EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Il Caos ordinato. Visioni cosmologiche tra Torah e Antico Egitto. Contributi alla fenomenologia della disperazione e della speranza.

di Primavera Fisogni

 

I.In principio un ordinato disordine

«In principio Dio creò il cielo e la terra. Ma la terra era disadorna e deserta: c’erano tenebre sulla superficie dell’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque» (Gn 1, 1-2)[2].

 Il racconto della creazione, secondo la Torah – o La Legge, la prima sezione della Bibbia ebraica – offre al lettore un potente affresco cosmologico, che tuttavia sfugge da subito all’idea di “cosmo” come ci viene consegnata dalla classicità, ovvero di una realtà in cui l’ordine prevale sul disordine e ad esso s’oppone, pur essendo le due polarità intrinsecamente collegate. Se, dunque, di tradizione cosmologica dobbiamo parlare, di fronte all’esordio biblico, ci è richiesto di approcciarla mettendo tra parentesi le categorie sviluppate dal pensiero greco. Fin dal principio – b + reshit  della lingua ebraica è anche il nome del libro iniziale del Primo Testamento – racconta la storia di un ordine cosmico non completamente ordinato, che potremmo anche dire “in progress”. Ogni periodo, infatti, esprime un passaggio, come l’aggiunta di un tassello, fino al completamento del progetto di Dio, con il riposo del settimo giorno, seguito alla benedizione del lavoro fatto nel corso dell’intensa settimana di creazione.[3]

E tuttavia, la creazione resta un processo, una dinamica che non si può dire effettivamente compiuta, dal momento che – leggiamo nella Lettera ai Romani 8,23 del Nuovo Testamento –: «tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo». Come nota il teologo Piero Stefani:

«Nella Lettera ai Romani è contenuto un confronto illuminante, in cui ben si vede in che consiste la differenza tra guardare al mondo come ad un “cosmo” ordinato e osservare il creato con un occhio illuminato dalla presenza della rivelazione».[4]

Per quanto assurdo possa sembrare, persino l’idea evoluzionistica presenta una parentela più stretta – con il concetto cosmologico semitico/biblico – rispetto all’idea di un universo regolato in ogni suo dettaglio da un demiurgo. Considerata una svolta epocale, la dichiarazione di Papa Giovanni Paolo II a proposito della creazione continua[5], che caratterizza l’universo, e costituisce il segno della dinamica dell’essere creaturale, si presenta come un avallo o una ripresa del significato più originario della cosmogonia biblica. Obiettivo di questo breve saggio sul pensiero semitico di creazione/cosmo/caos è di mostrare come la dimensione per così dire “caotica” di un mondo in costante dinamismo, nonostante la presenza di un impianto ordinato di regole fisiche, trovi proprio nel Creatore il suo baricentro. E che, di conseguenza, la prospettiva biblica ci consegna una visione di un ordinato disordine (cosmico) che 1) possiede una logica ben precisa all’interno dell’Universo e delle realtà create e che 2) non può essere in alcun modo, nemmeno nei casi più estremi o disastrosi, fonte di disperazione. Il Dio della Bibbia non è solo un Essere onnipotente che, potendo tutto, ha creato il cosmo, ma una Persona in relazione con le sue creature, in un atteggiamento dinamico espresso in tutte le sue manifestazioni, a partire – appunto – dalla genesi del mondo. In una prospettiva completamente antitetica si colloca la cultura coeva dell’Egitto antico, che – non conoscendo un Dio creatore, nonostante la complessa cosmogonia  – guarda al caos come a forze distruttive dell’equilibrio e del mondo.

Se ciò succede è per l’assenza di un Dio aperto al dialogo, sempre presente nella storia dell’uomo, anche in veste di creatore, non essendo pensabile alcun esaurimento della sua potenza e della sua creatività, dal momento che la Creazione ne esprime la gloria.

 1.1 Tohu wa vohu

 «1) Bereshit bara’ ‘elohim et hassamaim we’et ha’arez. 2) Weha’arez haieta tohu wavohu (…)».[6]

 Il glorioso inizio della Bibbia, relativo alla potenza creatrice di Dio, dura solo un attimo, quasi il tempo di un battito di ciglia, dal momento che già il secondo verso evoca uno scenario alquanto deprimente. Il redattore ci avvisa, infatti, dell’incompiutezza del creato: letteralmente il prefisso we, posto davanti a ha’arez (la terra) significa “e”, quindi esprime non tanto un avversativo (“ma”), come solitamente viene tradotto, bensì introduce a una proposizione paratattica, dove la congiunzione “e” indica una continuità con la precedente frase (letteralmente: «In principio creò il Signore i cieli e la terra»). Com’era, dunque, la terra? Per descriverne lo stato ancora imperfetto, tutto da definire, è impiegata un’endiadi: tohu wavohu. La prima parola – tohu – rinvia alla desolazione, all’idea di deserto, di vuoto e di niente, ma si colora precisamente di una dimensione inquietante dinamica nel termine thom o thum, in cui è presente la medesima radice consonantica (th). Al punto che, in relazione alle acque, la parola si può tradurre con movimento caotico o come abisso. Proprio di “abisso” parla sempre il verso II di genesi: wtsek al pne thom. Lo possiamo rendere, in forma letterale: «E c’erano tenebre al cospetto dell’abisso».

La versione “sulla superficie” – scelta dai traduttori della Conferenza Episcopale Italiana – è sicuramente appropriata dal punto di vista narrativo e figurativo, tuttavia nel testo originario ebraico troviamo “al pne”, ovvero una particella “l” (in “al”) indicante dativo/stato in luogo e “pne”, la cui radice “pe” esprime il volto. Frequente, nell’Antico Testamento, la formula: “lifnè adhonai”, al cospetto di Dio, dove quel “lifné” è esattamente “l + pne” con la “p” nella sua versione “esplosiva”, vale a dire la lettera “f”. La parentesi linguistica-filologica serve per rafforzare il significato di caos dinamico, laddove il traduttore della Cei ha preferito porre in luce la dimensione di incompiutezza del creato.

Quanto al secondo elemento dell’endiadi, vohu, che nel testo biblico viene preceduto dalla congiunzione we (“e”), le due accezioni sono precisamente “vuoto” e “caos”. Dunque, siamo di fronte a un movimento degli elementi naturali, a una tensione generativa alla quale, ritornando alla Lettera ai Romani e a  San Paolo, si può dire: «tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto». Il quadro generale trasmesso dal racconto biblico è quello di elementi che stanno prendendo forma. L’idea primigenia di caos si rapporta, più che alla confusione, alla mancanza di completezza: all’assenza di una forma, per impiegare un termine desunto dalla filosofia che, vedremo, sarà materia di discussione fin dai Padri della Chiesa. Ciò che viene percepito, in prima battuta, è il disagio a fronte di una creazione dove la materia appare informe, nonostante l’azione di Dio. A leggere le primissime battute di Genesi, per altro, si coglie qualcosa di molto interessante e di non detto, ma decisivo sia per comprendere il senso autentico della coppia cosmo/caos nella prospettiva biblica, sia per interpretare la condizione umana nella storia, alla luce delle parole di fede.

Quello che si trascura è la “libertà” degli elementi e, insieme, la vigile presenza del Creatore. L’assenza di una forma, nello stato nascente del mondo, non significa che la materia non ne abbia una – questa, come vedremo, sarà la grande soluzione teoretica di Tommaso d’Aquino nel suo De Potentia Dei –: sta ad indicare il carattere dinamico, diveniente, della creazione. A fronte di questo caotico abisso, ritroviamo Dio. Leggiamo: weruah ‘elohim mrhefetal-pne hammaim. («E lo spirito di Dio aleggiava al cospetto delle acque»).

La parola ruah principalmente il soffio, l’alito, rinvia a una componente spirituale che possiede anche una componente materica.[7] Evocare questa presenza significa che il Creatore contempla la sua opera, in una posizione di distacco, che è poi lo spazio del “lasciar essere” e della libertà del creato. Nel medesimo tempo, però, ci viene segnato che il soffio di Dio era lì, a precisare che non siamo di fronte a una presenza algida, quanto piuttosto a una Persona in relazione. Non è tanto il fiato sul collo di Dio ad essere evocato, ma la sua presenza vitale, che – nel corso del racconto biblico di Genesi 1 – darà vita a un cosmo in cui l’uomo e la donna sono chiamati ad essere con l’alito divino.

L’insegnamento cosmologico delle primissime battute del libro Bereshit consegna anche una riflessione di più ampio respiro, di natura antropologica, che lo distanza nettamente dalla tradizione egizia antica, ad esempio. Il caos del mondo, sia fisico, sia politico, sia esistenziale, frutto del “lasciar essere” delle creature, non è mai avulso dalla presenza del Dio creatore. Fin da principio, questo è la parola chiarissima di Genesi, il Signore aleggia – un termine suggestivo, dall’indiscussa carica poetica – accanto alle problematiche umane.

L’idea di caos, così come viene consegnata dall’endiadi toho wavohu ricorda certamente l’intuizione greca del Χάος, Cháos come uno spazio vuoto con carattere generativo, un abisso spalancato[8] (si fa derivare il termine dalla medesima radice presente in chàsko, lo spalancare della bocca)[9]. Tuttavia sussiste una differenza radicale: l’abisso caotico greco genera il cosmo, nelle sue varie espressioni, mentre il tohu wavohu ebraico esprime il divenire della materia informata da Dio, in un processo di progressivo perfezionamento, in direzione del Creatore stesso.

 1.2. Ma la terra era disadorna e deserta

La bellezza poetica e la grandiosità teologica della creazione da parte di Dio onnipotente ed eterno, come viene narrata dalla Torah, ha posto un’aporia molto complessa al pensiero antico, a partire dai Padri della Chiesa (Basilio di Cesarea e Gregorio Nazianzeno) e da Agostino. Al centro, un dilemma che chiama in causa l’ordine e il disordine, il cosmo e il caos, brevemente accennato nei paragrafi precedenti. In breve: com’è possibile che il Creatore abbia dato vita alle cose nel tempo, e non simultaneamente? E poi, è stata creata la materia inerte o quella con impresse le forme delle cose, cioè le loro strutture portanti? C’è quell’espressione – disadorna e deserta, tohu wa vohu – che fa parecchio problema. Alla questione il sommo Tommaso d’Aquino, filosofo e teologo del XIII secolo ha dedicato la IV e la V Quaestio del suo trattato De Potentia Dei[10]. Il Doctor Angelicus si chiede:

 

  • Se la creazione della materia informe abbia preceduto in ordine di tempo la creazione delle cose.
  • Se la materia informe sia stata creata tutta insieme o in momenti successivi.

 

Come sua abitudine, Tommaso cerca argomenti il più possibile condivisi e solidi, desunti dall’osservazione della realtà, misurati alla luce della auctoritates teologiche e filosofiche più in voga nella Scuola, per poi giungere a conclusioni ben salde sui propri presupposti. Tra le principali obiezioni al fatto che la materia fosse informe, ce ne sono due che rivelano la facilità dell’Aquinate nel muoversi tra filosofia e teologia, mantenendo ben distinti i due ambiti, ma con risultati in grado di soddisfare entrambi gli approcci. Dal punto di vista di Dio, essendo «agente perfettissimo», si deve concludere che «produsse la materia perfetta fin da principio, dotata insieme della forma, perché la forma è la perfezione della materia»[11]. Sul piano strettamente ontologico, ovvero dell’essere proprio di quell’atto – la creazione – Tommaso evoca il rapporto tra potenza e atto. In particolare, egli assume che, se «mancava ogni forma, allora era soltanto in potenza, e non in atto; nel qual caso non era ancora creata, perché la creazione si riferisce all’essere in atto». Arriva progressivamente alla soluzione, il nostro Doctor Angelicus, mostrando i significati diversi che si attribuiscono a “materia informe”, nei commenti al libro della Genesi: e così, “la terra era informe e vuota”, secondo la traduzione a cui fa riferimento, poteva esprimere due concetti. In primo luogo che la materia sia da intendersi come «se essa fosse senza ogni forma e tuttavia esistente in potenza, in relazione a tutte le forme». Peccato, nota Tommaso, qualcosa del genere non esista, dal momento che «tutto quanto si trova in natura esiste in atto e non possiede una materia se non per una forma che è il suo atto e pertanto non si trova in natura senza forma»[12].

La soluzione a cui perviene l’Aquinate è che «l’informità della materia non va intesa come se essa fosse priva di ogni forma»[13] ma come un progressivo esplicarsi della perfezione in essa inscritta. «Ad un agente perfetto conviene produrre un effetto perfetto – spiega il filosofo – Ora non è necessario che questi sia subito in principio assolutamente perfetto secondo la sua natura, ma basta che lo sia in rapporto ad un tempo determinato: in questo senso si può dire che il bambino appena nato è perfetto».[14]

Superata l’aporia, possiamo ritornare alle tradizioni preclassiche.

II. Sinuhe, ovvero la disperazione del disordine cosmico

L’improvvisa morte del re, il faraone Senwosret, manda in crisi Sinuhe, un cortigiano con ruolo importante nella Residenza del sovrano[15]. L’ansia lo divora. Non sa cosa gli succederà e questo gli procura una crisi di panico. La ragione non serve a nulla, in momenti così difficili, e anche Sinuhe si lascia prendere dall’emotività. Abbandona la corte, i figli del faraone, le stanze della regina – presso cui svolgeva il proprio ruolo – e scappa via. Parte nottetempo, come fosse un ladro o un assassino. Sappiamo che non ha commesso nulla di male. Ma il caos politico e amministrativo che si sta preparando in città lo destabilizza. Avventure continue lo attendono sulla strada del deserto libico ed oltre, nell’immediato e negli anni a seguire, fino al momento in cui il re succeduto a quello servito da Sinuhe si interessa al suo caso, mandando messaggeri per convincerlo a far ritorno in Egitto: ormai anziano, con la gioiosa prospettiva della restituzione dell’onore dovuto al suo ruolo, e con l’aspettativa ancora più felice di una sepoltura secondo le tradizioni, canta la gloria del faraone e la restituzione alla società civile. Si tratta di una narrazione postuma, giacché Sinuhe è defunto: la sua anima ci informa di ogni passaggio, a partire da quel giorno in cui:

jw Hnw m sgr, (jw)/  jb.w m gmw (Sin. R 8-9)

la Residenza era nel silenzio,/ e i cuori erano in lutto[16]

Il racconto, composto nella II metà della XII dinastia, attorno al 1875 a.C., subito dopo la morte del re Senwosret I, è considerato uno dei capolavori assoluti della letteratura dell’Antico Egitto. Lo era certamente anche nell’antichità, se pensiamo che le copie superstiti più antiche della storia – su papiro – datano il regno del faraone Amenemhat III e, come risulta da altre fonti, «è stato letto per almeno 750 anni».[17] Anche oggi, superato lo scoglio dei riferimenti all’epoca faraonica, la narrazione coinvolge e appassiona, per la consonanza con i temi-chiave della condizione umana. Ma c’è un motivo per cui scegliamo proprio il racconto di Sinuhe in questo breve saggio. La nozione di caos/cosmo in essa contenuta, oltre ad appartenere all’epoca pre-classica, rappresenta il contraltare di quella della Bibbia, di cui sono stati tratteggiati alcuni aspetti essenziali.

Precisamente, e in modo un po’ succinto, possiamo dire che – mentre il disordine dell’universo, in Genesi, risulta sempre orientato verso un fine redentivo, per l’uomo e per le altre creature, da Dio, che è creatore – in Sinuhe si riflette la visione dominante della cosmogonia egizia. La quale non ha la sua origine nell’atto di un unico, assoluto, onnipotente creatore, bensì in un Pantheon frammentato, sostanzialmente distratto nei confronti delle creature e, in particolare, dell’uomo[18]. Inoltre, la fragilità del rapporto con le divinità, oltre alla dispersione degli interlocutori, assomma la temporalità finita del faraone. Da un lato, il re dell’Egitto antico fa proprie le prerogative del dio-creatore, essendo egli stesso una divinità e figlio di dio; dall’altra, la finitudine connaturata alla condizione umana del medesimo, alimenta inquietudine e angoscia ogni qual volta lo status quo – politico e amministrativo – viene compromesso. Come nota l’egittologo R. B. Parkinson, tra i più fini studiosi del testo poetico:

«si pensava che il chaos fosse sempre presente e aspettasse di sopraffare il cosmo ordinato, e il terrore di Sinuhe è un’esperienza di questo».[19]

Tutto ciò chiarisce l’atteggiamento del cortigiano. Nella Residenza non si è soltanto verificato un lutto, la morte di Senwosret. A venir meno è la terra sotto i piedi, per così dire, almeno fino alla proclamazione di un successore del sovrano defunto. Non meraviglia, allora, che la percezione[20] del vivere, nell’Antico Egitto, fosse quella di una precarietà continua, per l’aprirsi di incertezze diverse alle quali solo la vitalità del faraone poteva assicurare un valido fronte.

Il testo di Sinuhe trasmette, al lettore, un senso di inquietudine continua, anche quando il protagonista trova una (precaria) stabilità nella nuova terra che lo ha accolto, gli ha dato una famiglia e un certo agio. Tra le immagini evocative del caos come disordine, c’è – nella seconda stanza – quella della chiatta senza timone, che lo trasporta nella direzione dell’Est anziché del Sud. Gli stessi termini indicanti la fuga o il tremore, in virtù della loro origine onomatopeica, rendono palpabile lo stato d’animo della persona.

Fuggire è, in egiziano antico, reso dalla parola nfnft, letteralmente “fare fet-fet”, ovvero il «suono che imita il rumore di rapidi passi sulla sabbia»; tremare è invece “mnmn”, traducibile alla lettera con “fare men-men”.[21]

Quanto a “ordine”, l’espressione che indica la disposizione armonica (differente dal verbo ordinare a qualcuno, oppure ordinare di fare) ha una stretta relazione con la costruzione-creazione, essendo rappresentato da una squadra e da un righello, gli strumenti dei geometri e degli architetti. Si pensi alla frase:

wn Hr mr.t grg=s

traducibile con:

Horus desiderava (ri)metterla in ordine.[22]

Anche nelle parole di Neferti, un uomo saggio che declama, in un altro testo celebre, la propria demoralizzazione per l’instabilità politica e il disagio esistenziale seguito a un interregno, troviamo lo stesso tipo di narrativa. Le sue parole, risalenti all’Antico Regno, mostrano la fissità – nei secoli – della visione cosmogonica-esistenziale così magistralmente cantata nel racconto di Sinuhe.[23]

Solo l’arrivo di un nuovo re-dio-creatore restituisce un equilibrio allo status quo ed impedisce all’angoscia di spadroneggiare.

La storia di Sinuhe ha molto da dirci ancora, sul piano antropologico e meriterebbe di essere indagata con attenzione. Perché il caos cosmico che vive in prima persona – con la morte del faraone, suo signore e dio – lo consegna a una condizione esistenziale che possiamo definire di disperazione. Mancando un dio onnipotente unico, in grado di sovrastare tutti gli idoli (della propria e dell’altrui fede), non gli resta che lasciarsi andare al proprio destino ramingo. Nel Primo Testamento la vicenda di Giobbe lo ricorda[24], per alcuni aspetti comportamentali, in particolare per l’inquietudine psico-motoria, segno di perdita di speranza e di de-realizzazione.

Brevemente, il patriarca Giobbe è un uomo buono, sempre devoto e rispettoso, che si ritrova in un rovescio di fortuna. Tutto va al contrario, la salute, gli affetti, gli affari. Ogni aspetto della sua vita è compromesso e questo lo induce a sollevare, al dio tanto amato, la domanda della propria infelicità.

«Non ho più pace, non ho quiete / non ho riposo: ed ecco la disperazione».[25]

La parola ebraica tradotta, nell’edizione italiana, come disperazione, è rogez, termine che copre due principali aree semantiche: quella del movimento (scomposto, agitato) espressa nel non aver riposo e dell’inquietudine interiore, consegnata nel non aver quiete. Aree strettamente correlate, perché un tumulto della psiche può generare tremori, eccitazione, inquietudine, come spesso si sperimenta nella vita di tutti i giorni, anche in situazioni lontane da quella del povero Giobbe. Non ebreo, il personaggio del celebre libro del Primo Testamento, è un campione di lamentazioni: genere letterario molto popolare nell’antichità pre-classica, trova due esiti completamente diversi, nella Bibbia e nel racconto di Sinuhe. Se il cortigiano può solo elevare al cielo il proprio sconcerto per l’improvvisa morte del re, che gli stravolge la vita, Giobbe sa di trovarsi al cospetto di Dio, anche se ne avverte il silenzio. Il fuggiasco egiziano vive in continuo movimento; al contrario la disperazione inibisce  Giobbe dall’agire.

In entrambe le vicende, comunque, l’assenza di Dio – perché non si occupa degli umani (Sinuhe) e perché tace (Giobbe) – favorisce il disordine del microcosmo personale dei protagonisti. Alla camminata ansiogena, che rinvia nella lingua ebraica alla condizione umana in senso generale (rgl significa gamba, piedi) si contrappone il movimento equilibrato, possibile quando si deambula nel solco del Signore (halak ‘hare adhonai, Deut. 13:4 KJV). Il termine di questo moto regolare è halak, non a caso impiegato anche per evocare il movimento di Dio nell’Eden, accompagnato dalla brezza, che s’appresta a interrogare Adamo e a scacciarlo, con Eva, dopo la caduta nella tentazione del serpente (Gn. 3, 8).

Conclusione

Le nozioni di ordine e di disordine di origine pre-classica hanno una profonda radice cosmogonica: in questo senso, c’è una linea di continuità fra la sapienza greca classica e quella pre-greca. Da questo punto di partenza, si è voluto esplorare quale sia la relazione che collega i due poli concettuali nella tradizione ebraica antica e in quella dell’Egitto faraonico.

In Genesi, fin dal secondo paragrafo, ci viene consegnata una visione dell’universo non come “cosmo” ma come “caos ordinato”: il disordine degli elementi, il vuoto, l’abissale vertigine del nulla entrano nel piano di Dio come una tensione dinamica verso la perfezione e la completezza della realtà. Ciò avviene perché il Dio creatore agisce nel senso della libertà, conferendola a ogni elemento a cui dà vita; concetto chiaramente espresso, sia pure in termini figurativi, dalla presenza dell’Eterno che sta “al cospetto” delle acque, in un atteggiamento di distacco contemplativo. I riflessi di questo stato di cose non mancano a riverberarsi sulla condizione umana. La perfezione in progress del creato, che tanto aveva fatto problema nell’esegesi patristica e nel Medio Evo, consegna al cosmo una componente di indeterminatezza, che può interferire con i progetti esistenziali della persona. Tuttavia, nella cosmogonia della Bibbia la vicinanza di Dio al creato è un fatto, che rende la storia un processo sotteso – da un lato – alla libertà dell’Universo e delle creature e – dall’altro – lo pone costantemente sotto lo sguardo divino.

Laddove Dio non ha il profilo di Creatore, perché si impone la frammentazione del divino, come succede nel pensiero egiziano antico, la de-responsabilizzazione del Pantheon fa sì che il caos sia realmente senza margini di governabilità. In questa cornice la disperazione, letterariamente resa dal racconto di Sinuhe, può essere annullata solo da una ri-creazione, da un dio che ri-mette ordine al mondo; un compito di prerogativa del faraone, la persona quasi-divina dalla quale ci si aspetta il ripristino dell’equilibrio.

Con l’antitesi caos-cosmo si affermano, sul piano antropologico, anche due condizioni umane: la disperazione e la speranza. Le grandi tradizioni monoteistiche, che hanno al loro baricentro la figura del Dio-persona-creatore, a partire da quella giudaica, inscrivono il discorso sulla speranza proprio a partire dall’origine del cosmo. Ma, attenzione: soltanto un universo caratterizzato dal caos ordinato, cioè dal progressivo divenire verso la perfezione (Dio = telos) garantisce questa possibilità. Viceversa, il mondo a cui viene data vita una volta per tutte, è il caso della tradizione cosmologica dell’Antico Egitto, non garantisce proprio nulla di buono per l’essere umano.

Di qui l’esigenza, più che mai oggi, di riabilitare le categorie dell’impreciso, dell’indefinito, dell’imperfetto contro l’idea di un universo improntato alla perfezione (umana, politica, economica). Il rischio di questa prospettiva “migliorista” non può che aumentare il disagio dell’essere umano, chiudendo le porte alla trascendenza. Un danno che, oltre a limitare la ricerca del divino, preclude in toto la possibilità di una crescita umanistica.

 

[1] PhD in Metafisica sotto la direzione di Lluis Clavell (2009), laureata in Filosofia teoretica con Adriano Bausola (1999), giornalista professionista, l’autrice è filologa di formazione (1986). Ha studiato, all’Università Cattolica di Milano, Ebraico e lingue semitiche comparate con il professor Ferdinando Luciani; Letteratura araba con Sergio Noja; Lingua araba con il professor Michele Vallaro; ha seguito i corsi di Geroglifico al Collège de France, a Parigi, tenuti dall’egittologo Nicolas Grimal.

[2] La Bibbia, Torino, Marietti, 1964.

[3]«Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da tutto il lavoro che Dio aveva fatto creando». Gn. 2, 3-4.

[4] P. Stefani, La Parola e il commento. Dodici letture bibliche, Firenze, La Giuntina, 1993, pag. 25.

[5] «Dio, creando, ha chiamato dal nulla all’esistenza tutto ciò che ha iniziato ad essere al di fuori di lui. Ma l’atto creativo di Dio non si esaurisce qui. Ciò che è sorto dal nulla ritornerebbe nel nulla, se fosse lasciato a se stesso e non fosse invece conservato nell’esistenza dal Creatore. In realtà Iddio, avendo creato il cosmo una volta, continua a crearlo, mantenendolo nell’esistenza. La conservazione è una creazione continua. (Conservatio est continua creatio)». Giovanni Paolo II, udienza generale del 7 maggio 1986 dedicata alla Provvidenza divina. Il testo completo: https://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/1986/documents/hf_jp-ii_aud_19860507.htmlhttps://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/1986/documents/hf_jp-ii_aud_19860507.html

[6] Gn. 1 1,2, traslitterazione dal testo ebraico (Torah, Navim we katuvim-Hebrew Old Testament, London, The British and Foreign People Bible Society, 1981). La “e” a caratteri più piccoli è la trascrizione dello shewa, ovvero una semivocale che si pronuncia come la “e” del francese “renard”.

[7] Rinvio al mio articolo “Il corpo dello spirito”, A Parte Rei, 14, aprile 1999, tradotto in spagnolo “El Cuerpo del Éspiritu”, scaricabile da internet. In questo scritto sviluppo con maggiore puntualità sia l’atto di “aleggiare” di Dio sulle acque primigenie, sia il significato di spirito/anima nella tradizione veterotestamentaria, in dialogo con la filosofia greca.

[8] Concetto introdotto dalla “Teogonia” di Esiodo:  « Ἦ τοι μὲν πρώτιστα Χάος γένετ᾽, αὐτὰρ ἔπειτα/ Γαῖ᾽ εὐρύστερνος, πάντων ἕδος ἀσφαλὲς αἰεὶ/  [ἀθανάτων, οἳ ἔχουσι κάρη νιφόεντος Ὀλύμπου,/ Τάρταρά τ᾽ ἠερόεντα μυχῷ χθονὸς/ (…) », (Esiodo, Opere, Milano, Mondadori, 2007 Mondadori, pag. 9)

[9] Tra i contributi più recenti, ricordo quello della professoressa Claudia Baracchi, docente di Filosofia antica all’Università Bicocca di Milano, in “Tess” (magazine del quotidiano La Provincia di Como), marzo 2017, pag. 191.

[10] Tommaso d’Aquino, La potenza di Dio. Questioni IV-V, a cura di Angelo Campodonico, Fiesole, Nardini, 1994.

[11] Ibidem, pag. 24.

[12] Ibidem, pag. 35.

[13] Ibidem, pag. 49.

[14] Ibidem, pag. 45-46.

[15] The Tale of Sinuhe and Other Ancient Egyptian Poems 1940-1640 BC, traduzione, introduzione e cura di R. B. Parkinson, Oxford, Oxford University Press, 1998.

[16] La traduzione è mia. Nel testo inglese, con versione di R.B. Parkinson, l’espressione m gmw viene tradotta «were in mourning», mentre P. Grandet e B. Mathiew optano per «sono nell’afflizione». (P. Grandet, B. Mathiew, Corso di Egiziano geroglifico, Torino, Ananke, 2007, pag. 48)

[17] The Tale of Sinuhe, op. cit., pag. 21.

[18] Si vedano I Testi religiosi dell’Antico Egitto, Milano, Mondadori, 1999; collana I Meridiani, a cura di E. Bresciani.

[19] R. B. Parkinson, The Tales of Sinuhe, op. cit., pag. 22. La traduzione è mia.

[20] «The king was quasi-divine, the political and ideological centre of Egyptian culture, and the representative of all its values. The king was the direct heir of the creator-god, who, according to one (possibly contemporaneous) religious text, had appointed him to rule “for judging men,/ for appeasing the Gods/ for creating Truth, for destroying evil». Ibidem, op. cit., pag. 21.

[21] P. Grandet, B. Mathiew, Corso di Egiziano geroglifico, op. cit., pag. 167.

[22] Iscrizione nel sito di Mo’alla, in Alto Egitto, si veda: P. Grandet, B. Mathiew, op. cit. pag. 180.

[23] The Words of Neferti, in The Tales of Sinuhe, op. cit, pag. 131-143.

[24] Mi permetto di rinviare il lettore alle riflessioni che ho dedicato alla disperazione di Giobbe in due saggi: P. Fisogni, Dehumanization and Human Fragility, London, Authorhouse, 2013 e Ontologia della speranza, Mantova, Gilgamesh, 2014.

[25]Giob., 3, 26-27.

 

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