di Gianfranco Giudice
Parlare oggi di identità è difficile, il pensiero va al ritorno di ideologie che hanno segnato tragicamente il secolo passato, quando in nome dell’identità etnica e razziale, fondata da teorie pseudoscientifiche, sono stati massacrati milioni di esseri umani. Il pensiero va alla prima guerra mondiale, quando in nome del nazionalismo, ovvero della identità nazionale spinta fino al limite della supremazia assoluta, si è consumata quella che papa Benedetto XV definì con una espressione celebre quanto tragica “inutile strage”, segnando con questo una svolta epocale nel pensiero cattolico sulla guerra. Nell’800 l’affermazione dell’identità nazionale ha portato alla nascita dell’idea di patria, ovvero la terra in cui si nasce diventa è il pater, la matrice, l’origine di ogni individuo. Come scrive Alessandro Manzoni nell’ Ode marzo 1821, ciò che identifica l’appartenenza ad una comunità nazionale è il sentirsi Una d’arme, di lingua, d’altare / Di memorie, di sangue e di cor. Si tratta dunque di qualcosa di materiale, materico e corporeo, non di astratto ee concettuale; pensiamo in particolare alla lingua che si parla, oppure al sangue. Nell’800 la costruzione dell’identità nazionale ebbe un significato progressivo, perché storicamente si univa alla affermazione dei principi di libertà e democrazia, ovvero alla nascita del cittadino che prendeva il posto del suddito dell’Ancient Regime; questo processo prese inizio con la Rivoluzione francese. Lo Stato si identifica a partire dall’800 definitivamente con la nazione in Europa e dal Vecchio continente lo Stato-nazione sarà esportato in altre parti del mondo; pensiamo all’Africa con la colonizzazione europea, oppure all’assetto del Medioriente dopo il crollo dell’impero ottomano alla fine della Grande Guerra. Anche la fine di un altro grande e secolare Impero, quello asburgico nel 1918, lascerà posto alla nascita di diversi Stati nazionali nell’Europa centrale ed orientale, così come il crollo dell’Impero zarista. Essere cittadino di uno Stato-nazione pertanto si accompagna storicamente al diventare titolare di diritti di libertà e di partecipazione democratica. Spagna, Portogallo, Francia e Inghilterra diventano monarchie nazionali già a partire dalla fine del XV secolo. Lo Stato è entità amministrativa e organizzazione territoriale; la nazione ha a che fare invece con l’appartenenza naturale, è legata al nascere da cui deriva la parola natura, attraverso la lingua, la religione, le tradizioni, si radica in una medesima e comune identità. Nell’epoca in cui si afferma la forza ed il protagonismo storico degli Stati-nazione, l’identità nazionale ha un valore positivo, progressivo. Gli Imperi multinazionali e multietnici venivano relegati nel passato, il presente ed il futuro tra ‘800 e ‘900 è degli Stati con una forte identità nazionale.
Sappiamo che la storia umana è di per sé aporetica, densa di contraddizioni, a volte tragiche; così se guardiamo al “secolo breve” possiamo vedere che è proprio dall’identità nazionale che si fa nazionalismo estremo che nasceranno le ideologie fascista e nazista (nazionalsocialista); in Unione sovietica (uno Stato comunque non nazionale bensì federale) lo stalinismo sarà la traduzione in termini di socialismo nazionale grande russo, della teoria marxista che diventerà ideologia marxista-leninista-stalinista. Non possiamo non ricordare come alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale esistesse una componente, seppure minoritaria del socialismo europeo, tra cui i socialisti italiani e i bolscevichi russi con Lenin, che fedeli all’ideale internazionalista del marxismo, condannavano la guerra in nome del patriottismo e delle bandiere identitarie nazionali, dietro le quali i socialisti vedevano la contesa tra gli interessi nazionalistici del capitale per la spartizione delle sfere di influenza nel mondo, laddove gli interessi della classe operaia e del proletariato erano comuni, andando al di là delle diverse patrie. Dunque la doppia faccia dell’identità nazionale era già chiaramente visibile un secolo fa, seppure nella testa di pochi visionari.
Per comprendere meglio il disastro a cui può condurre una errata affermazione del principio di identità, dobbiamo rivolgerci alla logica, perché è questa che costituisce in ultima istanza l’ossatura fondamentale del pensiero, della vita e della storia. Cosa dice i principio di identità? Ci dice che A=A e non è ≠ da A, identità e non-contraddizione. Si pensa generalmente che tale principio risalga ad Aristotele; in realtà non è così, perché per lo Stagirita le proposizioni sono sempre composte da un soggetto e da un predicato differenti; per questa ragione non ha senso dare una formulazione in cui invece di due termini diversi come soggetto e predicato, compaia il medesimo termine, ovvero “A” identificato con se stesso. La più corretta formulazione del principio aristotelico è dunque la seguente: A o è B o non è B, tertium non datur. Aristotele non parla di identità e di non-contraddizione, inteso come divieto di contraddirsi, ma di principio di contraddizione, ovvero come scaturisca la contraddizione da cui discende come corollario l’esclusione di una terza possibilità tra A=B e A≠B. Sarà Hegel molti secoli dopo a criticare il principio di non-contraddizione, nel senso che ciascuna cosa porta in sé la contraddizione, essendo contemporaneamente sé stessa e diversa da tutte le altre con cui è necessariamente in relazione, questo in virtù del principio riconosciuto fin dai tempi di Platone, per cui omnia adfirmatio est negatio, ovvero ogni ente è in relazione con ogni altro ente, poiché ogni cosa si definisce come se stessa e contemporaneamente come diversa da ogni altra, come Platone spiega nel Sofista con la teoria del generi sommi. In tal senso non esiste contraddizione se noi allarghiamo lo sguardo dal singolo al tutto entro cui ogni singolarità è necessariamente ricompresa. Il principio di identità inteso come A=A va più in realtà correttamente fatto risalire a Leibniz, filosofo, logico e matematico del ‘600. Il filosofo tedesco afferma infatti nell’ambito della sua monadologia un principio fondamentale, che senza dubbio ha origine anche dagli studi leibniziani sul calcolo infinitesimale di cui è inventore insieme a Newton, ovvero il principio della identità degli indiscernibili. Questo principio dice che non possono esistere due cose identiche, cioè due cose con tutte le proprietà identiche, perché in tal caso sarebbero la stessa cosa. Detto in altri termini, per Leibinz se A=B allora A e B sono la stessa cosa e non due cose diverse che si identificano, per questa ragione ha senso scrivere A=A, B=B, C=C ecc. Nella scala dell’essere che ha come proprio vertice la monade prima che è Dio, ogni altra monade ha una propria identità diversa da ogni altra monade, e non possono esistere due monadi identiche. E’ evidente tuttavia come anche per Leibniz esista un punto panoramico e assoluto dell’essere, tale perché in grado di rappresentarsi perfettamente e in modo completo ogni altra monade e di porre ognuna di queste in armonia con tutte le altre. Insomma, l’identità di ogni monade è possibile solo perché esiste ontologicamente un principio assoluto che pone in relazione armonica (il filosofo tedesco parla di armonia prestabilita) ogni singola sostanza con il resto del mondo. Dunque senza relazione non può neppure esistere identità e singolarità, la relazione assoluta è garantita da Dio.
Il principio di identità inteso come A=A viene messo radicalmente in discussione secondo una prospettiva assai interessante dal filosofo tedesco Fichte. Fichte pone una questione cruciale per comprendere il senso stesso dell’identità, quando afferma che è impossibile porre l’identità di qualcosa con se stessa, se preliminarmente il pensiero non abbia riconosciuto se stesso, ovvero se prima non sia comparsa l’autocoscienza; in termini fichtiani se l’Io non pone se stesso, ovvero Io=Io. Il principio di identità (A=A) non è dunque per Fichte la legge fondamentale del pensiero, perché mai si potrebbe affermare l’identità A=A, se prioritariamente il pensiero non abbia posto e riconosciuto se stesso. Pensiero ovvero Io, nel linguaggio fichtiano, significa il pensare universale, collettivo, l’attività del pensare come pratica specifica dell’essere umano, da cui trae vita ogni singolo pensare, nel linguaggio di Fichte l’io. Il pensiero inteso come pratica comune nasce insieme al linguaggio, dato che sarebbe inconcepibile un pensare senza un dire come insegna Parmenide. Ma il dire, il linguaggio cosa sono nella loro essenza? Comunicazione, ovvero messa in comune, relazione; dunque affermare l’identità è impossibile a prescindere dall’orizzonte della comunicazione, della relazione con l’altro e dalla messa in comune. Chi afferma l’identità con se stesso, A=A, B=B,C=C ecc. e magari lo fa orgogliosamente, dimentica sempre che tale atto sarebbe impossibile senza la dimensione del comune, l’io è impensabile senza il noi, come la singola onda del mare non potrebbe esistere senza il grande mare che la comprende e gli dà la vita. Certamente vale anche il contrario, cioè il Noi è impossibile senza i singoli io, come il grande mare senza tutte le sue singole onde.
L’uomo è nella sua essenza relazione, la sua identità è frutto di indefinite relazioni costruite nel tempo, a partire dalla relazione originaria che ci ha messo al mondo, ovvero quella tra i nostri genitori, da cui nei primi anni della nostra vita dipendiamo totalmente. A partire dal linguaggio che parliamo, frutto e prodotto di una lunga storia collettiva come per esempio è la storia che ha portato attraverso i secoli alla formazione della lingua italiana; per proseguire con l’educazione che ciascuna persona riceve da altre persone, anch’essa radicata in una lunga tradizione collettiva, e poi tutto il tessuto complesso delle relazioni che costituiscono la nostra vita, comprese le relazioni virtuali, ne risulta che ogni singola esistenza è un nodo, un intreccio complesso di relazioni e interazioni vive e vissute storicamente. Insomma l’identità è relazione. La cosa appare evidente anche se osserviamo il successo dei social network, ovvero una rete mondiale dentro cui sono connessi milioni di individui che interagiscono 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Perché il successo di tutto ciò, se non in virtù della natura reticolare della identità personale? Nel deserto delle relazioni l’uomo muore, la sua mente è deprivata, la stessa malattia mentale è inspiegabile senza considerare la rottura del tessuto vivo delle relazioni, dentro cui si definisce l’esistenza di ogni essere umano. Eraclito diceva che il logos è comune, ovvero il pensiero, la ragione sono la messa in comune delle singolarità. Dunque l’identità di ognuno di noi è impossibile, se ci sleghiamo dal tutto dentro cui siamo compresi da quando veniamo al mondo. Se proviamo ad immaginare una identità senza relazione, dobbiamo fare una astrazione dalla realtà della vita e pensare ad un atomo che viaggia nel vuoto assoluto. A cosa si ridurrebbe in tal caso l’esistenza? L’identità senza la relazione, ci insegna la storia e la logica, sarebbe simile ad un inferno, perché se l’identità non sta insieme alla consapevolezza della parzialità dell’identico, dunque non sia apre alla relazione, allora è davvero l’inferno; l’esistenza si trasformerebbe in una fortezza inespugnabile che tocca la follia. L’identità pertanto è una maschera ambigua, che nasconde al proprio interno la vita e la morte, la luce e il buio; è una medaglia con due facce. Una faccia è aperta alla relazione e alla vita, dunque è la mia identità -in- relazione-con- l’altro; la seconda è l’identità come separazione dall’altro, ovvero la maschera della morte.
[wp_objects_pdf]