di Morena Lari e Luigi Serrapica
- Introduzione
La prima parte di questo elaborato descrive la ‘metropoli’ come oggetto storico a partire dalla sua comparsa nel XIX secolo. I riferimenti principali sono Londra e Parigi, per l’Ottocento, in particolare la capitale francese. Per discutere di contemporaneità, si è scelto Milano: capitale della moda, per l’Italia e per il mondo, le sue vetrine costituiscono esempi di arte effimera da un lato e di ‘narcisismo bivalente’ dall’altro. La moda, come tentativo narcisistico di differenziarsi dalla masse, è un altro degli aspetti considerati. L’anonimato e l’indifferenza al prossimo che la metropoli offre hanno esiti spersonalizzanti sull’individuo. Chi non vuole rimanerne schiacciato deve trovare il modo di apparire e di farsi notare. Di farsi ammirare. Al narcisismo è dedicata l’ultima parte dell’articolo. Il mito di Narciso racconta di un ragazzo bellissimo che muore di inedia per ammirare la propria immagine riflessa nell’acqua. Anche i passanti si specchiano – narcisisticamente – nelle vetrine: ma non sono i soli a rispecchiarsi.
- La metropoli nella storia
Nel XIX secolo, complici mutamenti radicali a livello sociale, economico e industriale, si sviluppa quel fenomeno urbanistico noto come ‘metropoli’. Essa si definisce come agglomerato urbano di enormi dimensioni, capace di ospitare milioni di individui – non sempre in condizioni di vita accettabili – attratti a loro volta da un’ampia offerta lavorativa e, dunque, dalla prospettiva di un miglioramento sociale. Ogni epoca, non solo a partire dalla Rivoluzione industriale, ha la propria metropoli ‘di riferimento’ che la simboleggia, come può essere stata Roma ai tempi dell’Impero. Se la seconda metà del XX secolo può riconoscere a New York il ruolo di “capitale di un’era”, è altrettanto vero che Milano, per l’Italia, ha assunto quelle caratteristiche tali da prenderla a modello per l’epoca a noi contemporanea. Il XIX secolo, per ragioni diverse, può essere ben rappresentato dalla storia urbanistica di Londra e Parigi, due capitali industriali e culturali che hanno invitato pensatori, artisti e letterati a confrontarsi con la novità sociale dell’immane densità di uomini e donne concentrati in spazi relativamente piccoli. Friederich Engels, con La situazione della classe operaia in Inghilterra, considera le condizioni di vita delle classi più povere di città come Londra e Manchester sottolineando l’abbrutimento in cui versa la popolazione della capitale inglese: «Le centinaia di migliaia di individui di tutte le classi e di tutti i ceti che si urtano tra di loro non sono tutti esseri umani con le stesse qualità e capacità, e con lo stesso desiderio di essere felici? […] Eppure si passano accanto in fretta come se non avessero nulla in comune, nulla a che fare l’uno con l’altro, e tra loro vi è solo il tacito accordo per cui ciascuno sul marciapiede tiene la destra, affinché le due correnti della calca, che si precipitano in direzioni opposte, non si ostacolino a vicenda il cammino; eppure nessuno pensa di degnare gli altri di uno sguardo. La brutale indifferenza, l’insensibile isolamento di ciascuno nel suo interesse personale emerge in modo tanto più ripugnante e offensivo, quanto maggiore è il numero di questi singoli individui che sono ammassati in uno spazio ristretto»[1]. La descrizione di Engels riassume la spersonalizzazione e il senso di isolamento tipici della metropoli industriale e capitalista orientata verso bisogni nuovi, fra cui la socialità non è una priorità. Per questo articolo, tuttavia, si è scelto di concentrare l’attenzione su Parigi per gli interessanti spunti offerti da Charles Baudelaire in tema letterario e da Walter Benjamin, sul piano sociologico e filosofico, la cui opera di principale ispirazione è intitolata – non a caso – Parigi, capitale del XIX secolo. Anche l’arte, con Gustave Caillebotte, restituisce un’immagine parigina di quei tempi: il dipinto Paris, temps de pluie mostra una piazza della capitale francese popolata di persone, vestite di scuro, in cui non compare la minima forma di socialità ma dove gli individui si muovono solitari o a coppie, ciascuno verso le proprie destinazioni.
- A passeggio (da soli) nella metropoli
La vita nella moltitudine e nella massa, dunque, qualunque sia la metropoli di riferimento, sembra essere connessa all’esperienza della solitudine. Le metropoli assumono peculiarità del tutto simili fra loro, si somigliano a tal punto nel loro carattere e nel loro manifestarsi nell’animo di chi vi soggiorna tali da essere paragonate a una foresta: tutte le selve si corrispondono , in qualche modo, sono simili in quanto intrico di alberi e vegetazione al cui interno si muovono animali di varie specie. In questi labirinti non esiste un solo modo di orientarsi (e di perdersi) e, di conseguenza, non vi è un’interpretazione univoca di esse. L’uomo metropolitano affronta la vita con freddezza di stampo numerico: da qui consegue un atteggiamento individualistico che riduce i rapporti interpersonali all’indifferenza. La vita metropolitana si fonda sulle equivalenze precisamente definite e sulla precisione e l’univocità dei contratti e degli impegni, come suggerisce George Simmel ne La metropoli e la vita dello spirito e in Filosofia del denaro. Nell’analisi di Benjamin sulla metropoli assume ruolo portante nel tentativo di interpretazione del fenomeno metropolitano la figura del flâneur: il perdigiorno distratto e dinoccolato che si aggira annoiato per la città, in assidua cerca di novità e di ‘frammenti’ di vita. Un outsider, un dandy, un osservatore della realtà, attirato da tutto ciò che è ‘moderno’: le Esposizioni universali, molte delle quali si terranno proprio a Parigi, sono il maestoso luogo in cui la fiera diventa enciclopedia dello scibile umano, presso cui le industrie mettono in mostra merci sempre più nuove, sempre più belle, sempre più desiderabili. Ed è proprio qui, nell’anelito all’ultima novità, al possesso di ciò che è più ‘alla moda’, che si instaura il rapporto del flâneur con la sua epoca.
- Moda come ricerca della novità
La moda non è solo rappresentazione esteriore di se stessi e neppure è solo vanità, perché in essa (soprattutto nell’alta moda) niente è vano oppure lasciato al caso. Essa è principalmente ostensione di sé, trasformazione della propria persona in una vetrina, in un oggetto da guardare – possibilmente ammirare – e invidiare. Dunque, da copiare: la moda è, per usare le parole di Georg Simmel, «lo sviluppo temporale della differenziazione delle merci», secondo un nuovo modello di consumo e produzione. Alla base della diffusione di un nuovo gusto si pone il desiderio di imitare chi ne è portatore: per questa ragione, secondo Simmel, la moda è sempre di classe. Essa discende da chi appartiene a una classe sociale elevata, per diffondersi verticalmente agli altri strati e nasce per palesare le differenze tra chi vi è membro e chi no. Quando l’oggetto à la page si diffonde verso il basso della società, complice anche l’abbassamento del costo e una maggiore accessibilità al bene, gli strati superiori sono già pronti ad accogliere una nuova moda. Il che alimenta il senso di appartenenza a una classe specifica. D’altro canto, non è possibile sfidare la massa rompendo radicalmente con essa, pena l’esclusione dal gruppo, mentre restarvi schiacciati è un pericolo per la personalità individuale. «Così l’elemento più personale, per salvarsi, deve dar prova di una singolarità e una particolarità estreme: deve esagerare per farsi sentire, anche da se stesso».[2] Il dramma metropolitano vissuto dagli individui è dato dal fatto che questi cercano disperatamente di differenziarsi gli uni dagli altri perché consci di somigliarsi tutti: l’identità individuale è labile e bisogna offrirle degli appigli più stabili. Tuttavia, siccome le vie per la ‘differenziazione’ sono limitate, il rischio è di trovare una via alternativa all’omologazione esattamente laddove la moda (fattore omologante per eccellenza) intende farla trovare. Come sostiene Benjamin, «nei casi estremi, quando all’orizzonte deserto non compare nessuna vela e nessuna cresta d’onda, al soggetto isolato, colto dal taedium vitae, rimane un’ultima cosa: l’immedesimazione».[3] In cosa? Sarà lo specchio in cui si riflette la propria immagine a suggerirlo, indirizzato dalla moda.
Nella ricerca della ‘novità’, della ‘particolarità’ che possa permettere di emergere dal grigiore del conformismo e dell’imitazione, il flâneur indugia nel passeggiare osservando le vetrine e tutto ciò che viene esposto dai negozi. La sua natura è quella del collezionista – sostiene Benjamin – colui che trova contrapposto a colui che cerca gli oggetti del proprio interesse: è la categoria del ‘fortuito’ a guidarne la natura, l’aleatorio viene elevato ad attitudine vitale. Le sue ‘escavazioni’ avvengono nei passage, ai giardini d’inverno, presso i panorami, nelle fabbriche e dentro le stazioni ferroviarie, ovunque possa rinvenire della ‘novità’.
Sono soprattutto i passage, elemento architettonico innovativo del XIX secolo, a costituire il luogo di ritrovamento della novità: si tratta di gallerie commerciali, poste al piano terreno degli edifici metropolitani, ampie e luminose. Qui erano ospitati negozi e attività al riparo dalle intemperie meteorologiche e dai rischi che il crescente traffico automobilistico portava con sé. Lo sventramento di interi palazzi liberò ampi spazi per il commercio e il transito dei pedoni: uno spazio pubblico in una proprietà privata e chiusa. Le sue peculiarità erano l’essere collegato a due strade parallele e il ricevere illuminazione naturale dalla volta vetrata: il trait d’union fra il mercato e il centro commerciale dei nostri tempi. Lì, dunque, il flâneur poteva faire du lèche-vitrine[4] in sicurezza, seguendo la propria inclinazione e assecondando la propria curiosità nel fermarsi a osservare le vetrine dei negozi che vi si trovavano. Afferma Benjamin nel suo Parigi, capitale del XIX secolo: «Nel 1839 era elegante portare con sé una tartaruga andando a passeggio. Il che dà un’idea del ritmo del flâneur nei passage».
Del resto, incubo del flâneur era proprio il poter passare inosservati nella folla. Il non essere notati, il non poter o il non saper emergere dalla massa è una colpa che si sconta con la solitudine, cui è connessa la vita trascorsa con la moltitudine. La velocità della vita moderna non consente soste di alcun tipo: si potrebbe affermare che nella metropoli “chi si ferma è perduto”, dove perduto è da intendersi come dimenticato, superato. E ciò che è superato, in una siffatta società dell’apparenza e della moda, semplicemente non esiste.
- Le vetrine come arte effimera
Il movimento di rincorsa verso la moda viene stimolato dal sempre più repentino mutamento delle mode, dall’instabilità di uno stile che evolve. Il cambiamento non viene solo suggerito dai mass media, ma inoculato anche dal ritmo sincopato con cui le vetrine cambiano i propri allestimenti. Una città come Milano, che ha fatto della moda e del fashion il proprio biglietto da visita nel mondo, diventa paradigma del narcisismo che si specchia nelle vetrine. I negozi del centro, nel cosiddetto “Quadrilatero della moda”, rappresentano uno spazio vitale di ‘arte effimera’, intesa come forma di espressione dalla durata limitata. Come sembra suggerire Gillo Dorfles, rientra nell’arte concettuale: con questo termine Dorfles indica esperienze artistiche che si svincolano o (tendono a farlo) dall’oggetto e dalla “piacevolezza della manipolazione” per rivolgersi principalmente in un quid, un’idea in cui l’opera si situa per suscitare un’immagine o una situazione[5]. Così le vetrine diventano esperienza artistica per chi le osserva: effimere quanto una stagione di moda e gradevoli quanto sono desiderabili gli oggetti lussuosi che ospitano. Come arte effimera, le vetrine ‘appassiscono’ – passano – ma sono pur sempre uno spettacolo di cui godere: vi è un innegabile narcisismo nella fruizione di quello spettacolo come se si trattasse di una pièce teatrale o un happening. Ci si reca presso le vetrine milanesi delle grandi firme, come fossero attrazioni, vi si scattano foto ricordo da condividere sui social network, perché l’esserci (esserci stati) conta quanto il dimostrarlo pubblicamente: quel che non è possibile possedere, tramite l’acquisto, lo si può possedere attraverso l’impossessamento figurato.
Le vetrine, pur esponendo merce non facilmente acquistabile dal vasto pubblico, restano uno spettacolo da vedere, di cui godere a livello estetico: per l’osservatore comune, il flâneur dei nostri tempi, è sempre possibile fruire della visione della vetrina in cui egli può specchiarsi e riconoscersi, immedesimarsi quasi. Le vetrine svincolano dall’oggettivazione della merce, portando l’interesse su loro stesse, nutrendo – appunto – il narcisismo di chi guarda. Ispirandoci al romanzo di Michael Ende, Momo, al mondo delle vetrine è riportato il concetto di tempo, identificato come l’arte nel suo farsi, elevandola a qualcosa di impalpabile e riportandola prossima alla vita quotidiana, caratterizzata da incertezza, instabilità e mutazione (spaziale, temporale ed emozionale): l’elemento decisivo per attrarre il potenziale acquirente.
- Moda e vetrina: Narciso e consumismo
La vetrina è concepita come un piccolo palcoscenico separato dal proprio pubblico da un vetro, una superficie trasparente e riflettente. Chi vi transita può specchiarsi e guardarsi, oltre che osservare ciò che essa espone. Avvicinandosi, il soggetto vede se stesso circondato da ciò che è esibito nella vetrina, come in una fantasmagoria. Quasi come se fosse il prodotto di un fine montaggio cinematografico che sovrappone due realtà, lasciando intravedere allo spettatore illusioni e possibilità. Chi guarda – si direbbe – è il passante. Chi osserva sembra essere il flâneur, il potenziale acquirente: tuttavia, è innegabile che la stessa vetrina ‘guardi’ al di fuori.
La vetrina non rappresenta più soltanto se stessa in quanto esposizione di merce. Diventa il primo e muto scambio di informazioni economiche e sociali del capitalismo moderno. Il negozio ‘guarda’ sull’esterno, per capire le reazioni del pubblico di fronte all’installazione: la vetrina funziona quanto più è osservata, quanta più gente vi si sofferma, ammirata. Il brand cresce quanto più diventa sinonimo di desiderabilità.
Basti considerare lo sfarzo e la cura con cui vengono preparate le vetrine. L’impegno, anche economico, in vista di un ritorno che può procrastinarsi nel tempo in maniera indefinibile. Quelli che vengono considerati qui sono solo alcuni esempi di vetrine dell’alta moda allestite a Milano in tempi recenti: dietro vi sono un lavoro artistico e una ricerca di ammirazione presso il pubblico indefinito. Narcisismo puro, si potrebbe sostenere: piacere agli altri per puro piacere di sé.
La vetrina si specchia in se stessa, dunque. In un certo senso, si può dire che si guarda e si piace, ammira se stessa e la propria bellezza. Diventa desiderio di sé esibito al passante che, a sua volta, vi si specchia per ammirare se stesso: due facce di uno stesso Narciso che, però, nel mito muore – appunto – perché incapace di separarsi dalla propria immagine riflessa.
- Le vetrine di alta moda
Le vetrine preparate per il marchio Dolce & Gabbana durante la stagione autunnale del 2017 presso il negozio milanese di via Della Spiga, per esempio, sono state concepite come un’installazione in cui trovavano posto alcuni dei prodotti a marchio dei due stilisti, in particolare borse e scarpe: le merci sono poste su riproduzioni di carretti colorati e circondati da dolciumi tipici italiani. Sono vetrine che accompagnano il desiderio primitivo, comune e infantile, di giocare ad agghindarsi con dolci, da indossare ma anche da consumare. E se la passione per le scarpe trova un rimando nella cultura popolare contemporanea, grazie a film (Il diavolo veste Prada) oppure a serie televisive (Sex and the City), i dolciumi in vetrina assumono un sorprendente significato di possesso dell’oggetto: farlo proprio, mangiarlo, rendendolo inaccessibile a chiunque altro. È, verosimilmente, il possesso di ciò che altrimenti sarebbe inarrivabile come quando – di fronte a un dipinto come la Gioconda – la si possiede per la durata di uno sguardo, durante il quale opera e fruitore sono tutt’uno in un’alienazione senza tempo e senza spazio in un rapporto vis-à-vis con la tela.
Ma il narcisismo delle vetrine odierne arriva a portare ulteriori significati – apparentemente nascosti – facendo riferimento ad artisti e opere d’arte celebri, quasi a voler elevare lo spazio vetrinistico a momento culturale. La gioielleria Damiani, che ha una boutique in via Monte Napoleone a Milano, ha promosso – sempre nell’autunno 2017, un’esposizione di propri prodotti inseriti in un giardino dell’Eden. Vicino a una mela del peccato campeggiano tentatori alcuni serpenti dorati e di pietre preziose, ovvero gli anelli Damiani a foggia di rettile biblico. Un chiaro rimando all’Eden, con giochi di luce e prospettive che creano in un minuscolo spazio espositivo la sensazione estetica di godimento e desiderio.
Il risultato, in quest’ultimo caso, richiama i diorami ottocenteschi che i flâneur parigini poterono osservare nei Passage di Parigi: un lavoro scenografico di messa in posa della realtà che emerse negli anni in cui il dagherrotipo cominciava a diffondersi e in cui la ‘fantasmagoria’ diveniva elemento filosofico di critica sociale. Anche un altro marchio della moda, Christian Dior, ha costruito rappresentazioni vetrinistiche sui diorami: non sfuggirà il gioco di parole fra il cognome del fondatore della maison e il termine ‘diorama’, invariato tanto nella lingua inglese quanto in quella francese. Altro esempio di diorama, quello promosso a vetrina dal marchio Dolce & Gabbana, in cui a essere protagonisti sono i due stilisti titolari del celebre marchio: i due uomini, diventati miniatura giocattolo (anche acquistabile, al costo di 45 euro), sono parte della scenografia in cui i loro prodotti vengono esposti. Una finzione elevata ad esibizione, laddove – seguendo il critico inglese James Hall – l’autoritratto diventa «cultura del narcisismo» nel tentativo di lasciare una traccia di sé, in questo caso rendendosi collezionatile.
Le vetrine sono il prodotto di un narcisismo che, a sua volta, sembra derivare più che dall’osservatore, dal brand proprietario dell’esposizione che ricerca, spasmodicamente un pubblico da cui essere guardato, ammirato. Nel Natale 2016 Gucci fece allestire le proprie vetrine installando manichini in posa all’interno di una scenografia incorniciata da archi gotici, mentre a fine 2017 la stessa maison propose una vetrina che rimandava ai trittici della seconda metà del Quattrocento. Il manichino, da semplice ‘indossa-abiti’ diventa protagonista della scena: in una vetrina allestita per Valentino (siamo ancora nel 2016), il manichino è adagiato su una poltrona come se fosse nell’atto di voltarsi a guardare, alla propria destra, verso l’esterno della vetrina mentre il resto del corpo è volto in avanti. L’effetto – straniante – è di un manichino che si fa muto osservatore dello spettacolo delle vicende umane che transitano nei pressi del negozio e che sospendono le proprie vite nell’atto fugace di sognare il possesso di un pezzo di alta moda.
Le vetrine dell’alta moda accompagnano questo sogno, rendendo loro stesse fruibili pur restando totalmente inaccessibili ai più – al pari, esattamente, delle opere d’arte più celebri. Nel 2005 lo stilista Yohji Yamamoto espose i propri vestiti all’interno della collezione permanente di Palazzo Pitti a Firenze, dove abiti e opere d’arte ‘dialogavano’ fra loro invitando a suggestioni estetiche del tutto originali per i visitatori. In quel frangente, la moda entrava nel “luogo dell’arte”, ma nei casi che sono stati presentati qui è vero il contrario: è l’arte a entrare nel “luoghi della moda”, a seguirne le regole, a farsi mezzo di presentazione di un brand e tramite per il narcisismo dei marchi.
- Conclusione. La vetrina come specchio
Il narcisista è colui che ama piacere, che ama se stesso e che si nutre del piacere agli altri: ammalia con la propria avvenenza, seduce ma non ama altro al di fuori di sé. Nel mito che ne racconta la vicenda, Narciso trova iniziale ristoro presso la fonte Rannusia dove si abbevera per trovare in seguito un’altra forma di benessere estetico: si innamora della propria immagine, e ne è consapevole, a tal punto da lasciarsi morire facendo sfiorire la propria bellezza. Allo stesso modo, la vetrina può essere interpretata come quella fonte in cui si specchiava Narciso: un rispecchiarsi a due facce, perché a perdervisi non sono solo i passanti e il flâneur, ma la moda stessa.
Il passante è certamente spettatore, ma anche attore: osserva – e si osserva, rispecchiandosi nella vetrina e aggiustando, narcisisticamente, il proprio look – oltre a essere ‘osservato’, messo alla prova quasi, dalla vetrina stessa che sembra poter giudicare il valore dell’immagine pubblica che egli offre di sé. La vetrina valuta l’adeguatezza di chi si arresta nei suoi paraggi: specchiandosi in essa, l’individuo trova il senso del proprio ‘essere alla moda’. Ma anche la vetrina, specchiandosi nel consumatore, riceve un riscontro: perché la desiderabilità di una merce dipende, anche, dal feedback che solo il consumatore, fermandosi, può dare. Se una persona sceglie di fermarsi presso una vetrina, anche solo per guardare, senza intenzione di acquistare, è perché quella vetrina è riuscita a vincere il ‘rumore visivo’ e ad attirare anche solo per un istante l’occhio del cittadino metropolitano.
La vetrina deve diventare ‘acqua da bere’, dissetare il passante offrendogli una buona ragione per interrompere temporaneamente il ritmo rapido e deciso dell’incedere metropolitano: per sedurre può bastare un istante, ma per far diventare indispensabile una sosta presso una vetrina, ciò che vi è all’interno deve colpire in profondità l’occhio assuefatto alla novità del flâneur.
I luoghi dello shopping, che siano i passages oppure i centri commerciali, hanno questa funzione attrattiva nei confronti del passante per la loro desiderabilità che si colloca intrinsecamente (per il potere delle merci che contengono) ed estrinsecamente (perché il senso della loro bellezza è ‘dato’ dal di fuori). Il bosco in cui Ovidio colloca la tragica fine di Narciso può oggi essere rappresentato dal cosiddetto ‘Quadrilatero della moda’, luogo la cui bellezza sopraffà l’individuo che vi si reca: la vetrina, nel suo senso più ampio, divide attraverso superfici “limpide e chiare” due Narciso.
Ma, in definitiva, quale dei due si specchia veramente nell’altro?
Bibliografia
Allan Poe, L’uomo della folla in Tutti i racconti e le poesie, Sansoni, Firenze, 1974.
Baudelaire, I fiori del male, Dall’Oglio, Milano, 1963.
Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino, 1986.
Dorfles, Ultime tendenze nell’arte di oggi. Dall’informale al neo-oggettuale. Nuova edizione aggiornata e ampliata, Feltrinelli, Milano, 2008.
Duranty, La nuova pittura : a proposito del gruppo di artisti che espone alle Gallerie Durand-Ruel, Erba d’Arno, Fucecchio, 2007.
Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra: in base a osservazioni dirette e a fonti autentiche, Rinascita, Roma, 1955.
M.C. Marchetti, Moda e società, in M.C. Marchetti, E. Danese, Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda, Meltemi, Roma, 2004.
Menzio, Orientarsi nella metropoli. Walter Benjamin e il compito dell’artista, Moretti & Vitali, Bergamo, 2002.
Missac, Passage de Walter Benjamin, Seuil, Parigi, 1987.
Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Roma, 1995.
[1] 1 F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra: in base a osservazioni dirette e a fonti autentiche, Rinascita, Roma, 1955, pp. 50-51.
[2] G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Roma, p. 55
[3] W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, cit., [M 4a, 3].
[4] Espressione francese intraducibile che sta per “guardare le vetrine dei negozi senza giungere all’acquisto di alcunché”.
[5] Cfr. G. Dorfles, Ultime tendenze nell’arte di oggi. Dall’informale al neo-oggettuale. Nuova edizione aggiornata e ampliata, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 132.