EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Il dèmone e la scrittura

di Alberto Basoalto

Il Fedro di Platone non è un testo che attende ulteriori commentari. Tantomeno il mio, di ordine chiaramente modesto. Eppure, non si è mai sazi d’interrogare quel testo, questo per svariati motivi. In primis perché il Fedro, come altri scritti platonici, contiene una eccezionale sequela di micro narrazioni, utilizzate perlopiù per introdurre miti e immagini e che stimolano continuamente il lettore. Noi ci limiteremo a far riferimento solo ad una di queste.

È necessario, però, riprendere alcune riferimenti di contesto, che peraltro saranno noti ai più, per permettere di precisare quanto andiamo scrivendo. Il Fedro è un testo platonico che si colloca nella piena maturità dell’autore. Un testo soggetto, come si conviene, all’attenzione critica di molti studiosi che ne hanno, a volte, evidenziato alcune apparenti incongruenze. In epoca recente, almeno così riportano i numerosi commenti ai quali si accennava, questi studi sembrano aver preso una direzione unitaria, considerando il Fedro come un testo capace di condensare, nella sua più alta prospettiva, il pensiero dell’autore. E come potrebbe non essere altrimenti. Basti pensare che al suo interno è narrato il conosciutissimo mito dell’anima come biga alata, con tutte le relative conseguente.

Prescindendo dal linguaggio semplificato che qui andiamo utilizzando, non è nostro interesse entrare, come si diceva, in problematiche che sono complesse e articolate, ci limiteremo quindi a fornire solo alcuni elementi.

Occorre precisare, inoltre, che il mondo greco, che si muoveva intorno a Platone ( nato intorno al 427 a.C.) era quello di una civiltà che stava, lentamente e inesorabilmente, passando dalla prevalenza della tradizione orale a quella scritta. Platone, che ci parla come sempre per bocca di Socrate, riteneva che il vero sapere non si potesse trasmettere in forma scritta. Le cose di maggior valore restavano di pertinenza dell’oralità. Per spiegarlo, nel Fedro, ricorre all’esempio del Giardino di Adone, luogo dove d’estate si seminava solo per gioco. La scrittura doveva essere considerata, secondo l’illustre filosofo, nient’altro che un gioco. Altra cosa erano le cose importanti, serie, come la trasmissione della verità, che doveva essere riservata alla comunicazione orale.

Platone, qui come in altri scritti, è, inoltre, in aperta polemica con i sofisti. Platone vuole proporre il metodo dialettico come quello proprio della filosofia, capace di trasmettere il vero rispetto alle opinioni. I sofisti, per lui, sono persone senza dimora fissa che si limitano al solo lato formale dei discorsi, sono semplicemente dei logografi.

Il tema che ci preme riproporre dal Fedro è quello, posto quasi a finale del testo, sulla superiorità dell’oralità rispetto alla scrittura. Per introdurlo, Platone, fa parlare, nemmeno a dirlo, Socrate. Questi, in un dialogo con Fedro, s’interroga proprio su quando sia conveniente ricorrere alla scrittura e quando no. Per farlo utilizza una storia tramandata dagli antichi, e loro sì che conoscono la verità.[1]

A questo punto inizia la narrazione de mito di Theuth, antico dio di Eucrati in Egitto al quale era sacro l’uccello Ibis. Questo dio aveva scoperto per primo i numeri, il calcolo, la geometria e l’astronomia poi il gioco del tavoliere e i dadi e, infine, anche la scrittura.[2]

Theuth si presenta, un giorno, al re-dio di tutto l’Egitto, Thamus, per mostrargli tutte queste arti, decantandone le lodi e ascoltando i commenti, positivi e negativi, del re su ognuna di esse.

Quando arrivarono alla scrittura, Theuth disse: “Questa conoscenza, o re, renderà gli egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco della memoria e della sapienza.”

Il re Thamus fece notare a Theuth che, questa sua favorevole presentazione della scrittura, era viziata dal fatto che si trattava di una sua creazione. Thamus gli disse:

…La scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei e non dal di dentro e da se medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria. Ma quello del richiamare alla memoria.

Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza, non la verità: infatti essi, divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre, come accade perlopiù, in realtà, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati conoscitori di opinioni invece che sapienti.[3]

In un altro testo famoso di Platone , il Timeo, Kirzia riporta, anche in questo caso, racconti orali di persone molto anziane e che ha conosciuto da giovane. In particolare una frase di un sacerdote egiziano diretta a Solone. Il sacerdote sostiene che i greci sono da considerare eterni ragazzi che non invecchieranno mai. Non esiste un solo greco vecchio, aggiunge il sacerdote. Alla richiesta del perché, il sacerdote risponde: i greci non scrivono e tramandano tutto oralmente e quindi nessuno ha più memoria certa di fatti antichissimi. Gli egiziani, invece, con i loro manoscritti, riescono a risalire indietro nel tempo. Infatti, poco più avanti nel testo, s’introduce la narrazione di una terra oltre le colonne d’Ercole, la mitica Atlante.[4]

I greci dunque restano giovani proprio perché non hanno memoria. Ma quale? Per Platone, si diceva, quella che serve a trasmettere il vero. Il problema non è della scrittura in sé, che è un gioco, ma della sua funzione. Essa non è memoria, ma richiama la memoria. Il segno d’altronde, per sua funzione, richiama sempre altro. Il segno, sembrerebbe dire Platone, è solo l’immagine riflessa, rappresentazione di altro. Il problema di Platone è, quindi, di chiarire quale sia il miglior modo di trasmettere ciò che solo i filosofi hanno potuto ammirare nella Pianura delle Verità.

Il re-dio Thamus, come i filosofi platonici, non può ammettere che si costituisca un’autorità (un padre) con la scrittura. Il dio, che è re, è tale solo se non vi è alcun testo in grado di rimettere in discussione ciò che solo lui può conoscere. [5] Il re-dio Thamus non può accettare che vi sia qualcosa di scritto perché non può essere in debito con nessuno.

Il re può non saper scrivere. La verità di cui è portatore è quella che di volta in volta viene narrata e di cui è portatore.

Diversa è, ad esempio, la tradizione ebraica dove esiste un dio  non terreno, che si esprime con una legge scritta sulle tavole. Secondo alcuni la Torah, il Pentateuco, é stata scritta ancora prima della creazione del mondo. Gli ebrei sono il popolo del libro per gli altri popoli.

Jacques Derrida, nella Farmacia di  Platone, affronta proprio questo passo del Fedro, tema che in questo autore è ampiamente presente in tutti i suoi innumerevoli scritti. Per Derrida, la scrittura, rievoca un assente, ci parla parla in assenza di qualcuno.

Sappiamo che Socrate non ha lasciato nulla di scritto, eppure alla fine, come suggerisce Derrida, è Socrate a scrivere mentre Platone è solo colui che detta. Socrate sembra essersi ridotto al logografo di Platone. Se pur con tutte le distinzioni del caso.

Esisteva comunque anche per Platone un limite all’oralità? Sì, il non mettersi contro gli dei, se si aveva timore di averlo fatto, si poteva sempre in qualche modo ritrattare attraverso la palinodia, meccanismo che Socrate utilizza nel suo secondo discorso nel Fedro. Ascoltiamolo come esordisce:

Proprio quando ero sul punto di voler traversare il fiume, caro amico, si è manifestato il segno divino (δαίμων -daimon), quel segno che è solito manifestarsi a me, e che sempre mi trattiene dal fare ciò che sono sul punto di fare.[6]

Socrate, per recuperare il rapporto con il divino, si trattiene, torna indietro davanti al fiume che era in procinto di attraversare perché sente il demone, in questo caso un segno divino, una voce interiore, che gli impedisce compiere azioni non gradite alla divinità. Sente di dover tornare indietro per non andare contro gli dei. La phoné, il non scritto, è reversibile. Si può cambiare rotta, ripercorrendo, rinarrando e ponendo rimedio. L’oralità è parte del vivente-presente. Il demone socratico è voce interiore divina, etica. E’ coscienza. Non concede alla scrittura la possibilità di parlare a nome di altri. L’autore del discorso è anche attore, non ha bisogno di interpreti, resta sempre giovane, non ha altre autorità sulla scena.

E’ forse, allora, il socratico demone etico-coscienza il vero farmaco? Il farmaco per avere una memoria sempre presente? Un elisir dell’eterna giovinezza? Un’eterna giovinezza come quella concessa solo agli dèi?

O ne è solo l’illusione?


[1] Platone, Fedro, 219 C e seguenti. Nell’edizione Bompiani 2000 che abbiamo consultato , pag. 195 e seguenti

[2] idem, 224 D

[3] Platone, Fedro, 275 A e B

[4] Platone, Timeo, 21 b e seguenti

[5] cfr. J. Derrida, La farmacia di Platone, Jaca Book 2007

[6] Platone, Fedro, 20 C

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