di Federica Biolzi
Un intreccio profondo tiene unite l’evoluzione biologica e quella culturale. Il confronto tra Carlo Sini e Telmo Pievani in questo interessante volume edito da Jaca Book, ci consente di comprendere e analizzare quali siano state le vicende che, sin dall’inizio della storia dell’uomo, hanno determinato l’estrema permeabilità tra questi due ambiti del sapere. Il professor Pievani ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune nostre domande.
– L’interessante dialogo tra lei e il professor Sini, testimoniato da questo libro, inizia con la precisazione sul tema trattato: il fondamento unitario dei saperi. Un dibattito che ha interessato non solo i filosofi. Lei cita Lucrezio a proposito del parallelo tra scienza e linguaggio. Come ci può aiutare Lucrezio, oggi, ad orientarci in questa problematica imprescindibile per la nostra conoscenza?
– Rileggendo di recente il De rerum natura, ho ritrovato un’analogia molto bella tra il linguaggio e la natura. Come accade nel linguaggio, in cui modificando anche e soltanto una vocale o una consonante di una parola, può succedere che la parola assuma un significato completamente nuovo e diverso, così accade nella realtà, nella sua visione atomistica della realtà, che gli atomi si sostituiscano e si cambino, mutando la natura delle cose. Così facendo, senza saperlo, Lucrezio introduce il concetto di mutazione che, più o meno, è ciò che noi sappiamo avviene nel DNA. Infatti nel DNA la mutazione è simile alla sostituzione di una letterina, appunto, con un’altra. Queste sono intuizioni che non vanno viste in modo anacronistico, perché il nostro autore non conosceva il DNA, ma sono idee, metafore e immagini che riescono ad attraversare discipline diverse. Nel suo caso, però, è particolarmente pertinente perché lui stesso, grande poeta che scrive anche un grande trattato sulla fisica e sulla visione della natura di Epicuro e dell’atomismo, ha successivamente ispirato dal ‘600 in avanti i grandi padri della scienza moderna come Galileo, Lavoisier ed i primi chimici che facevano riferimento all’atomismo. Sono quei filoni carsici e trasversali della cultura che prediligo particolarmente. Con il prof. Sini condividiamo l’idea che non vi siano confini impermeabili tra la scienza e la filosofia e che oggi l’evoluzione biologica e quella culturale siano intrecciate l’una all’altra. Si tratta di un ponte tra due mondi che in fondo non si sono parlati fino ad ora, cioè l’evoluzione biologica, fisica e quella culturale delle idee e delle innovazioni.
– Nel corso del libro è ampiamente citato il lavoro di Luigi Luca Cavalli-Sforza. Un’eredità, questa, che pone una serie di problemi genetici, linguistici, culturali. Quali sono gli scenari di riflessione e ricerca di questo autore che ancor oggi, come ci dice il professor Sini, ci stupiscono?
– Cavalli-Sforza è stato un grande maestro e un pioniere, alla fine degli anni’60, in questo attraversamento tra discipline diverse. Come molti grandi scienziati non era particolarmente interessato alle specializzazioni disciplinari, la sua idea iniziale è stata quella di provare a capire se vi fossero parallelismi e parentele, anche profonde, tra l’evoluzione biologica, quella dei geni nel nostro DNA, l’evoluzione culturale e quella delle lingue, in particolare delle culture umane. Cavalli-Sforza scoprì che c’era una matrice storica comune in tutta l’umanità, che ha avuto un’origine africana recente, e che la nostra diversità deriva dall’emigrazione e dai successivi spostamenti delle diverse popolazioni. Questo processo ha dato origine al grande albero delle popolazioni umane con differenti caratteristiche fisiche e biologiche. La sua indagine genetica ci ha permesso di ricostruire questa mappa globale degli spostamenti delle popolazioni umane avvenute nella storia profonda. È come se avesse illuminato tutto ciò che precede la storia che normalmente studiamo a scuola. Si tratta di popolazioni che si sono disseminate nel mondo da 70-80 mila anni fa fino al Neolitico e poi, in tempi molto più recenti, fino alle civiltà della scrittura. La cosa affascinante è che, se noi guardiamo come si distribuiscono le culture e le lingue nel mondo ancora oggi, troviamo traccia proprio di questo grande albero di diversificazioni descritto da Cavalli-Sforza in diversi libri, tra i quali Geni popoli e lingue[1]. I geni, i popoli e le lingue hanno seguito questa stessa trama di migrazioni, di espansioni, di meticciati. Si è prodotto uno schema parallelo di contaminazione tra l’evoluzione biologica e l’evoluzione culturale, benché siano due processi molto diversi. Questa oggi è una chiave di lettura importantissima. Non si tratta più di ridurre la nostra complessità culturale alla biologia ma, al contrario, di capire come la biologia e la cultura siano ingredienti per comprendere la complessità della natura umana e la sua diversità. Cavalli Sforza è colui che ci ha insegnato che non esistono le razze umane e che l’umanità è un grande mosaico di unità nella diversità.
– Lei si sofferma sul tema dell’eusocialità. Ci può aiutare a capire il valore euristico di questo approccio? In particolare il ruolo che il linguaggio ha al suo interno?
– Sappiamo che Homo sapiens è un’animale sociale. Da un punto di vista evolutivo, la nostra socialità è diversa da quella di ogni altra forma vivente (ad esempio le formiche e le api, sono specie sociali ma in modo molto diverso da noi), una socialità che al contempo favorisce l’individuo, una forte individualità, una soggettività che si autodetermina, ma che, d’altro canto, non può stare né vivere da sola. Da un punto di vista evolutivo non è facile capire come si sia sviluppata. Nei miei lavori più tecnici, ho cercato di approfondire un suggerimento di Cavalli-Sforza: noi veniamo da un lungo periodo in cui la socialità umana era organizzata per piccoli gruppi, molto coesi e ben organizzati, che però entravano in competizione con altri gruppi. Abbiamo quindi, come diciamo con il professor Sini, una sorta di matrice ambivalente. La socialità, da un lato, è ciò che ci fa appartenere ad un noi, ad una comunità che ci protegge e non ci fa sentire soli e questo è un punto di grande forza. Dall’altro lato può esserci un aspetto negativo, quello del tribalismo: siamo parte di un noi perché abbiamo qualcuno che è un altro da noi, che è un nemico, un avversario. E’ questo un modo di far comunità perché si ha un nemico comune ed è tipico di atteggiamenti sovranisti, nazionalisti. Questa è l’ambivalenza della socialità umana, che può essere meravigliosa nel momento in cui è inclusiva, ma può essere anche pericolosa quando è esclusiva ed aggressiva nei confronti dell’altro da noi. L’altruismo si è evoluto innanzitutto nei confronti di chi riconoscevamo come parte di una nostra comunità. Si tratta ora d’imparare, attraverso la cultura, che quel noi non è piccolo ma è sempre più grande, perché comprende tutta l’umanità e non esiste il nemico, ma tutta l’umanità deve difendere interessi comuni. Un po’ come traumaticamente abbiamo visto e vissuto quest’anno in cui siamo stati attaccati da un nemico, un virus, un agente patogeno, che ci ha fatto capire che siamo tutti uguali davanti a una pandemia.
– Tra l’altro nel libro si discute anche dei problemi relativi alla scientificità ed ai suoi metodi. Un tema che si fa ancor più caldo quando alla scienza si affianca la filosofia. Come diventa possibile tenere unite le due cose, soprattutto in un momento in cui la correttezza di questi metodi viene messa costantemente in discussione?
– Può esserlo in due modi. Il primo è far capire che la filosofia, come sostiene Carlo Sini, se non rimane aggiornata, non cerca continuamente di confrontarsi con ciò che accade nella scienza, rischia di essere astratta. L’altro è che anche la scienza oggi ha bisogno di filosofia. La scienza è molto specializzata, divisa in tante discipline e linguaggi diversi ed ha bisogno di una visione d’insieme, di collegamenti, interrogativi etici, di porsi le domande di senso della filosofia. E’ con questa consapevolezza che lo scienziato può anche interagire meglio con il pubblico. Con Sini riflettevamo proprio sulle difficoltà che hanno avuto gli scienziati nell’affrontare un’emergenza come quella del COVID. Si dovrebbe imparare a dire “non lo so”, ad esplicitare la propria ignoranza. Nella scienza l’ignoranza non è mai una cosa negativa ma generativa. Lo scienziato è continuamente esposto a ciò che non sa, all’ignoto e, così facendo, mostra correttezza ed umiltà e fa anche capire, al pubblico, come funziona il metodo scientifico.
– Questo suo prezioso ragionamento ci invita a porle una domanda che, a questo punto, ci appare essenziale. I presocratici, ricordiamo, erano i filosofi che consideravano la physis (φύσις), la natura principio centrale di tutte le cose. Perché occorre rileggere oggi il loro pensiero e riscoprire quel legame, mai interrotto, tra pensiero e natura?
– Nei presocratici rimane la radice profonda di un grande interrogativo filosofico che è il posto dell’uomo nella natura. Prima di Darwin, i presocratici avevano sviluppato con l’idea di physis, l’idea di una natura che è flusso, che è movimento, che è generazione e noi siamo dentro a questo processo di generazione. I presocratici si dividono poi, tra chi come Eraclito, sceglie una visione di flusso, di dinamica, e altri che invece cercano un fondamento razionale stabile ed eterno. Questa radice comune a tutto il pensiero occidentale, caratterizzante rispetto ad altre tradizioni, e ciò che la scienza attualmente ha stranamente e paradossalmente recuperato. Oggi stiamo tornando ai grandi interrogativi dei presocratici, forse anche perché la visione platonica, essenzialista, che pose fine a quella tradizione, oggi è entrata in crisi. Il pensiero presocratico, ad esempio, ci è utile per capire come mai siamo stati sorpresi da tutto quello che è successo quest’anno. Ci fa capire che prima di oggi abbiamo vissuto in una sorta di cecità in cui non percepivamo, dentro la grande accelerazione economica della nostra vita, la nostra vulnerabilità. Non vedevamo che c’era una connessione tra noi e quella physis di cui siamo parte integrante. Questi filosofi, come accadeva nella tragedia greca, hanno messo in evidenza i pericoli di quelle cose che non si vedono e poi appaiono, improvvisamente, in modo violento ed imprevedibile, come catastrofi e come catarsi. Ed è proprio quello che ci è accaduto in questo periodo.
Carlo Sini – Telmo Pievani
E avvertirono il cielo
La nascita della cultura
Dialogo tra Telmo Pievani e Carlo Sini
Jaca Book –Percorsi Mecrì 2020
[1] Luigi Luca Cavalli-Sforza, “Geni, popoli e lingue”, Adelphi ed.,1996