di Giacomo Grifoni
Per ogni donna che cammina verso la sua libertà
esiste un uomo che ne riscopre il vero significato.
Boutros Boutros-Ghali
Le numerose criticità che si incontrano nel corso della presa in carico di situazioni in cui è implicata la violenza espongono continuamente l’operatore di fronte alla necessità di una revisione critica del proprio modo di procedere. Solo da pochi anni, infatti, si è cominciato a identificare la violenza come un fenomeno dotato di peculiari caratteristiche e come un ambito applicativo che comporta non solo l’acquisizione di una specifica sensibilità diagnostica ma anche di nuovi strumenti operativi da adottare. Galtung (1996) ci ricorda che la violenza è un fenomeno strutturale che coinvolge le impalcature dell’intera società, con l’implicita conseguenza che interventi miopi e parcellizzati sono dannosi, perché potrebbero non assumere su di sé la finalità di fondo a cui dovrebbe tendere ogni azione di contrasto e che è il cambiamento sociale. Inoltre, la mancanza di una formazione specifica può condurre l’operatore a impostare trattamenti che si rivelano inadeguati a proteggere la vittima, e parallelamente, a motivare l’autore di violenza a intraprendere un percorso di assunzione di responsabilità attraverso un counselling mirato. A partire da queste premesse e sulla base dell’esperienza maturata nel trattamento degli uomini maltrattanti e nell’assistenza alle vittime, cercherò qui di schematizzare alcuni passaggi che ritengo essenziali in questo processo di revisione teorico e metodologico.
Una cornice teorica flessibile
Come primo passo è necessario utilizzare una cornice teorica libera da inflazioni ideologiche e capace di dare significato a tutte le sfaccettature del fenomeno, che colpisce per la sua complessità espressiva. La violenza di genere affonda le radici nella cultura patriarcale messa in evidenza dalla letteratura femminista (cfr. Pence e Peymar, 1993) e che individua gli uomini come i principali responsabili del problema, chiamandoli in causa come parte attiva del cambiamento sociale. Anche se non è possibile affermare che sono solo gli uomini ad agire violenza, è fuori dubbio che la violenza maschile nei confronti delle donne rappresenti un fenomeno che ha dimensioni molto maggiori di quello della violenza agita dalle donne nei confronti degli uomini. Ogni azione di contrasto deve perciò fondarsi sulle premesse messe in evidenza dall’approccio femminista. Non tutte le forme di violenza agite rientrano però nella categoria dei comportamenti maltrattanti identificati secondo il criterio del potere e del controllo. L’assistenza agli uomini autori di violenza è rivelativa del fatto che alla base dei loro agiti sussiste una povertà affettiva che si può declinare in molteplici modalità e attraverso tutte le possibili modalità maltrattanti descritte dalla letteratura (dalla violenza psicologica a quella economica, fisica e sessuale) e ci insegna che è necessario superare lo stereotipo dell’uomo maltrattante ancora molto presente nell’immaginario collettivo; quello, cioè, di un “mostro” animato da un istinto brutale e dal quale tutti tendiamo naturalmente a percepirci distanti e differenti. A partire da alcune riflessioni sul rapporto tra violenza e mancato possesso delle abilità di vita (Grifoni, 2016), ho ipotizzato che le varie strategie maltrattanti siano il riflesso di specifiche lacune in tal senso, attribuibili a molteplici motivi (mancanza di supporto familiare, situazioni di svantaggio culturale, etc.) che predispongono l’uomo all’uso della violenza come “risposta sbagliata” nelle dinamiche relazionali di coppia. In questa prospettiva, la nicchia ecologica degli episodi di violenza a cui assistiamo può sempre più essere rappresentata al giorno d’oggi da quella che Benasayag e Schmit (2003) definiscono epoca delle passioni tristi; un’epoca, cioè, caratterizzata dalla mancanza di solidi punti di riferimento e dalla conseguente sensazione di impotenza e disgregazione di senso da parte della collettività. La violenza emergerebbe dunque come una risposta disadattiva reattiva a uno stato di fragilità personale e culturale, che in particolare agli uomini impedirebbe di riconoscere le emozioni che sottostanno all’agito violento, le conseguenze dei propri comportamenti abusivi e i danni arrecati alle vittime. La mancanza di assertività, l’incapacità di gestire imprevisti o di accettare una visione meno idealizzata dell’altro, così come la carenza di modelli di identificazione alternativi a quelli forniti dalle immagini stereotipate della mascolinità proposti dalla cultura dominante, sono così tutti possibili precursori dei comportamenti violenti che incontriamo spesso nelle storie degli uomini, da riorientare secondo i criteri del rispetto e attraverso opportuni interventi di tipo riabilitativo.
Con l’obiettivo di giungere a una definizione di violenza orientata alla complessità, torna utile citare la classificazione fornita da Kelly e Jhonson (2008), che individuano cinque differenti declinazioni della violenza nell’ambito delle relazioni di coppia: il “terrorismo intimo”, esercitato attraverso il potere ed il controllo; la “resistenza violenta”, in cui la vittima si difende in modo violento dall’aggressore; la “violenza di coppia episodica”, caratterizzata dall’escalation di una relazione conflittuale che può sfociare in episodi violenti agiti da entrambi; la “violenza nel corso della separazione”, che emerge appunto durante questa fase del ciclo di vita della coppia; infine, il “controllo reciproco”, caratterizzato dall’esercizio di azioni violente da parte di entrambi i membri della coppia. Questo modello ci consente di inquadrare situazioni di malessere coniugale e familiare attraverso una lettura sensibile alla violenza e risulta utile per almeno due motivi. In primo luogo, per evitare di scambiare tensioni di coppia come situazioni “ad alta conflittualità” scotomizzando la diagnosi di violenza; in secondo luogo, per evitare di interpretare in modo inadeguato i comportamenti della vittima, le cui reazioni violente potrebbero essere stati prodotte come risposta estrema nell’ambito di una relazione maltrattante.
Oltre gli stereotipi
Analizziamo adesso alcuni stereotipi che possono riguardare sia le caratteristiche del fenomeno (ad esempio, i fattori causali sottostanti) sia le caratteristiche personologiche degli autori e delle vittime. Gli stereotipi si manifestano con un complesso di atteggiamenti e credenze presenti non solo nella percezione comune ma anche nel modo di affrontare il problema da parte di noi professionisti a causa di numerosi fattori, come ad esempio la mancanza di una formazione specifica o la presenza di risonanze personali non elaborate.
È ormai assodato che non esiste un profilo unico di uomo maltrattante o di donna maltrattata e che il maltrattamento riguarda tutte le fasce socio-economiche della popolazione. Questo dato è confermato dalla tipologia degli accessi ai centri antiviolenza e ai centri che si rivolgono direttamente agli autori e mette in evidenza che ogni persona è a rischio di subire o agire una qualche forma di violenza nel corso della propria vita, indipendentemente dal proprio livello di istruzione, tipo di occupazione e nazionalità. Il maltrattamento, inoltre, non può essere identificato con una patologica psichica o psichiatrica. La frequente presenza di disturbi in comorbidità (ad esempio: disturbi dell’umore, di personalità, abuso di sostanze) non ci deve portare ad attribuire la responsabilità della violenza alla patologia, dimenticando così la necessità di responsabilizzare l’autore rispetto al suo comportamento violento. Un altro dato ampiamente acquisito è che non è possibile identificare un’unica causa alla base dei comportamenti violenti. Il modello ecologico delineato dall’Oms (2002) rappresenta il contenitore dentro al quale analizzare ogni singola situazione, da valutare evitando il ricorso a letture semplicistiche e unicausali e analizzando, caso per caso, quali specifici fattori di rischio possano aver contribuito all’emergenza della violenza. Esperienze sfavorevoli infantili, situazioni di svantaggio economico così come l’uso di sostanze, ad esempio, non sono cause ma variabili che possono intensificare il rischio del ricorso a comportamenti abusivi in assenza delle “skills” necessarie per far fronte alle difficoltà della vita. Riguardo la difficoltà ad uscire da una relazione maltrattante da parte della vittima, esistono numerosi possibili motivi da tenere in considerazione (solo per citarne alcuni: la mancanza di risorse economiche, la presenza di figli, la paura di ritorsioni in caso di separazione) senza ricorrere a spiegazioni che si polarizzino su una lettura patologizzante dei comportamenti della donna, come l’ipotesi di una dipendenza affettiva nei confronti del partner o una più o meno inconscia resistenza ad abbandonare una relazione maltrattante. Infine, riguardo la credenza circa l’impossibilità di cambiare da parte dell’autore di violenza, è utile tenere presente che in più parti del mondo sono attivi da decenni numerosi programmi di trattamento rivolti agli uomini, che propongono percorsi focalizzati sulla sospensione dei comportamenti abusivi non alternativi alla pena ma complementari alle risposte del sistema giudiziario.
Nuovi scenari operativi
Come cambia, dunque, il nostro modo di lavorare e entro quali nuovi scenari dobbiamo cominciare a operare?
Il primo punto di aggiornamento riguarda la capacità di rilevazione. A questo proposito, sarebbe innanzitutto opportuno chiedersi “cosa è per noi la violenza”, che rappresentazioni possediamo rispetto ad essa e quanto teniamo in considerazione la violenza come possibile categoria diagnostica da esplorare accanto ad altre sindromi quando incontriamo le persone. Se il maltrattamento è esteso in modo così diffuso, è molto probabile che esso sia presente in situazioni che sono già in carico presso i nostri servizi per altri tipi di problematiche (disagio individuale, di coppia o familiare; malessere diffuso in età evolutiva) e che spesso rappresentano dei sintomi di copertura. Anche se non ci occupiamo in modo esplicito di violenza, è sempre bene tener presente il rischio di “trattare” il maltrattamento in modo non consapevole, perché potremmo averlo confuso con altre manifestazioni psicopatologiche. La rilevazione della violenza è un passaggio che non compete solo all’operatore specializzato ma che riguarda tutti i professionisti della relazione di aiuto. Esistono varie procedure in grado di accompagnarci in un’analisi della domanda che ha come obiettivo quello di evitare di colludere con la richiesta iniziale di molti utenti, a cui spesso si risponde ancora attraverso interventi non appropriati (ad esempio la terapia di coppia o la mediazione familiare) in caso di presenza di una situazione di maltrattamento. Come messo in luce dalla Convenzione di Istanbul, infatti, simili interventi presumono l’esistenza di una condizione di parità di potere tra i membri della coppia e possono perciò rinforzare il problema e condurre al fenomeno della vittimizzazione secondaria. Sia che si lavori con una vittima che con un autore, una buona pratica consiste poi nel “saper domandare” la violenza attraverso screening effettuati in modo separato con l’uomo e con la donna, al fine di garantire la protezione della vittima e motivare l’uomo a nominare la violenza attraverso un approccio non giudicante. Questa procedura comporta, ovviamente, una solida preparazione non solo tecnica ma anche emotiva, perché non è affatto scontato riuscire a chiedere a una donna quante volte sia stata, ad esempio, insultata, schiaffeggiata dal proprio partner, così come non è affatto scontato riuscire a chiedere le stesse cose ad un uomo senza scivolare nel giudizio o nella giustificazione dei suoi comportamenti.
Il secondo punto ruota intorno al concetto di rischio. Nelle narrazioni dei nostri pazienti irrompe infatti il piano di realtà, che va opportunamente monitorato a fianco dell’evoluzione del quadro di malessere psichico verso cui il nostro intervento si concentra più naturalmente. Il rischio riguarda la probabilità che la violenza agita o subita possa ripresentarsi, intensificarsi in termini di frequenza e gravità o condurre ad esiti letali per la vittima. Il possesso di armi, la presenza di precedenti penali da parte dell’aggressore o il suo uso di sostanze, cosi come eventi prossimali critici quali la separazione della coppia o l’avvio di un procedimento giudiziario, sono tutti possibili campanelli di allarme che innalzano il livello di rischio e che comportano una ridefinizione del percorso di sostegno al fine di garantire adeguata protezione. Di nuovo, esistono diversi strumenti di rilevazione che è possibile utilizzare ciclicamente, dal momento che il rischio di recidiva è per sua definizione dinamico e non statico e varia nel tempo con il variare degli eventi, come ad esempio l’avvio di un procedimento giudiziario o la separazione. Anche questo procedimento, come si può intuire, non è affatto scontato, perché comporta una ridefinizione del proprio piano di lavoro in cui bilanciare l’attenzione rivolta alle narrazioni con quella rivolta ai fatti, anche al fine di prendere delicate decisioni, come quella di effettuare un’eventuale segnalazione alle Autorità in caso di grave pericolo.
Il terzo punto riguarda dunque i riflessi giuridici del nostro lavoro, dal momento che la violenza, oltre a essere un problema di salute pubblica, costituisce un reato. Ricci e Langher (2012) sottolineano come la relazione di coppia in cui è presente violenza comporti per il professionista il passaggio da una concezione di coppia come fenomeno privato a una concezione di coppia come fenomeno pubblico, con tutte le ricadute che questo passaggio comporta non solo dal punto di vista etico-deontologico ma legale. Quanto siamo abituati a lavorare con persone che riferiscono di aver subito o di aver agito reati? In che modo la necessità di rispondere a doveri giuridici come l’obbligo di referto o di denuncia si intreccia con alcuni capisaldi della nostra formazione come il segreto professionale o il mantenimento di una neutralità terapeutica? Questi punti interrogativi ci pongono spesso davanti a scelte di non facile definizione, a maggior ragione se ci troviamo ad operare isolati rispetto agli altri nodi della rete e non abbiamo riflettuto a sufficienze sulle implicazioni giuridiche della violenza.
Il lavoro con gli uomini: una finestra aperta sull’etica
Vorrei concludere questo mio lavoro con alcune riflessioni riguardo la mia esperienza di socio fondatore del Centro Ascolto Uomini Maltrattanti di Firenze. La portata del contributo femminista, come abbiamo visto sopra, consiste nell’individuare alla base della violenza una questione culturale e non tanto categorie nosologiche appartenenti alla psichiatria e alla psicologia. L’assunto fondamentale da cui partire nella riabilitazione dell’uomo è che la violenza è una scelta e che il suo cambiamento dipende da un nuovo tipo di opzione etica verso cui l’autore può essere accompagnato attraverso specifici percorsi riabilitativi centrati sulla definizione di una nuova identità maschile (cfr., ad esempio, Jenkins, 1990). L’esperienza pilota del Cam, il primo centro in Italia che dal 2009 si rivolge specificamente a uomini maltrattanti per accompagnarli in un percorso di assunzione di responsabilità, dimostra che il coinvolgimento degli autori è un’azione cruciale nelle risposte della rete dei servizi. A sottolinearlo sono proprio le donne che hanno subito qualche forma di violenza nel corso della propria vita. Come riportato in una ricerca a cura dell’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali (FRA) la percentuale delle donne intervistate che identifica la sospensione dei comportamenti abusivi dell’uomo come elemento determinante nel percorso di uscita dalla violenza è superiore alla percentuale di chi ha indicato come risposta l’aver ricevuto un sostegno di tipo professionale o l’azione da parte del sistema giudiziario[1]. Questo dato ci fornisce un solido argomento per comprendere che l’intervento con gli uomini costituisce prima di tutto un importante fattore protettivo per le vittime, oltre che un’opportunità di cambiamento per gli autori.
Per essere realmente efficaci, i percorsi offerti dai centri di trattamento specialistico dovrebbero essere sempre più integrati non solo con quelli rivolti alle vittime e con le risposte del sistema giudiziario ma anche con il complessivo piano degli interventi offerti dal sistema socio-sanitario. Come mostrato da una ricerca nel progetto Daphne III “Evaluating European Perpetrator Programmes”, più della metà dei 134 programmi partecipanti realizzati in 22 differenti nazioni Europee evidenzia che almeno il 30 % degli uomini che frequentano programmi finalizzati ad interrompere i comportamenti abusivi accedono ai percorsi senza essere stati inviati dalle Autorità[2]. Questo significa che buona parte di loro giungono di spontanea iniziativa ai trattamenti proposti (e i dati ci rivelano che lo fanno in particolari momenti di rischio come dopo un episodio violento o durante la separazione dalla compagna) o perché inviati da altri servizi presso i quali sono già in carico. Occorre dunque intensificare la capacità di rilevazione del maltrattamento nei servizi, a cui spesso gli autori si rivolgono “in incognito” attraverso la richiesta di sostegno psicologico individuale, genitoriale o di coppia o per altre problematiche di natura sociale o sanitaria. Solo così, sarà possibile realizzare una risposta corale di contrasto della violenza, in cui ogni operatore, indipendentemente dal ruolo professionale occupato, diventa parte attiva della soluzione[3].
Molto ci sarebbe da dire, nello specifico, sul lavoro con gli uomini. Questo intervento ci sollecita a dilatare la visuale offerta dagli strumenti clinici tradizionali e a trasformare la relazione di aiuto in un laboratorio culturale che ha l’obiettivo di alfabetizzare gli adulti e disegnare con loro nuovi scenari di vita. Per fare ciò, occorre superare una concezione di violenza incasellata in una qualche forma di sapere, sia esso di natura medico-psichiatrica o sociale, e la percezione dell’autore come un soggetto irrecuperabile, in preda al raptus o incapace di intraprendere un percorso di cambiamento. Occorre anche superare un approccio che si fonda sull’accettazione incondizionata di quanto ci porta l’uomo, tenendo salda la rotta sul piano dell’assunzione di responsabilità e imparando a riconoscere le resistenze che lo condurranno a minimizzare la violenza, a colpevolizzare la partner o a ricercare la nostra solidarietà. In questo senso, l’intervento centrato sulla persona diventa effettivamente focalizzato sulla violenza, perché si articola sulle criticità che essa presenta senza scotomizzarle o interpretarle attraverso una chiave di lettura riduzionista. Non è un lavoro semplice e la strada da fare è ancora molta, ma rispetto a pochi anni fa, siamo sicuramente più in grado di percepire la violenza come un problema complesso che ha bisogno di risposte complesse e il coinvolgimento degli uomini come una priorità non solo per proteggere le donne e i bambini ma anche per costruire un nuovo paradigma che favorisca il cambiamento sociale.
Bibliografia
M.Benasayag, G. Schmit (2003), Les passion tristes, La Dècouvert, Paris 2003, tr.it. L’epoca delle passioni tristi. Feltrinelli, Milano 2004.
J. Galtung, Peace by peacefull means: peace and conflict, development and civilization, SAGE publications, 1996, tr.it Pace con mezzi pacifici. Esperia, Milano 2000.
A. Jenkins, Invitations to responsibility. The therapeutic engagement of men who are violent and abusive. Dulwich Centre Publications 1990.
G. Grifoni, L’uomo maltrattante. Dall’accoglienza all’intervento con l’autore di violenza domestica. Franco Angeli, Milano 2016.
J.B. Kelly, M. P. Johnson, Differentiation Among Types of Intimate Partner Violence: Research Update and Implications for Interventions. In “Family Court Review”, 46, 476-499, 2008.
E. Pence, M. Paymar, Education Groups for Men who Batter: the Duluth Model, Springer, New York 1993.
M.E. Ricci, V. Langher I problemi dell’intervento psicologico-clinico nei casi di maltrattamento nella coppia. In P. Velotti Legami che fanno soffrire. Dinamica e trattamento delle relazioni violente. Bologna: Il Mulino, 2012.
WHO, World Report on Violence and Health, Geneva, World Health Organization 2002
[1]European Union Agency for Fundamental Rights (FRA). Violence against women – an EU-wide survey: Main results report. Publications Office of the European Union, Luxembourg 2014.
[2] O. Ginés, H. Geldschläger, D. Nax, A. Ponce A. European perpetrator programmes: A survey on day-to-day outcome measurement. Studia Humanistyczne AGH, 14, 33-52, 2015.
[3] A questo proposito, segnalo il progetto Engage, co-finanziato dall’Unione Europea, che ha visto coinvolti diversi partner europei che si sono mossi con l’obiettivo di definire specifici percorsi formativi a favore degli operatori di prima linea, in modo da fornire loro le competenze necessarie per riconoscere l’autore di violenza e orientarlo attraverso un counseling breve ai servizi specialistici presenti sul territorio. La versione italiana della Road Map e del pacchetto formativo prodotto sono reperibili all’indirizzo: https://www.centrouominimaltrattanti.org/page.php?progetto_engage