di Luigi Serrapica
Il dilagare della pandemia ha condotto milioni di italiani a modificare il proprio approccio con il lavoro. Espressioni come smart working sono entrate nel lessico quotidiano di molti, cambiando la vita di tante persone. In meglio, secondo Domenico De Masi, che studia da cinquant’anni questa tematica. De Masi, infatti, è una delle voci più autorevoli della Sociologia del lavoro, pioniere del telelavoro, argomento di cui è uno dei principali studiosi in Italia. In pieno lockdown ha raccolto la sua esperienza coordinando un’indagine alla quale hanno collaborato manager, accademici, ricercatori e che è culminata nella pubblicazione, per l’editore Marsilio, del volume Smart working. La rivoluzione del lavoro intelligente. Abbiamo avuto il privilegio di sottoporgli alcune domande.
– Professore, nel suo libro presenta vantaggi e svantaggi dello smart working. Un elenco piuttosto lungo, cui dedica diverse pagine della sua ricerca. Sui piatti della bilancia ci sono una rivoluzione del mondo del lavoro e una ritualità di oltre un secolo in cui gli impiegati si recano in ufficio, lavorano e poi tornano a casa a fine giornata. Vale davvero la pena rivoluzionare questa routine affermata?
– Gli svantaggi sono meno numerosi e gli effetti negativi dello smart working sono riparabili. Vede, questo diverso approccio al lavoro ha salvato l’economia, ha salvato la scuola e anche la salute pubblica. Si è continuato a lavorare in tutto il periodo della prima ondata, l’80% della Pubblica Amministrazione ha lavorato da casa. Parliamo di oltre tre milioni di dipendenti solo in questo settore. Se oggi non siamo completamenti fermi, lo dobbiamo proprio al telelavoro.
– Eppure, fin dalla prima ondata, le organizzazioni industriali e le rappresentanze dei commercianti hanno più volte richiesto al Governo di permettere a tutte le ditte di riaprire. Sui giornali si è discusso molto anche delle iniziative dei ristoratori che hanno provato a sfidare i decreti governativi per accogliere i clienti anche la sera.
– Certo, la Confindustria spinge per aprire. Ma dovremmo domandarci per quale motivo in Lombardia continuano a esserci tassi di contagio e di mortalità tanto elevati. E la ragione è semplice. Hanno continuato a lavorare senza sosta, sin da marzo 2020, anche le ditte che non producono beni essenziali. Basti pensare alle fabbriche di armi che non si sono mai fermate. Dobbiamo seriamente ragionare sul fatto che il consumismo non è l’unica possibilità per la nostra società. E che lo smart working non può essere solo una parentesi legata alla pandemia.
– Lei parla apertamente di resistenze culturali al ‘lavoro agile’. Ai manager che non vogliono perdere il “controllo” sui dipendenti si sommano le miopie degli imprenditori. Anche fra i dipendenti stessi sembra svilupparsi un clima di nostalgia da posto di lavoro, tanto da farle prevedere un massiccio ritorno in ufficio dopo la pandemia. Ma da quali parti arrivano le maggiori resistenze allo smart working?
-Per rispondere, porto l’esempio di due modelli di lavoro, quello italiano e quello tedesco. In Italia si lavora nella fascia oraria dalle 8 alle 17. Al pomeriggio, però, a uscire sono generalmente le donne perché vengono costrette a ricoprire anche ruoli casalinghi. Gli uomini sono quelli che, dati alla mano, restano più a lungo in ufficio a lavorare, pur senza percepire lo straordinario. Semplicemente, lavorano più ore e per di più gratis. Perché? È una silente pretesa dei capi, una sorta di legge non scritta cui il dipendente si adegua senza porsi il problema.
– Questo non dovrebbe aiutare ad aumentare la produttività?
– In realtà rivela soltanto un approccio errato con il lavoro. Mediamente abbiamo circa 700mila persone che si fermano un’ora in più al giorno in ufficio. Queste ore extra, annualmente, costano il posto a 40mila persone che potrebbero entrare nel mondo del lavoro. In pratica, i padri lavorano un’ora in più ogni giorno e i figli rimangono nel limbo della disoccupazione. Ripeto, è un approccio sbagliato nella gestione delle risorse. E in smart working sono emerse le difficoltà di queste persone nel gestirsi. Occorre maturità e autogestione per mantenere la propria produttività. Il nocciolo del lavoro agile è che ciascuno può decidere come amministrare il proprio tempo, se lavorare di giorno oppure di notte, se interrompersi spesso facendo piccole pause oppure se fare una lunga interruzione per la spesa e le commissioni quotidiane. Nemmeno i capi sono preparati a gestire questa autonomia. Eppure, a inizio lockdown, in una decina di giorni, siamo passati da meno di 600mila colletti bianchi che lavoravano da casa a circa 8 milioni. È successo tutto in pochi giorni, condensando quello che poteva essere fatto con la dovuta calma in dieci anni. E lo stesso discorso potremmo applicarlo alla teledidattica. È vergognoso che gli adulti sappiano meno dei figli in materia di informatica, eppure è così. Non era mai successo prima nella storia dell’umanità che gli anziani avessero meno competenze dei giovani.
– Prima accennava al confronto con il modello tedesco. La Germania rimane un punto di riferimento anche per il ricorso al telelavoro? Cosa possiamo apprendere dall’esperienza tedesca?
-La Germania ha un tasso di occupazione pari al 79%, produce un quinto di ricchezza in più dell’Italia e i lavoratori tedeschi lavorano in media 1400 ore all’anno. La situazione italiana è ben diversa. Partiamo dall’occupazione, che qualche anno fa era inchiodata al 57,4%. La lunga serie di riforme sul lavoro culminata con la promulgazione del Jobs act è costata circa 30miliardi di euro, oltre a scioperi e a conflitti sociali non del tutto sanati. Ebbene, tutto questo ha condotto il tasso di occupazione al 58,1% nel 2019. Meno di un punto percentuale di crescita, imputabile al vergognoso neoliberismo di sinistra. I dipendenti italiani lavorano 1800 ore all’anno e non riusciamo a mantenere il ritmo tedesco nella produzione di ricchezza.
– Tutto questo cosa significa?
-Politiche attive del lavoro ben fatte portano risultati. Così come la lungimiranza della politica, ma anche delle imprese. In Germania, i metallurgici hanno ottenuto il contratto a 28 ore settimanali con un aumento del 4% del salario. In Italia siamo fermi alle 40 ore, senza dimenticare i dati sulla disoccupazione, allarmanti. In Germania il 93% dei laureati trova lavoro dopo tre anni dalla laurea, da noi il 51%. Mi ridono dietro quando parlo di riduzione dell’orario di lavoro, eppure i dati tedeschi non mentono.
– Professore, guardiamo al passato italiano. I suoi studi partono negli anni Settanta ed è stato animatore della Società italiana del telelavoro (Sit) che intendeva promuovere il lavoro a distanza nel nostro Paese. All’epoca la tecnologia non permetteva la flessibilità che abbiamo a disposizione oggi, eppure qualcuno aveva cominciato a muovere i primi passi in direzione del lavoro agile, senza che però decollasse. Cosa è accaduto?
-Fin dall’inizio, i manager e gli imprenditori non capivano il telelavoro e alla fine ci hanno perso. Vede, in questo periodo tengo molti webinar e molti capi del personale si stanno organizzando per far rientrare tutte le risorse umane in ufficio, con l’accordo del sindacato. Questo non ha alcun senso. Lo stesso sindacato sembra intenzionato a continuare a stampare i volantini piuttosto che espandersi via web, è paradossale. C’è molta resistenza sul tema. Nel 1990 gli ispettori dell’Inps sperimentarono il telelavoro, la stessa cosa fece la Sip cinque anni dopo. Con la Sit intendevamo convincere il Governo per introdurre il telelavoro e solo con il ministro Bassanini ci arriviamo, nel 1998. E dopo tutto questo lungo percorso ci presentiamo al 1° marzo 2020 con appena il 2% di smart workers in Italia. C’è una resistenza patologica da noi, basti pensare che in Francia lavora a distanza il 14% dei dipendenti. Bisogna plaudere alla scelta del ministro della Pubblica amministrazione che ha messo l’80% dei suoi dipendenti in lavoro agile.
– Nel libro afferma che il Sud sarebbe maggiormente pronto a tuffarsi nell’era dello smart working rispetto al Nord Italia. Suona come una provocazione, dal momento che il Settentrione può vantare maggiore ricchezza e un tessuto industriale più avanzato. Come spiega questo rovesciamento?
-Comincerei con una motivazione tecnica. Al Sud, come racconta una recente inchiesta de Il Sole 24 Ore, c’è più banda larga che non al Nord. E fra tutte le regioni meridionali, in testa c’è la Campania. Poi abbiamo una questione culturale. La mentalità del Sud è meno compromessa con quella industriale e vede una maggiore propensione alla commistione fra lavoro e vita. Inoltre, l’apertura verso il prossimo porta a socializzare maggiormente e con più facilità. Insomma, a Milano il lavoratore è isolato mentre a Napoli è unito in una rete solidale. Tante persone emigrano da posti bellissimi del Mezzogiorno per andare a cercare lavoro al Nord, quando potrebbero benissimo lavorare da casa nel proprio posto di origine. Siccome si può lavorare smart working ovunque, potrei essere assunto da una ditta di Milano e continuare benissimo a vivere in un paese stupendo come Ravello. Produco ricchezza e intanto godo delle bellezze naturali.
– Proviamo a considerare lo smart working dal punto di vista del dipendente. Occorrono strumenti aggiornati e spazi adeguati per poter lavorare da casa in tranquillità, senza dimenticare le infrastrutture come internet a banda larga che citavamo prima. Qualcuno potrebbe obiettare che lavorare in ufficio, in fin dei conti, è più facile.
-Non è così, da casa si lavora meglio e si produce di più. Anzi, con il telelavoro la produzione cresce del 15-20%, che è la distanza che separa l’Italia dalla Germania. Dobbiamo però dirla tutta, lo smart working comporterà la riduzione di posti di lavoro. Servono meno uffici se si lavora da casa, dunque meno spazi immobiliari nelle città. Occorrono anche meno automobili, perché ci si sposta di meno. E la diminuzione di morti e di feriti della strada comporta ulteriori posti di lavoro meno. Quando passerà la pandemia, ci accorgeremo dei molti fallimenti causa lockdown e scopriremo che ci sarà meno bisogno di lavoro umano. Questa è la civiltà, fin dai tempi dell’invenzione della ruota l’essere umano cerca dei modi per lavorare di meno. La tecnologia ci sta conducendo verso la soluzione di questo problema. È uno sviluppo inevitabile.
– Ci attende un mondo pieno di persone senza lavoro?
-Porto questo esempio, nel 1901 in Italia c’erano 40 milioni di abitanti e i turni di lavoro erano di dieci ore al giorno su sei giorni, per un totale di 70 miliardi di ore lavorate. Nel 2019 siamo diventati 60 milioni, si lavora cinque giorni a settimana e il numero di ore lavorate è stato di 40 miliardi inferiore. Eppure abbiamo prodotto molto di più. È la tecnologia che lo ha consentito. All’uomo resterà solo il lavoro creativo, anche questo in misura minore. Stiamo andando verso una rivoluzione del lavoro molto profonda, un mondo in cui ci sarà meno bisogno di lavorare. Il parametro della ricchezza non sarà più connesso al lavoro. La misura del Reddito di cittadinanza è solo il preludio al Reddito universale, una forma di redistribuzione della ricchezza che contrasti la saltuarietà del lavoro. La povertà non è da intendersi come conseguenza di una produzione di ricchezze insoddisfacente, ma da una iniqua distribuzione. Nel 2019 la produzione mondiale è cresciuta del 4% e la ricchezza conseguente è finita nelle mani di 1200 persone più ricche. Come possiamo pretendere che le persone lavorino di più se la ricchezza finisce sempre nelle mani dei soliti?
– Nelle conclusioni del suo libro si trova una “ricetta” affinché lo smart working diventi realmente produttivo. Parla di motivazione, autonomia, merito, leadership partecipativa, emulazione solidale. Tutti ingredienti che, spesso, sembrano mancare nei nostri uffici. È allora davvero possibile mirare a forme di lavoro agile sempre più svincolate dai luoghi di lavoro tradizionali e sempre più legate alle tecnologie?
-Non è per niente utopico, ma è del tutto fattibile. Come ho spiegato prima, con meno ore lavorate rispetto al passato, oggi produciamo molto di più. La tecnologia non si ferma e tutto va perfezionandosi. Penso all’intelligenza artificiale, ai comandi vocali, ai traduttori simultanei. Guardi, nessuno sembra preoccuparsi del fatto che in un futuro non troppo remoto l’intelligenza artificiale rivoluzionerà la medicina. Le diagnosi comparate potranno attingere al sapere medico mondiale e non si baseranno più soltanto sul pacchetto di esperienze e conoscenze dei singoli medici. Lo stesso avverrà per la scelta delle terapie. Si parla del 2027, del 2030. Con tutto ciò, oggi alcuni politici italiani promuovono l’aumento dei fondi per formare più medici. Vogliono parametrare la Sanità del prossimo decennio sulla pandemia, è una follia. E non possiamo permettercelo.
Domenico De Masi
Smart working
La rivoluzione del lavoro intelligente
Marsilio, 2020