EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

Il ponte e le fonti. La coscienza tra psicoanalisi e neuroscienze

di Gianfranco Pecchinenda

Riflessioni a partire dal volume di Mark Solms (2021), La fonte nascosta. Un viaggio alle origini della coscienza, Adelphi, Milano 2023 

La ricerca presentata in questo volume di Mark Solms è intimamente legata a uno dei grandi temi che caratterizzano la storia della scienza e della filosofia occidentali: la natura e le origini della coscienza

Come sostiene – tra gli altri – il fisico Paul Davies, si tratta probabilmente del “problema più difficile che la scienza possa affrontare oggi e l’unico che rimane quasi impenetrabile dopo quasi due millenni e mezzo di considerazioni”.

In passato, questa stessa questione veniva espressa in termini alquanto diversi: si trattava di spiegare il rapporto tra corpo e anima, tra materia fisica e spirito immateriale. Difficilmente si può evitare di scorgere, nella profonda similitudine tra tali interrogativi, la permanenza di una visione cartesiana del mondo, a sua volta ereditata da quella platonica, che fin dagli inizi dell’epoca moderna ha influenzato in maniera determinante tutto il successivo pensiero occidentale. 

E la ricerca di Cartesio – come è noto – tendeva fondamentalmente a rintracciare in uno specifico luogo fisico – che finirà per trovare nella celebre ghiandola pineale – il ponte che unisce l’universo della materia a quello immateriale. In linea con una tale concezione, inevitabilmente dualistica, era quello il luogo in cui si riteneva di poter rintracciare quella che oggi Solms definirebbe la fonte nascosta della coscienza.

Non credo di spoilerare niente anticipando che, com’era facilmente prevedibile, non troveremo in questo libro una risposta definitiva all’imperitura questione. Tuttavia, seguendo pazientemente lo scrupoloso approccio interdisciplinare proposto da Mark Solms, e sapendo cogliere l’originalità dei tanti spunti che caratterizzano la sua ricerca, potremo certamente riconoscere in essa uno dei più interessanti contributi recenti, al sempre attuale dibattito che ancora oggi costituisce il numero uno dei problemi scientifici (e forse anche esistenziali) della nostra epoca.

Questioni di metodo

Partiamo da alcune questioni metodologiche. In linea con l’approccio di alcuni grandi studiosi della mente – da Sigmund Freud a Karl Popper; da Joak Panksepp a Erik Kandel e Oliver Sacks, solo per citare alcuni dei principali riferimenti intellettuali di Solms –, l’autore non mostra alcuna remora nel suo alternare la complessa disamina di questioni più strettamente scientifiche, con considerazioni e speculazioni di carattere più intimamente biografiche. 

Ed è grazie a questa narrazione sapientemente sincopata, che veniamo a conoscenza della necessità, di tipo prettamente esistenziale, che a un certo punto della sua carriera ha fatto improvvisamente virare i suoi interessi dalla neurobiologia alla psicoanalisi. Tutto sembra aver avuto inizio con un terribile incidente che coinvolge Lee, il fratello maggiore dell’autore, mentre si trova su una spiaggia della Namibia: una frattura con emorragia endocranica a seguito di una banale caduta accidentale durante un gioco da bambini, l’intervento neurochirurgico d’urgenza che gli salverà la vita, la lenta ripresa, il ritorno alla vita di tutti i giorni. 

Tuttavia, da allora in poi, Lee non tornerà mai più ad essere lo stesso Lee con cui lui interagiva, giocava, parlava prima dell’incidente.

Quello che però maggiormente turbava il giovane Mark – come ricorda egli stesso – era il fatto che Lee sembrava pensare in modo diverso da prima. “Sembrava che Lee fosse presente e allo stesso tempo assente, come se avesse dimenticato la maggior parte dei giochi fatti insieme, quelli che avevamo fatto così tante volte (…): Lee, in sostanza, non era più Lee (…). Mi chiedevo dove fosse finita la sua versione precedente (…). Se il nostro essere dipendeva completamente dal funzionamento del nostro cervello, allora cosa sarebbe accaduto di me alla morte del mio cervello insieme al resto del mio corpo?” (p. 21)

A partire da allora, Mark Solms deciderà di voler dedicare tutta la sua carriera scientifica a questo problema: comprendere in termini biologici la sua stessa esistenza; spiegare, in termini di esperienza soggettiva, l’esistenza fisica.

È già in questa prima fase, dunque, che emerge la centralità del problema della coscienza, distinguibile in due ulteriori interrogativi: Quello principale è, come già ricordato, in che modo la mente si correla al corpo; in che modo il cervello genera la mente. A questo, se ne associa ineludibilmente un altro: il cosiddetto “problema delle altre menti”. Se la mente è un’entità soggettiva inaccessibile all’osservazione sensoriale, è di conseguenza impossibile conoscere la mente degli altri, perché è possibile conoscere solo la propria.

Durante il suo percorso di formazione, Solms si appropria di tutte le possibili teorie che nel Novecento hanno provato a risolvere tali enigmi: il comportamentismo (behaviorismo), il primo cognitivismo, il funzionalismo, le neuroscienze. Ma soprattutto i testi di Oliver Sacks, che lo renderanno sensibile ad una prospettiva di ricerca presa poco sul serio dagli scienziati dell’epoca: quella di considerare le “storie” che i pazienti raccontano sulle proprie esperienze come un materiale prezioso (che diventerà, nella sua metodologia, sempre più indispensabile) allo studio della coscienza.

Scienze e pseudoscienze della coscienza

Si presenta qui un problema apparentemente insormontabile, soprattutto per un giovane ricercatore che intendeva progredire nella sua carriera accademica: la “scienza” si basa sul metodo sperimentale che, per definizione, presuppone la falsificabilità delle proprie stesse ipotesi, basate necessariamente su dati “oggettivi”. Se l’accesso ai dati della coscienza poteva però essere fornito – anch’esso per definizione – solo da resoconti di carattere “soggettivo”, come poter coniugare i propri interessi di ricerca sul tema della coscienza? 

Se da una parte è evidentemente impossibile descrivere la vita interiore degli esseri umani senza poter attingere a un resoconto in prima persona delle loro storie, prendere in considerazioni dati soggettivi implicherebbe allontanarsi da ogni possibile scientificità delle proprie ipotesi, al punto che lo stesso Freud a suo tempo si lamentava – come ricorda lo stesso Solms – di trovare “strano” che le sue storie cliniche si dovessero “leggere come novelle” e che fossero, per così dire, “prive dell’impronta rigorosa della scienza”. 

Quando nella ricerca si giunge ad un punto morto o ci si trova di fronte ad una barriera esplicativa del genere, si può decidere di fermarsi e desistere, oppure ci si può intestardire con il rischio di girare eternamente impelagati in qualche assurdo circolo. Oppure, ancora – come farà Solms – si può pazientemente andare alla ricerca di un’altra porta d’ingresso. 

Se il metodo scientifico non consente di porci una determinata domanda (come quella relativa al rapporto tra mente e cervello, spirito e materia, corpo e coscienza) o si elimina la domanda (perché non consente risposte scientifiche verificabili) oppure si tende a trovare la risposta anche al di fuori dello stretto ambito metodologico consentito dalla scienza stessa.

In fondo anche il grande Karl Popper, vero e proprio “inventore” del falsificazionismo, dopo aver definito la teoria psicoanalitica “pseudoscientifica”, aveva aggiunto che alcune teorie o ipotesi, pur non potendosi definire scientifiche, potevano tuttavia essere in grado di fornire allo studio del comportamento umano dei contributi comunque utili e originali. Questo, aggiungerei, vale soprattutto per indagini come quelle legate alla coscienza.

Comunque sia, è un fatto che nel 1987 – assumendo una posizione che ancora oggi continuerebbe ad essere assai impopolare tra i suoi colleghi – Solms decide di far virare la sua formazione verso un ambito psicoanalitico. Da qui il suo trasferimento al Royal London Hospital e la sua decisione di definire il suo approccio neuropsicoanalisi, facendo suo il vecchio progetto freudiano fondato sulla convinzione – datata 1914 – per cui “tutte le nozioni psicologiche che noi andiamo via via formulando dovranno un giorno essere basate su un sostrato organico”. 

Sempre restando sul piano della descrizione autobiografica, almeno altri due incontri risulteranno determinanti per comprendere il percorso scientifico che condurrà Solms ad elaborare il suo approccio teorico. Il primo, è quello avvenuto con il premio Nobel Erik Kandel, da cui egli trarrà un ulteriore stimolo all’idea che bisogna convincere gli psicoanalisti a studiare le neuroscienze e a confrontarsi con le ricerche neurobiologiche. Il secondo, assolutamente centrale, è quello con Jaak Panksepp (a cui, peraltro, è dedicato il libro), il neuroscienziato che più di ogni altro ha compreso l’origine e il potenziale dei sentimenti nel determinare il comportamento degli animali superiori, esseri umani compresi. Dopo l’incontro con Panksepp (in seguito corroborato anche dall’incontro con le teorie di Damasio e Merker) Solms maturerà definitivamente l’idea che ciò che maggiormente mancava alle neuroscienze cognitive era una maggiore attenzione alla natura corporea (incarnata o embodied) dell’esperienza vissuta, e che fosse quindi necessario riconsiderare completamente il ruolo dell’esperienza fisica dei sentimenti.

Il sentire dei corpi

Se le neuroscienze prestavano così poca attenzione agli affetti (termine tecnico usato da Panksepp per riferirsi ai sentimenti) era necessario spostare, dal punto di vista della ricerca organica, il baricentro degli studi sulla coscienza dalla corteccia cerebrale al tronco encefalico e all’ipotalamo, le parti del cervello che ubbidiscono al “principio del piacere”, criticando così una delle più radicate ipotesi di derivazione freudiana. “In breve – scrive Solms – sembrava che Freud avesse erroneamente invertito la relazione funzionale tre l’Es (tronco encefalico) e l’Io (corteccia), almeno per quanto riguarda i sentimenti. Freud pensava che l’Io che percepisce fosse conscio mentre l’Es che prova sensazioni fosse inconscio. È possibile – si chiede dunque Solms – che Freud avesse formulato il suo modello della mente capovolgendolo rispetto a quello reale?” La sua risposta critica, evidentemente affermativa, è esplicitata con grande chiarezza in quello che può essere considerato uno dei capitoli più originali del libro, dedicato appunto alla spiegazione storico-scientifica del cosiddetto errore corticocentrico, ovvero la tesi (dominante negli ultimi centocinquant’anni) secondo cui la coscienza si genererebbe nella corteccia cerebrale.

A questo punto, partendo da una ridefinizione del concetto di esperienza, Solms da inizio alla pars construens più significativa del suo lavoro.

Riportando opportunamente i risultati di una serie di esperienze con pazienti che per diverse ragioni erano non coscienti (nel senso di essere inconsapevoli di determinate percezioni o memorie), Solms osserva come in essi permaneva comunque una capacità di “provare qualcosa”, sottolineando come una tale “percezione dei sentimenti”, assumendo sempre una connotazione caratterizzata da giudizi di valore (ovvero un riferimento edonico), potesse condurre ad una più attenta riformulazione del concetto stesso di sentimento.

Alcune forme più semplici di sentimento – sostiene l’autore – come la fame, la sete, la sonnolenza, l’affaticamento muscolare, la nausea, il senso di freddo, l’urgenza urinaria, la necessità di defecare, eccetera – non vengono generalmente considerati “stati affettivi” veri e propri, eppure lo sono. Ciò che distingue tali stati affettivi da altri stati mentali – egli spiega – è proprio la loro valenza edonica, ovvero il fatto di essere percepiti come “buoni” o “cattivi”. In pratica alcuni stati affettivi, come la fame o la sete, differiscono da percezioni puramente sensoriali, come la vista e l’udito, per la loro valenza o significato. Insomma, “gli stimoli visivi e i suoni non possiedono una qualità intrinseca, i sentimenti si”.

“Il fatto che un sentimento sia buono o cattivo ci dice qualcosa sul bisogno biologico soggiacente: la sete è spiacevole mentre dissetarsi ci fa sentire bene, perché è necessario mantenere l’idratazione del corpo entro limiti compatibili con la nostra sopravvivenza (…). In breve, il piacere e il dispiacere ci dicono come stiamo in relazione ai nostri bisogni biologici. La valenza buona o cattiva riflette il sistema dei valori da cui dipendono tutti i processi biologici della vita, vale a dire che è positivo sopravvivere e riprodursi e negativo non riuscirvi.

A determinare il comportamento di ogni individuo non sono ovviamente questi valori biologici, ma piuttosto i sentimenti soggettivi che essi generano – anche se non abbiamo idea di quali siano i valori biologici sottostanti né li perseguiamo intenzionalmente (…). Gli affetti ci raccontano una lunga storia evolutiva di cui siamo completamente all’oscuro.” (124)

Integrando e rielaborando una importante distinzione di Antonio Damasio tra emozioni e sentimenti, e assimilando le emozioni alle pulsioni freudiane, Solms chiarisce così alcuni punti fondamentali utili a ridefinire il suo impianto teorico fondato sulla relazione tra corpo e sentimenti

Il primo è che non è possibile dissociare i sentimenti dalla condizione corporea (e contestuale) che li ha evocati.

I sentimenti ci informano sull’andamento dei nostri processi biologici e ci spingono ad agire di conseguenza. Su questo punto è necessario ribadire che i sentimenti sono sostanzialmente diversi dalle percezioni puramente sensoriali. Ad esempio, nel caso della percezione visiva, che un oggetto sia di un colore o di un altro non fa differenza; i due colori possono essere scambiati arbitrariamente tra loro senza conseguenze per l’organismo biologico. Per quanto riguarda i sentimenti, invece, essi non possono essere dissociati dalla condizione corporea che li ha evocati.

“Se si inverte la sensazione soggettiva del rosso con quella del blu non ci sono conseguenze rilevanti, ma travisare la sensazione di paura con l’ansia di separazione (o la fame con l’urgenza urinaria) ci porterebbe alla morte”. (126)

Il secondo è che i sentimenti sono necessariamente coscienti. In altri termini, un sentimento di cui non siamo consapevoli non può essere considerato un sentimento.

“Cose diverse – sottolinea opportunamente Solms – richiedono nomi diversi, e quindi anche la differenza tra i bisogni avvertiti e quelli che non lo sono rende necessaria l’introduzione di una distinzione terminologica”. 

I bisogni sono diversi dagli affetti (quelli che Damasio definisce emozioni). 

I bisogni corporei possono essere registrati e regolati dal sistema nervoso autonomo.

“La coscienza – sottolinea Solms – entra in gioco solo quando si avvertono i bisogni, e questo accade quando i bisogni informano noi della necessità di compiere un lavoro (…). Il sentimento, una volta soddisfatto il bisogno di cui è messaggero, scompare dalla coscienza”. (127)

Il contesto, le intenzioni e la soggettività

Il terzo punto, infine, riguarda la priorità che, secondo Solms, viene attribuita ai sentimenti, ovvero i bisogni sentiti, rispetto a quelli che non si “provano”. Essendo continuamente stimolati da una grande molteplicità di bisogni, dalle funzioni vegetative (regolazione del bilancio calorico, controllo della respirazione, digestione, eccetera) alle routine comportamentali, è necessaria una selezione di fondo. E a tal proposito l’autore fa riferimento al ruolo cruciale che assume la dimensione del contesto.

È un tema, questo, rispetto al quale avrebbero molto da dire le discipline sociologiche e sul quale sarebbe molto interessante approfondire la riflessione. Non essendo questa la sede più opportuna, sintetizziamo la posizione di Solms sottolineando come, a suo parere, l’intensità di un determinato bisogno sia sempre, necessariamente, da porre in relazione alle opportunità concesse dalle mutevoli e imprevedibili circostanze. Per chiarire meglio tale questione, può essere utile introdurre un ulteriore concetto discusso dallo stesso autore, che ha a che vedere con il fondamentale tema fenomenologico dell’intenzionalità della coscienza: la volontarietà

Quando diventiamo consapevoli di un bisogno, esso diventa un referente determinante per guidare il nostro comportamento.

Diversamente da ogni comportamento istintivo o automatico, un comportamento è volontario o intenzionale quando è soggetto a scelte del tipo “qui” e “ora”. Una tale scelta implica sempre, necessariamente, il riferimento a un sistema di valori che ci dica cosa è “buono” o meno; ciò che è “giusto” o meno. Torniamo così alla già discussa e fondamentale caratteristica degli “affetti”: la loro valenza. Decidiamo cosa fare o non fare in base alle conseguenze sentite come positive o negative delle nostre azioni. La legge degli affetti consiste proprio in questo. 

“Il comportamento volontario, guidato dagli affetti, conferisce quindi un enorme vantaggio adattativo rispetto al comportamento involontario: ci libera dagli automatismi e ci permette di sopravvivere a fronte di situazioni impreviste.

Il fatto che il comportamento volontario sia necessariamente cosciente rivela la funzione biologica più profonda dei sentimenti: essi guidano il nostro comportamento in condizioni di incertezza. Ci consentono di determinare, in momenti cruciali, se una linea di condotta è migliore o peggiore di un’altra”. (129)

Se, da una parte, la selezione naturale avrebbe contribuito a consolidare e trasmettere i meccanismi elementari della sopravvivenza, è solo grazie all’evoluzione dei sentimenti (ossia con quell’abilità assolutamente unica di cui sono dotati alcuni organismi complessi di rilevare lo stato dei propri bisogni) che ha potuto fare la sua comparsa un fenomeno completamente originale nel nostro universo: quello della soggettività e del processo storico dell’individualizzazione.

L’entropia e le origini fisiche della coscienza

Come appare evidente, il lavoro di Solms è caratterizzato da un tenace tentativo di affrontare il tema della coscienza senza cedere ad alcuna tentazione dualistica. Nel fare ciò, il suo sforzo è quello di non cedere a più agevoli tentazioni metafisiche, come in molte teorie finisce per accadere, ma rivolgersi piuttosto alla fisica. Un tentativo che appare tanto più significativo quanto più egli si propone di non lasciarsi sopraffare dalle tante barriere che storicamente tendono a separare le discipline umanistiche da quelle naturali. Al centro del suo progetto, come abbiamo visto, egli colloca principalmente la psicoanalisi, arricchendo però continuamente le sue ipotesi grazie al contributo dei grandi autori che abbiamo finora ricordato.

A questi, prima di concludere la sua approfondita analisi, Solms aggiunge il celebre “principio dell’energia libera” di Karl Friston (secondo cui ogni organismo vivente sarebbe costantemente alla ricerca attiva di una condizione sensomotoria ottimale in grado di ridurre l’entropia), che può essere considerato tra i più influenti neuroscienziati oggi in circolazione.

La complessità del lavoro di Friston e la difficoltà connesse ai suoi tentativi di ricondurre a equazioni matematiche le leggi generali della condotta umana, sono abbastanza note agli specialisti. Basterà qui segnalare, pertanto, anche per completare il quadro dei riferimenti teorici seguiti da Solms, che entrambi condividono l’idea che la coscienza possa essere considerata un processo omeostatico, la cui funzione principale sarebbe quella di combattere la naturale tendenza all’entropia manifestata da ogni sistema. Se le leggi dell’omeostasi sono riconducibili alle leggi della fisica, allora nulla impedisce di ipotizzare di poter seguire lo stesso processo anche per quanto riguarda la coscienza.

Seguendo un tale percorso, si può finalmente cominciare a chiarire quale potrebbe essere la tanto agognata fonte della coscienza, che poi sarebbe la stessa in cui hanno origine i sentimenti (nei termini da egli stesso definiti): una formazione reticolare profonda del tronco cerebrale. E alla spontanea quanto inevitabile domanda che segue, ovvero “come” e “perché” si genera la coscienza, la risposta rinvierebbe al cosiddetto arousal, ovvero all’eccitamento suscitato dai neuromodulatori (da non confondersi con i neurotrasmettitori della comunicazione sinaptica), che attivano intere regioni della rete regolando lo “stato” generale della corteccia. 

Tale eccitamento (arousal), partendo dal tronco cerebrale, risveglierebbe il triangolo decisionale del cervello, consentendoci di affrontare tutto ciò che è imprevisto. Il nostro comportamento volontario, come abbiamo appena ricordato, dipende dalla necessità di decidere in condizioni d’incertezza. Diversamente, se le nostre ipotesi su ciò che c’è nell’ambiente circostante, o anche dentro di noi (per esempio l’esperienza della “fame d’aria”), venissero confermate, non avremmo bisogno di alcun “eccitamento”, e invece di agire volontariamente sulla base di una decisione consapevole (la coscienza, appunto), agiremmo semplicemente in modo automatico e inconscio.

Possiamo così avviarci alla conclusione di queste note, affermando che se l’obiettivo di questo lavoro era quello di fornire un contributo alla costruzione di un ponte esplicativo in grado di collegare le funzioni oggettive della mente all’esperienza soggettiva, si tratta di un’operazione certamente riuscita. Facendoci immergere nella ricerca neuroscientifica e nella riflessione filosofica più attuali, le pagine di Solms ci mostrano con indubbia chiarezza quelli che sono alcuni dei pilastri fondamentali del suddetto ponte, indicandoci inoltre le possibili vie da seguire per poter raccogliere ulteriori materiali utili al rafforzamento della sua costruzione.

Una di queste vie, è necessario aggiungere, è quella di provare a scardinare alcuni dei procedimenti teorici che, se non analizzati con attenzione, rischierebbero a suo avviso di rendere ancora più difficile l’operazione. A tal proposito, nella parte finale del suo lavoro Solms prende particolarmente di mira il principale teorico del cosiddetto problema difficile – il filosofo David Chalmers – ricostruendo il dibattito che, originatosi già negli anni Settanta a seguito del celeberrimo articolo di Thomas Nagel: Che cosa si prova a essere un pipistrello? era stato poi ripreso e sviluppato con una diffusione via via crescente a partire dalla metà degli anni Novanta fino ad oggi.

Come è noto agli addetti ai lavori, Chalmers, pur non contestando apertamente l’ipotesi che la coscienza possa avere una base fisica, ha portato avanti per decenni l’idea che, non avendo ancora trovato una buona spiegazione, probabilmente non la troveremo mai e che quindi non potremo mai risolvere scientificamente il problema mente-corpo.

L’elemento centrale su cui si basa la sua posizione critica a un tale approccio è un sempre rinnovato (e ben mimetizzato) dualismo: “Chiedersi come le cose oggettive producano cose soggettive riflette un pensiero impreciso, e rischia di rendere il problema difficile più difficile di quello che è. L’oggettività e la soggettività – commenta Solms – sono prospettive osservative diverse, non cause ed effetti. Gli eventi neurofisiologici non producono gli eventi psicologici esattamente come il lampo non genera il tuono: questi fenomeni sono manifestazioni concomitanti di un singolo processo sottostante” (359-60)

Secondo Solms, insomma, per spiegare la psicologia in relazione alla fisiologia dobbiamo riuscire ad astrarci da entrambi i tipi di fenomeni osservati e poi, di nuovo, astrarci da questi due insiemi di astrazioni per cercare un denominatore comune.

Per utilizzare le sue stesse parole, caratterizzate da quell’indomabile ottimismo che da sempre accompagna ogni genuina impresa scientifica, Solms scrive, per riaffermare come non possa esistere una funzione cognitiva la cui spiegazione possa automaticamente giustificare anche l’esperienza:

“Prevedo invece che una spiegazione scientifica della funzione dei sentimenti spiegherà automaticamente la coscienza. Non vedo perché non possa farlo. A partire dalle leggi della termodinamica possiamo arrivare – in modo sorprendentemente agevole – a un’entità soggettiva dotata di qualità e di capacità di esecutività, le cui priorità più urgenti vengono soppesate, attimo per attimo, percepite affettivamente e poi trasformate – si spera con la dovuta cautela – in un’azione corrente. Questo, credo, è tutto quanto occorre per sperimentare la propria esistenza”. (322)


Mark Solms

La fonte nascosta. Un viaggio alle origini della coscienza,

Adelphi, Milano 2023

Share this Post!
error: Content is protected !!