]. All’eccesso di tempo si aggiunge l’eccesso di spazio perché tutto è com-presente, accessibile con i mezzi di trasporto o con l’immaginazione: «Ciò che è nuovo, non consiste nel fatto che il mondo abbia poco senso, meno senso, o non ne abbia affatto. Il punto è che noi proviamo esplicitamente e intensamente a dargliene uno: di dare un senso al mondo, non a tale villaggio o a tale lignaggio», in una sorta di «riscatto rispetto questa sovrabbondanza di avvenimenti». Se le categorie kantiane non possono più essere comprese in una cornice di senso non è per qualche sovvertimento teorico ma perché sono in eccesso, dobbiamo dare senso a troppe cose[18]. La confusione dei tempi è particolarmente evidente nei cosiddetti casi di “nostalgia del presente”, che caratterizzano tanto gli adulti quanto i giovani, ossia quei fenomeni culturali che esprimono una sorta di rimpianto verso un passato che non si è mai perduto. I tempi sono sovrapposti, il passato appare come un «deposito sincronico di scenari culturali»[19]. Nessun mito sarebbe capace di integrare tale eccesso armoniosamente, né tanto meno di suonare convincente alle orecchie di ogni individuo in un dato contesto. Quella dei giovani è una condizione di sbandamento perché vengono meno solidi punti di riferimento e tutto il focus è posto sulla scelta individuale[20]. Di fronte ad un mondo sovra-stimolante, saturo di diversità, fluido, nasce l’illusione della piena libertà. Nel momento della costruzione del sé le opzioni sembrano potenzialmente infinite. È stato Appadurai, in un lavoro ormai classico, a postulare l’amplificazione dell’immaginazione umana come caratteristica fondamentale della postmodernità. Il problema è di nuovo di eccesso e di velocità: i flussi di persone, finanze, tecnologie, idee ma soprattutto di immagini contribuiscono alla costruzione di mondi immaginati, cioè al confezionamento di cosmi alternativi. Le immagini costituiscono dei repertori sempre disponibili per la rappresentazione del sé, con il loro carattere adattabile e col confine labile che suggeriscono tra reale e fittizio. All’eccesso di immagini si aggiunge un’inedita possibilità di accesso, al netto dell’avvento dei social network – dei quali Appadurai non poteva sapere ai tempi del suo lavoro. Tali mondi immaginati non sono chimere fantastiche perché sottendono l’azione: sono cioè narrazioni per mezzo delle quali costruire l’azione, l’io e l’altro[21]. Come messo in luce a suo tempo da Durkheim e dal gruppo di Année Sociologique, è necessario prendere sul serio la natura sociale delle rappresentazioni, che non sono distrazioni ma assolutamente plasmative e progettuali. La tecnologia non è un oppio dei giovani, non assopisce le menti, le proietta[22]. Il problema dei mondi immaginati è che sono tanti: i giovani vivono, proprio nel momento in cui il sé deve essere costruito, un’esaltazione inedita dell’opera immaginifica. Dato che ogni ostacolo o sospetto tale pare svuotato di resistenza e non esistono direzioni comuni, ognuno si sentirà libero di una libertà inimmaginabile nel confezionamento della propria esistenza[23]. Essi non si accontenteranno di prendere parte a quella o l’altra immagine pre-costruita: ne fabbricheranno una per loro. Le individualità assomigliano sempre più a puzzle di spunti estrapolati dai loro contesti. Le visioni e i miti sono individuali, fatti dal sé per il sé, interpretazioni disorganiche sul funzionamento del mondo: l’eccesso di ego costituisce un’altra esagerazione della postmodernità, forse la principale. Niente più dell’individualizzazione dei riferimenti ci affama di diritto al significato[24]. A questo proposito qualcuno ha anche parlato di anomia moderna, cioè di quella mancata soggezione alle norme comuni che Durkheim situava all’origine della perdita di fiducia nell’altro, di ogni certezza e in ultima istanza di umana libertà[25]. La norma non è più né indietro, né in alto, ma solamente dentro di sé: non c’è una narrazione dalla quale ribellarsi, noi diventiamo la nostra grande narrazione[26]. È da aggiungere che lo stesso accade quando nel mito è implicato il trascendente – la grande narrazione per eccellenza: anche qui si evidenzia una privatizzazione dei registri, un progressivo affrancamento dagli schemi ecclesiastici o comunque istituzionali, in modo che ognuno possa costruire la propria narrazione cosmica; la stessa tendenza descrive Luckmann quando parla dell’assenza di un «“modello ufficiale”» che lascia ad ogni individuo il permesso di «scegliere tra una quantità di temi di significanza ultima»[27].

-Solitudine e illusione

Questo mito americano di autoaffermazione libera e personale porta con sé due conseguenze essenziali: la prima è la solitudine; la seconda è che esso rimane, tutto sommato, un’illusione. Più immaginazione non significa più felicità, perché fa della vita un compromesso tra ciò che si è in grado di immaginare e ciò che è possibile fare[28]. L’essere umano può molto, ma non può tutto: deve scontrarsi con le contingenze della storia. La stessa cultura ha una dimensione storica, le disposizioni culturali affondano le loro radici nel tempo. Questo significa che il posto che si occupa nella società, le dinamiche di potere e le condizioni economiche rappresentano gli ovvi limiti del proprio agire (ai quali è sottoposto anche il corpo). Come ebbe a dire Marx, «Gli uomini fanno la propria storia, ma non semplicemente come loro aggrada; non la fanno nelle circostanze scelte da essi stessi, ma in quelle nelle quali si imbattono direttamente, date e trasmesse da passato»[29]. Siamo tutti inevitabilmente sottoposti alla necessità di negoziare con le circostanze nel tentativo di dar ragione del nostro vivere, di continuare ad agire. Tutti cerchiamo solamente di stabilire un controllo sulla nostra esistenza. È questa la questione dell’agency[30]; ed è anche la definizione della soggettività nell’era postmoderna: soggetto in quando fondato unicamente su sé stesso, cartesianamente capace di agire e di pensare; ma anche soggetto a quelle limitazioni strutturali dovute alla «posizione in un campo di potere relazionale»[31]. La retorica postmoderna sembra aver dimenticato la storia: l’individuo può riuscire a diventare sé stesso nonostante gli ostacoli; anzi egli deve farlo, e se non ci riesce è colpa sua. Nessuno spazio è lasciato a quelli che sono gli evidenti problemi strutturali che caratterizzano il processo di autoaffermazione; e anche quando sono valutati, la soluzione deve essere biografica: cioè deve essere l’individuo con le proprie forze a vincerli. Questo è l’unico compito di ciascuno, il quale deve adempiere per forza ma soprattutto da solo. La libertà diventa una responsabilità individuale[32], quando è evidente che le strategie dei singoli non potranno mai decretare una rivalsa sulle determinanti strutturali. Gli ordinamenti che impediscono la costruzione del sé non possono essere superati individualmente, sarebbe al contrario necessaria quell’azione collettiva che lo stesso principio di autoaffermazione personale inficia – ecco la questione della solitudine. L’azione collettiva è parsa alle generazioni passate come un luogo in cui il disagio dell’uno incontrava quello dell’altro e dal reciproco riconoscimento scaturiva la forza necessaria all’affermazione del sé, alla libertà. Si ha modo di sostenere che il richiamo di Marx a prendere coscienza del proprio appartenere ad una classe oggi cadrebbe nel vuoto, non produrrebbe nemmeno l’eco. Perché attualmente i problemi individuali non paiono cumulabili in una lotta comune – la quale necessiterebbe che ognuno rinunciasse almeno un po’ alla propria libertà – e la modernità è destinata a fare come il serpente che si morde la coda. È una contraddizione irrisolvibile, dal momento in cui gli individui dovrebbero uscire per un momento dal sé per tentare di sradicare collettivamente quegli impedimenti che ognuno incontra nell’opera di diventare davvero sé stesso. In un contesto ove le comunità appaiono come «effimeri prodotti della commedia dell’individualità» più che «forze capaci di determinare e definire le identità»[33] gli altri non possono lottare insieme a me, possono al massimo rappresentare altre entità sole, altre solitudini che come me lottano, trovano soluzioni biografiche. Io non provo comunità con loro, provo similitudine. Ma l’ego ha bisogno di comunità: la troverà solamente pubblicizzando il privato, il sé, l’intimità (il privato che affolla il pubblico, invece del pubblico che si preoccupa del privato), in quei luoghi ove «molti individui solitari appendono le loro solitarie paure individuali», che sono comunità effimere unite da ansie, preoccupazioni e odi – neanche Bauman poteva sapere di Facebook[34].

Non solo: se le alternative sono troppe forse è meglio non scegliere. A fronte di un flusso costante e cangiante nessuna opzione è davvero seducente e si può preferire rimanere liquidi, privilegiare la condizione in cui la possibilità di scelta è ancora effettiva[35]. L’identità resta allora un compito sì solitario, ma anche aperto, non concluso.

-La postmodernità

            La postmodernità disegna i confini della condizione giovanile attuale. Le identità trovano difficoltà a riconoscersi nell’altro, dunque ad essere. Non ci si confronta più con i principi universali – con le categorie, con le classi – se non individualmente, in un processo frammentario di riconoscimenti[36]; c’è chi ha detto che, prima o poi, tutti dovranno fare coming out, cioè dichiarare apertamente limiti e condizioni del proprio appartenere, tanto è imprevedibile, originale e dettato dal desiderio. Il sé è difficile da costruire e dunque è difficile pensare al futuro, perché gli eventi della Storia universale, combinati alla nostra biografia, ne fanno una minaccia incombente più che una promessa[37]. Il focus sull’individuo ha inoltre trasformato la critica sociale in auto-critica, autocondanna e disistima, dal momento che la colpa dei propri insuccessi pare tutta personale; ciò genera insicurezza[38]. La conseguenza non è una malattia, è solo tristezza, peggiorata dal fatto che – venuti meno gli strumenti culturali, dunque il linguaggio – è impossibile verbalizzarla; appunto manca la cornice di senso, e dunque il linguaggio adatto a parlare del mondo[39]. Si apre inoltre il problema dell’acculturazione in un periodo di grandi mutamenti: come possono i piccoli gruppi, in particolare le famiglie, riuscire nel processo di trasmissione della cultura in un momento in cui le vecchie narrazioni non valgono per il nuovo, in cui determinati schemi efficaci in passato risultano scardinati al fondamento, in cui è comunque necessario produrre nuove interpretazioni sugli avvenimenti? In un momento pieno di risorse per generare contro-nuclei identitari rispetto quello dei genitori? Il problema della stabilità della conoscenza non è nuovo ma ora caratterizza il sistema-mondo nella sua interezza[40].

Al netto delle conseguenze nefaste del pensiero unico, al rischio dell’ideologia come sistema di potere è necessario porre l’accento anche sulla fecondità positiva del postmodernismo, che riguarda, appunto, lo sradicamento delle opinioni totalizzanti, unilineari e passive a favore della visione complessa[41]. La postmodernità esalta quella che gli antropologi definiscono agency umana, cioè quella qualità in virtù della quale le persone non introiettano mai passivamente ciò che viene dall’esterno, ma producono critica. Non serve scomodare Socrate per mettere in luce come nessuno sia una tabula rasa: tutto ciò che apprendiamo, consciamente o no, è passato al vaglio della nostra coscienza; da ciò ne consegue che la nostra adesione e a determinate narrazioni è sempre assolutamente originale, creativa, tant’è che punti di vista simili sono da considerarsi spesso eccezioni. Il fatto che tutto sia relativo di certo non serve a concludere che niente sia vero. Ma l’essere umano è dotato di agency: è capace, cioè, di negoziare di volta in volta il proprio condividere determinate narrazioni, proiettando quanto di più personale su di queste, in questo senso trasformandole. La capacità trasformatrice dell’uomo non deve passare in secondo piano, come invece vorrebbe l’attuale adempimento del mito sessantottino “niente padri né maestri” – che, per inciso, era giustamente motivato per ragioni storiche – secondo il quale ciò che viene da fuori rappresenta sempre e comunque una minaccia al libero pensare creativo, invece che un’ispirazione. Ad oggi sembra necessario puntare sul proprio potenziale e la sfida è farlo convergere con quello dell’altro. Se il disagio è culturale anche la soluzione deve ruotare intorno all’importanza del significato collettivo, dei legami di solidarietà[42]. Tenendo a mente che la libertà positiva che scaturisce dalla relazione con l’altro, con le altre libertà, non deve essere pensata soffocare quella libertà negativa dello scegliere per sé, dell’autoaffermazione libera[43]. E che il senso non è mai qualcosa che meramente cade dall’alto, perché la cultura non si riceve, si fa: il senso non è dato, è sempre agito.

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[1] Augé M. (2012), Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Peschiera Borromeo (MI): Elèuthera, p. 55 [1992].

[2] Schultz E. A. – Lavenda R. H. a cura di (2015), Antropologia culturale, Bologna: Zanichelli, p. 126 [1978].

[3] Pizza G. (2021), Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Città di Castello (PG): Grafiche VD srl., pp. 29-58 [2005].

[4] Bauman Z. (2002), Modernità liquida, Roma-Bari: Editori Laterza, p. 5 [2000].

[5] Galimberti U. (2007), L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Milano: Feltrinelli Editore, pp. 12-13.

[6] Schultz – Lavenda, Antropologia, op. cit., pp. 157-158.

[7] Cfr. Erikson E. (1968), Introspezione e responsabilità. Saggi sulle implicazioni etiche delle introspezioni psicanalitiche, Roma: Armando [1964].

[8] Aletti M. (2018), Psicologia, persona, religione: una prospettiva psicodinamica, in Oltre i “paradigmi del sospetto”? Religiosità e scienze umane (Caputo M. a cura di), Milano: Franco Angeli srl, p. 63.

[9] Cfr. Vygotsky L. (1978), Mind in Society: The development of higher psychological processes, Cambridge: Harvard University Press.

[10] Pizza, Antropologia, op. cit., p. 62.

[11] Galimberti, L’ospite inquietante, op. cit., pp. 15-20.

[12] Bauman, Modernità, op. cit., p. 18.

[13] Galimberti, L’ospite inquietante, op. cit., pp. 15-18.

[14] Aletti, Psicologia, persona, religione, op. cit., p. 57.

[15] Bauman, Modernità, op. cit., p. 20.

[16] Volpi F. (2004), Il nichilismo, Bari: Laterza, pp. 175-176 [1996].

[17] Galimberti, L’ospite inquietante, op. cit., p. 28.

[18] Augé, Nonluoghi, op. cit., pp. 40-48.

[19] Appadurai A. (2012), Modernità in polvere, Milano: Raffaello Cortina Editore, pp. 42-43 [1996].

[20] Ivi: 60-61.

[21] Ivi: 49-50; 74.

[22] Ivi: 11-15.

[23] Bauman, Modernità, op. cit., p. 10.

[24] Augé, Nonluoghi, op. cit., p. 44.

[25] Bauman, Modernità, op. cit., p. 9; Cfr. Durkheim É. (1897), Le suicide. Étude de sociologie, Paris: Félix Alcan.

[26] Bauman, Modernità, op. cit., p. 21.

[27] Luckmann T. (1969), La religione invisibile, Bologna: Il Mulino, p. 148. [1967]. L’esito estremo di questa privatizzazione del sacro sarebbe lo sheilaismo, ossia la religione soggettiva di una donna di nome Sheila Larson, di cui ci parla Bellah in Bellah R. N. (1996), La religione, in Le abitudini del cuore. Individualismo e impegno nella società complessa (Bellah R. N. – Madsen R. – Sullivan W. M. – Swidler A. – Tipton S. M. a cura di), Roma: Armando, pp. 279-316 [1985].

[28] Appadurai, Modernità, op. cit., p. 74.

[29] Marx K. (1963), The 18th brumaire of Louis Bonaparte, New York: International, p. 15 [1852].

[30] Schultz – Lavenda, Antropologia, op. cit., p. 19.

[31] Das V. – Kleinman A. (2000), Introduction, in Violence and Subjectivity (Das V. – Kleinman A. – Ramphele M. – Reynolds P. eds.), Berkeley: University of California Press, p. 1.

[32] Bauman, Modernità, op. cit., p. 7.

[33] Ivi: 11.

[34] Ivi: 23-49.

[35] Ivi: 74-75.

[36] Ivi: XII-XIII.

[37] Galimberti, L’ospite inquietante, op. cit., p. 28.

[38] Bauman, Modernità, op. cit., p. 31.

[39] Galimberti, L’ospite inquietante, op. cit., p. 11.

[40] Appadurai, Modernità, op. cit., pp. 59-60.

[41] Acone G. (1992), La paideia difficile del tramonto della modernità, in Paideia e qualità della scuola (Acone G. – Bertagna G. – Chiosso G. a cura di), Brescia: La Scuola, p. 102.

[42] Galimberti, L’ospite inquietante, op. cit., p. 30.

[43] Tempesta M. (2018), Rotture epistemologiche, semantiche dell’umano, educazione alla religiosità, in Oltre i “paradigmi del sospetto”? op. cit.,pp. 166-168.

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