EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Il ponte e le porte. Sociologia e fenomenologia delle dipendenze

di Gianfranco Pecchinenda

Per noi esseri umani, e soltanto per noi,

 le sponde del fiume non sono semplicemente esterne,

 ma anche “separate”;

e questo concetto di separazione

non avrebbe alcun significato

se non le avessimo prima collegate

 nei nostri pensieri rivolti a un fine,

 nei nostri bisogni e nella nostra fantasia. 

Georg Simmel

 

La dipendenza e la routine

L’epidemia da cui siamo stati investiti sta portando con sé, tra le conseguenze più significative, un radicale mutamento delle nostre abitudini. Sarebbe difficile trovare, ancora oggi, una disamina più lucida e puntuale di quella proposta da Albert Camus ne La Peste, a proposito delle conseguenze sociali di questo genere di fenomeni: innanzitutto quelle relative al collasso della routine.

La coscienza della fragilità umana, unitamente al senso di ineludibile dipendenza dal nostro organismo, comincia a pervaderci in maniera implacabile. Alcuni pensieri si impongono, rendendo vano ogni tentativo di rituffarci, come se niente fosse, tra le rassicuranti braccia delle nostre quotidiane consuetudini.

I piccoli o i grandi drammi individuali che finora avevano interessato – chi più e chi meno –tutti noi; o anche alcune più estese catastrofi (i napoletani appartenenti alla mia generazione, ad esempio, hanno vissuto sulla propria pelle almeno un paio di queste, come il colera del Settantatré o lo stesso terremoto dell’Ottanta), conservavano comunque, pur nella loro eventuale atrocità, un qualcosa di confortante. Innanzitutto, essi servivano a scuotere prepotentemente i nostri stati d’animo. In qualche modo potevamo avvertire una loro utilità, ci motivavano ad agire al di sopra delle nostre forze, ci colpivano direttamente nel nostro essere individui o gruppi particolari, specifici; per alcuni momenti erano riusciti, grazie alla violenza d’urto con cui ci si erano imposti, a farci fronteggiare con rinnovato coraggio la nostra stessa mediocrità.

Si trattava, infatti, di drammi da cui sapevamo di poter uscire più forti di prima e che, soprattutto,  ci persuadevano di essere portatori di un destino fuori dal comune: Io sono quello che ha vissuto quella catastrofe, Io sono quello che ha subito e ha superato quella drammatica situazione. L’Io, o l’eventuale Noi (familiare, di coppia, cittadino, nazionale) con cui ci si poteva identificare, ci faceva vivere l’enorme privilegio di poterci sentire “speciali.” Sentivamo cioè di essere stati improvvisamente catapultati all’interno di una Storia, di avere l’occasione (rara) di poter diventare protagonisti di una straordinaria quanto rassicurante Grande Narrazione.

L’epidemia che ci sta investendo in questo periodo, invece, sembra avere una natura profondamente diversa; non un dramma circoscritto ma una tragedia planetaria. Essa ci scaraventa di fronte alla necessità di doverci confrontare con l’universalità delle nostre paure, delle nostre pene, della nostra precarietà. È il nostro Essere Umani stesso ad essere chiamato in causa. Il solo apparire di una tale eventualità, con il suo prepotente imporsi a livello globale, fa emergere un senso di caducità agghiacciante. Raramente può capitare, nel corso di un’esistenza, di percepire così chiaramente l’estrema banalità di tutti gli altri piccoli o grandi drammi che possono investire gli esseri umani. E con essi, l’inezia di tutte le nostre preoccupazioni quotidiane (da quelle lavorative a quelle sentimentali; da quelle legate alla salute a quelle economiche), soprattutto di quelle grazie alle quali ci siamo sempre sentiti così profondamente unici e distinti da chiunque altro: le radici di tutti i nostri pretesi sensi di superiorità rispetto agli altri componenti della nostra specie.

Accettare l’universalità delle nostre angosce, sembra insomma corrispondere a dover prendere coscienza della nostra sostanziale inutilità nel mondo. Se io scomparissi, se la mia famiglia scomparisse, se l’istituzione, il quartiere, la citta, la nazione – se tutto ciò che quotidianamente mi appare così fondamentale e indispensabile nell’esistenza – sparisse, cosa cambierebbe? Inutile provare a rispondere. Sarebbe una constatazione brutale, troppo amara per poterla anche solo considerare.

È evidentemente un fenomeno mai sufficientemente stimato: ci rendiamo conto della nostra dipendenza dai pattern consuetudinari di sentire, di pensare e di agire, solo quando un loro improvviso crollo ce li fa percepire in tutta la loro imprescindibile importanza.

L’Assurdo e la Tregua

Ne Il Mito di Sisifo c’è un celebre brano con cui Albert Camus riesce a dipingere in modo impareggiabile  questo stesso processo: “Capita il giorno in cui gli scenari crollano. Alzarsi, tram, quattro ore di fabbrica o di ufficio, mangiare, quattro ore di lavoro, mangiare, dormire e Lunedì, Martedì, Mercoledì, Giovedì, Venerdì e Sabato sullo stesso ritmo. Capita che un giorno, un giorno soltanto, il perché emerge, e tutto comincia in questa stanchezza tinta di stupore. Comincia, questo è l’importante. La stanchezza è alla fine degli atti di una vita meccanica, ma inaugura allo stesso tempo il movimento della coscienza. Essa si sveglia e provoca ciò che segue. Ovvero il ritorno inconscio alla routine, oppure il risveglio definitivo”.

Camus sembra volerci ricordare, con queste parole, e in gran parte di tutta la sua opera, come le nostre esistenze siano incatenate a delle istruzioni che ci sono state fornite in modo preconfezionato ed irriflesso, e come sia proprio a partire dal sospetto nei confronti di queste indicazioni – istruirsi, fare una carriera, sposarsi e compiere il proprio dovere di marito (moglie), padre (madre), etc. – che sarebbe possibile sganciarsi dai determinismi e provare quell’illusione di libertà al culmine della quale tuttavia compare, surrettiziamente quanto inevitabilmente, l’Assurdo.

E che in ultima analisi c’è sempre il pericolo, per tutti coloro che quotidianamente vengono coinvolti nella loro affannosa routine, di ritrovarsi da un momento all’altro a dove riflettere sul fatto che in fondo tutta quell’agitazione gli serviva solo per dimenticare di dover morire.

“Oggi è stato un giorno felice; solo routine!” – fa dire lo scrittore uruguaiano Mario Benedetti al protagonista del suo romanzo La Tregua, un altro grande capolavoro sul sentimento dell’Assurdo, in cui si può leggere tra l’altro: “Questo pomeriggio, mentre tornavo dall’ufficio, un ubriaco mi ha fermato per strada. Era uno strano ubriaco, con una luce speciale negli occhi. Mi ha preso per un braccio e mi ha detto, quasi appoggiandosi a me: sai che ti succede? Ti succede che non vai da nessuna parte! (…). Sono già quattro ore che non riesco a stare tranquillo, come se realmente non stessi andando da nessuna parte e solo adesso me ne rendessi conto”.

L’Assurdo in quanto tale, per quegli autori che in un modo o nell’altro hanno provato ad affrontarne e spiegarne il sentimento, sembrerebbe fare la sua comparsa nel momento stesso in cui l’uomo si rende conto di non poter più ignorare il fatto che il mondo, inumano e dunque del tutto illogico e privo di senso, non si interessa affatto a lui: non si tratta di una teoria ma di un’esperienza. Esattamente lo stesso tipo di esperienza in cui ci sta facendo precipitare la diffusione incontrollata del Coronavirus.

Quando si cerca di essere sempre razionali, ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo; quando non ci si abbandona mai alle illusioni che pure gli uomini sono così stati così abili ad elaborare nel corso di millenni, allora si rischia di incorrere in quello che, per Camus e i suoi epigoni, è sempre stato il più serio dei problemi: quello di farsi trovare impreparati! Impreparati di fronte all’eventuale irrompere improvviso del sentimento dell’Assurdo. Un modo di sentire che coinvolge, per schematizzare, l’atteggiamento della nostra cultura nei confronti dell’indifferenza della natura e del mondo, della precarietà dell’Essere Umano, della malattia, dell’invecchiamento, del tempo e – soprattutto – della morte.

La vita è quella che è

Nell’inesorabile oscillazione della storia delle vicende umane, quel sentimento tragico della vita magistralmente descrittoci da Miguel de Unamuno tende insomma periodicamente a ritornare, spazzando via con sé quel sostanziale ottimismo contenuto nella rassicurante quotidianità dei nostri piccoli drammi e costringendoci a rispolverare la grande lezione della tragedia esistenzialista: la vita è quella che è!

Questo, soprattutto, è quanto sembra volerci ricordare l’attuale “crisi sanitaria”, invitandoci a percepire la morte pandemica come simbolo della fine di un certo tipo di ottimismo, fondato su basi esclusivamente razionali di stampo tecnologico e progressista.

Georg Simmel, in un suo illuminante saggio intitolato Ponte e Porta, dopo averci ricordato che «soltanto l’essere umano, di fronte alla natura, possiede la capacità di unire e di dividere»  e che dunque tutto, in natura, può apparirgli collegato oppure separato – sottolineando quanto, in tale processo, sia fondamentale il ruolo dell’immaginazione e della fantasia – riesce a farci comprendere con una straordinaria metafora come il giusto equilibrio del vivere umano possa farsi risalire all’accordo che deve esistere tra il ponte e la porta. Un ponte necessario per entrare in relazione, e una porta che orienti tale relazione nella prospettiva più adatta al fine di raggiungere un’armonia vantaggiosa per tutti.

«Progettando e costruendo il ponte – egli scrive – la volontà umana di connessione sfida due tipi di resistenza: quella passiva della distanza esteriore e quella attiva di una particolare configurazione fisica. Realizzando una sintesi della natura e disponendosi secondo l’immagine che quest’ultima fornisce, il ponte diventa emblematico della tensione umana a tradurre in opera l’inesistente immaginabile che l’esistente attuale suggerisce o evoca». In un mondo fortemente caratterizzato dall’artificialità umana, come quello attuale, la resistenza attiva con cui confrontarsi sembra diventare oggi quella del dato, del già costruito, del già esistente: il programma precostituito razionalmente del dover essere.

Proseguendo con la metafora, è con la costruzione del ponte che può diventare visibile, tangibile e vivibile una dinamica del movimento che sia stata anzitutto immaginata. Rendendo percepibile tale processo, e l’unità mentale tra le sponde, il ponte acquisisce un valore non esclusivamente e riduttivamente strumentale ma anche poetico, stabilendo la necessità di un’apertura a soluzioni creative e aperte all’immaginazione:  «nella fattualità e nella soddisfazione di fini pratici, il ponte stabilisce un collegamento di ciò che è separato, rendendolo immediatamente visibile» .

Di fronte alla prepotente onnipresenza della morte, insomma, l’imporsi di un’idea che renda evidente la necessità del richiamo a una specifica solidarietà umana, finalizzata al rafforzamento di modelli di relazione tra gli individui che non sia governata  solo ed esclusivamente da principi di carattere strumentale: la stessa che, in altri termini, Albert Camus definiva una morale della comprensione.

 

Abitudini e dipendenze: fenomenologia e biologia del XXI secolo

L’essere umano, come qualunque altro essere vivente, è un animale precario, soggetto a molteplici forme di dipendenza. Innanzitutto c’è una dipendenza implacabilmente connessa al suo stesso sostrato biologico. Alla nascita, essendo relativamente prematuro (apparato istintuale inefficace e capacità di mobilità praticamente nulla), l’essere umano dipende totalmente dai genitori e dal loro gruppo di appartenenza per poter sopravvivere. Si tratta di una dipendenza che, com’è noto, si protrae inoltre molto più a lungo che in qualunque altro mammifero. In secondo luogo, e di conseguenza, tale dipendenza si estende all’ambiente più in generale e, in particolare, alla società, alle istituzioni e alle possibili interazioni con altri organismi, compresi gli individui della sua stessa specie.

D’altra parte si tratta di un assunto di partenza di qualsivoglia analisi sociologica: l’essere umano è innanzitutto un animale sociale.

Quando si parla specificamente di dipendenze, tuttavia, questo secondo aspetto – relativo alla “naturale” socialità dell’essere umano – tende a far trascurare il primo, ovvero il suo essere dipendente, sempre e comunque, da un organismo dotato di una sua specifica biologia. È invece buon criterio fenomenologico quello di considerare la bio-antropologia un elemento imprescindibile per poter comprendere alcune caratteristiche legate all’emergere di stati di dipendenza più o meno specifici, compresi quelli in apparenza più palesemente riconducibili a fenomeni strettamente sociali, quali ad esempio la tossicodipendenza, il cibo, l’alcol o la sempre più diffusa dipendenza dalle tecnologie.

Com’è noto, il nostro è un corpo che interagisce con gli altri corpi in un ambiente dato. Il nostro corpo è parte di noi, ci appartiene. Esso è un elemento imprescindibile di noi stessi, anche perché lo percepiamo – seppure non allo stesso modo attraverso cui possiamo percepire gli altri oggetti presenti nel mondo circostante. Edmund Husserl, padre fondatore della fenomenologia, sosteneva che riflettere sulla questione del “nostro” corpo, fa emergere un evidente paradosso epistemologico: dobbiamo riconoscere, infatti, che c’è un corpo che noi governiamo e che agisce nell’ambiente seguendo le nostre intenzioni, la nostra volontà: si tratta, a tutti gli effetti, in questo caso, del nostro corpo. Tuttavia, al contempo, non possiamo evitare di considerare che esiste anche un altro corpo,  un corpo che non ci appartiene, quanto piuttosto noi apparteniamo ad esso, ne siamo oggetti; un corpo che segue intenzioni e volontà che noi ignoriamo e che spesso ci si impongono: è un corpo che si ammala a causa di una banale caduta o di un minuscolo virus; è un corpo che si consuma, che invecchia e che condiziona le nostre intenzioni e le nostre volontà allo stesso modo in cui lo condizionano gli altri organismi viventi e gli altri oggetti presenti nell’ambiente. Insomma, è un corpo da cui dipendiamo.

Per risolvere un tale paradosso, Husserl distingueva, anche terminologicamente, il primo tipo di corpo, il Leib, da un secondo tipo, il Korper: noi non siamo “soltanto” l’insieme degli organi che compongono il nostro corpo, eppure dobbiamo perlomeno riconoscere che siamo anche il corpo che di tanto in tanto avvertiamo come il nostro corpo.

Nonostante l’impagabile gratitudine nei confronti del padre fondatore di questo fondamentale paradigma, bisogna pur riconoscere quanto una tale soluzione risenta eccessivamente dei modelli culturali e scientifici dell’epoca in cui veniva proposto (gli albori del XX secolo). Oggi possiamo sostenere che la fenomenologia stessa, anche a seguito delle grandi innovazioni paradigmatiche intervenute in molte delle scienze contemporanee – dalla fisica alla chimica, dalla genetica alle neuroscienze – e, soprattutto, dal passaggio da una biologia determinista e dualista a una biologia finalmente aperta alle scienze sociali e decisamente contraria ad ogni forma di essenzialismo – debba ripensare alcuni termini della sua riflessione.

“Nella nostra nuova comprensione delle dinamiche biologiche – scrive Pier Vincenzo Piazza, un acuto neuroscienziato contemporaneo – la parola o il contesto sociale sono in grado di modificare la biologia dell’uomo quanto un farmaco. Scienze umane, psicologia, psicofarmacologia e ingegneria genetica non sono che approcci complementari per accedere alla materia dell’uomo e di conseguenza alla sua umanità”. Il nostro corredo biologico – sembra insomma sostenere questo nuovo approccio – è estremamente mutevole ed elastico. E soprattutto, esso si nutre ed emerge dall’interazione con l’ambiente al punto tale da poter essere plasmata dalle nostre esperienze di vita.

Libertà e stati di dipendenza

Se è vero, pertanto, che ogni essere vivente soffre di un’insormontabile dipendenza nei confronti dell’ambiente in cui si trova, ciò che caratterizza gli esseri umani sono le strategie messe in atto per adattarsi al proprio contesto, trasformando tale ineluttabile dipendenza in un’illusione di indipendenza: la cosiddetta libertà.

“La” libertà è un concetto la cui analisi, per essere compresa, deve essere necessariamente riferita a un qualche soggetto. Essa potrebbe infatti assumere una sua autonomia ontologica solo se preceduta dall’opportuno articolo “la”, che ci consentirebbe di riferirci alla “libertà” in sé, come se fosse una realtà distinta e separata dalle persone (libere) e dal contesto cui si riferisce.

Si tratterebbe, in questo caso, di un processo di sostantivizzazione le cui conseguenze ci condurrebbero ad una serie di infinite possibili speculazioni di carattere metafisico. La libertà, così come la in-dipendenza, data la nostra costituzione bio-antropologica, altro non sarebbe se non una fuorviante illusione ontologica, che lasciamo volentieri alla riflessione degli specialisti del settore.

Per quanto riguarda la nostra sociologia fenomenologica, invece, la libertà deve sempre essere considerata come una libertà di qualcuno da qualcosa.

Diventa pertanto indispensabile, prima di proseguire, riflettere sul fatto che non esiste, storicamente, un unico concetto di libertà, applicabile a tutti gli esseri umani in ogni tempo e in ogni luogo. Se ci riferiamo alla cultura occidentale, è possibile infatti evidenziare almeno tre grandi modelli di riferimento succedutisi, a partire dai greci, a proposito della libertà.

Il primo, ascrivibile per grandi linee al pensiero aristotelico, indica la presenza negli esseri viventi (non solo umani) di una sorta di istinto (la forza vitale) che li induce a ricercare il soddisfacimento dei propri impulsi (ricerca di piacere e felicità, secondo gli epicurei). Il limite posto a tale libertà è quello che deriva dalle esigenze degli altri e dunque del bene collettivo. Gli antichi romani legittimeranno tale idea di libertà sia attraverso l’invenzione di una vera e propria divinità (Libertas, la cui effige riemergerà durante la Rivoluzione Francese), sia – soprattutto – sul piano legislativo, introducendo lo statuto riferito all’uomo libero, proprietario di beni privati, libero di esercitare i propri diritti in relazione ad essi. La libertà, nel contesto di questi principi, nasce dunque come regolamentata, circoscritta e controllata da Leggi precise; resterà al nostro “arbitrio” la scelta di esercitarla o meno in funzione di determinate costrizioni esterne.

Il secondo modello, introdotto e portato avanti dalla cultura Cristiana, sarà profondamente diverso, soprattutto grazie all’introduzione del liberum arbitrium, da parte di Sant’Agostino, nel corso del IV secolo. La libertà diventa così una facoltà specifica dell’anima umana, introdotta per preservare l’indiscutibile bontà di Dio e per riversare, di conseguenza, tutte le responsabilità di ogni possibile male alla (libera) volontà degli esseri umani. In altre parole, Dio ha conferito all’uomo, con il libero arbitrio, la libertà di scegliere tra il bene e il male e quindi la responsabilità (individuale) di ogni peccato. Complesse argomentazioni teologiche arricchiranno successivamente tale questione relativa al libero arbitrio, considerandolo così una facoltà della volontà e, soprattutto, della ragione. L’essere umano si comincerà anzi a distinguere dal resto del mondo animale per questa sua capacità, unica della sua specie, di poter esercitare la propria libertà grazie all’uso della volontà e a seguito di un’analisi razionale che si oppone ai propri istinti “naturali”. Si afferma così, attraverso tale percorso, una concezione di libertà – molto diffusa ancora oggi nel senso comune – come di una facoltà autonoma, separata da qualunque sostrato biologico, che anzi si contrappone e combatte le (peccaminose) pulsioni dettate dall’irragionevole corpo biologico.

Il terzo modello, infine, sarà quello che si affermerà a seguito della dichiarazione dei diritti dell’uomo nel XVIII secolo e che darà vita al moderno concetto di libertà, che può essere racchiuso, anche se semplificando molto, nell’idea che ogni individuo può fare tutto ciò che desidera, purché non nuoccia ad altri individui. Solo la Legge può limitare l’azione degli individui, al fine di garantire i diritti “naturali” di tutti, tra cui, appunto, il diritto alla libertà. Le anime che eravamo, di cui Dio ci aveva dotati per resistere ai peccati del corpo, sono diventate menti (guidate da cervelli) di individui che potranno aspirare ad ogni libertà, inclusa quella di non credere in Dio.

La dipendenza di Bartelby: I would prefer not to

Un ulteriore tassello andrebbe però considerato, a monte e a valle dei modelli appena esposti. Esso riguarda una specificità tipicamente umana: la libertà non solo di scegliere, ma anche e soprattutto quella di non scegliere. L’uomo – come sosteneva già Marx a suo tempo – è immediatamente una cosa sola con la sua attività sociale. Non si distingue da essa. A partire da tale considerazione, Felice Cimatti riflette sul fatto che essa sembrerebbe non valere per gli animali non umani. Prendendo ad esempio l’attività di un animale non umano qualunque – come il castoro – egli sottolinea come, per compiere la sua attività vitale – ad esempio il costruire dighe sul corso dei fiumi – un castoro si basi essenzialmente su abilità innate, abilità appunto che non deve imparare, che sono fuori di lui. Essere un castoro significa appunto nascere con un insieme di aspettative e abilità innate. In questo senso se il costruire dighe è un’attività che distingue il castoro dagli altri animali, se questa è la sua essenza animale, allora questa stessa essenza è presente in modo implicito in lui già dalla nascita: l’essenza del castoro è dentro il castoro. Ciò che l’animale può imparare è vincolato in modo più o meno rigido dalla sua costituzione biologica innata. Espresso in altro modo – continua nel suo esempio Cimatti – “ogni castoro è ogni altro castoro, nel senso che ovunque vi sia un castoro, troveremo più o meno le stesse attività, la stessa forma di vita, le stesse esperienze”.

Per l’animale umano, al contrario, questa identificazione fra essenza organica e individuo non vale, perché: “l’uomo fa della sua attività vitale l’oggetto stesso della sua volontà e della sua coscienza. Ha un’attività vitale cosciente. Non c’è una sfera determinata in cui l’uomo immediatamente si confonda (l’arte, lo sport, la musica…). L’attività vitale cosciente dell’uomo distingue l’uomo immediatamente dall’attività vitale dell’animale. Proprio soltanto per questo egli è un essere appartenente ad una specie”. Mentre per un castoro – sostiene Cimatti – il costruire una diga è un’attività spontanea e naturale (nessuno glielo spiega o glielo insegna attraverso l’esperienza), per l’animale umano ogni attività presuppone una presa di posizione cosciente rispetto alla propria esistenza.

Il castoro, appena è fisicamente in grado di farlo, comincia a occuparsi del fiume e della diga; il castoro, cioè, non deve interrogarsi su quel che c’è da fare, il compito del castoro è già inscritto nella sua natura; è la selezione naturale che “ha pensato” a quello che devono fare i castori. L’essere umano, invece, fin dall’inizio, si trova nella situazione di doversi chiedere cosa fare, dove farlo e perché farlo, e così – appunto: “l’uomo fa della sua attività vitale l’oggetto stesso della sua volontà e della sua coscienza”.

Il castoro, in pratica, è libero di costruire una diga, nel senso che non occorre cha qualcuno lo spinga a farlo o glielo imponga con la forza; ma non è libero di non costruire una diga, e invece costruire, ad esempio, un ponte.

L’umano è libero in questo secondo senso: ogni volta si trova nella situazione di dover scegliere fra costruire una diga o un ponte, o non costruire proprio niente, “soltanto per ciò la sua attività è un’attività libera”.

La caratteristica distintiva, specie-specifica dell’homo sapiens la ritroviamo dunque nell’insieme delle attività che egli mette in atto (o può mettere in atto).

Ogni organismo umano può diventare costruttore di dighe, oppure di ponti, ma può anche decidere di attraversare a nuoto gli ostacoli acquatici o decidere di distruggere le costruzioni preesistenti: in questo senso la specificità distintiva umana la ritroviamo non nel singolo comportamento individuale, ma nell’insieme delle relazioni sociali umane: sia di quelle effettivamente esistenti che di quelle ancora soltanto possibili.

Mentre il castoro deve seguire il programma innato, l’uomo, per imparare a costruire una diga o un ponte, deve prima imparare una lingua, poi deve imparare a progettarlo, poi deve organizzare un gruppo di lavoro e attuare l’intervento; è questo il senso in cui diciamo che la caratteristica distintiva si trova al di fuori del singolo individuo umano. Esso emerge dall’insieme delle relazioni umane. Non è soltanto il fatto che l’animale umano sia un animale fortemente sociale: il punto è che l’umano diventa umano soltanto al di fuori di sé, nelle relazioni con gli altri umani. La libertà (umana) può essere determinata solo ed esclusivamente in relazione agli altri. Si può essere liberi solo in relazione agli altri.

 

La dipendenza edonistica

Questa “nuova” libertà, che sancisce in modo irrimediabile l’inestricabilità dell’elemento biologico e di quello socio-ambientale, è caratterizzata da una crescente indipendenza dell’essere umano dall’ambiente ai fini della sopravvivenza. Essa valorizza inoltre enormemente la ricerca di una situazione di benessere che si è tradotta sempre più nella libertà di potersi dedicare ad attività che procurino piacere; le pulsioni al soddisfacimento dei desideri di carattere edonistico, diventano in tal modo importanti almeno quanto quelle relative alla sopravvivenza.

Questa nuova declinazione della libertà – caratteristica esclusivamente umana –  ha finito col produrre l’istituzionalizzazione di tutta una serie di attività ricreative, nel senso attribuitole dal filosofo spagnolo José Ortega y Gasset, cui possono essere ricondotte le attività sportive, quelle artistico-culturali e ludiche, nonché quelle legate al sesso (ovviamente quello indipendente da ogni finalità riproduttiva) e all’uso di droghe e alcolici: la lista di tutta questa serie di attività non finalizzate direttamente alla sopravvivenza, eppure così fondamentali per la nostra autorealizzazione, è enorme; sembrerebbe proprio che attività come drogarsi, giocare d’azzardo, o dedicarsi a competizioni di vario genere, anche a rischio della propria incolumità fisica, costituiscano oramai tra le principali aspirazioni della nostra ricerca di libertà.

Indipendentemente da ogni possibile considerazione di carattere morale, politico, economico o quant’altro, è un dato di fatto indiscutibile che l’industria del tempo libero e del divertimento sia diventata oggi assolutamente centrale nell’organizzazione delle nostre società. Come spiegare l’affermarsi di questo secondo pilastro della libertà umana – la ricerca e la dipendenza dal piacere – che si affianca (talvolta addirittura sovrastandola) alla ricerca della sopravvivenza stessa? Per provare a rispondere a tale questione, può essere utile rivolgersi alle più recenti acquisizioni che emergono nell’ambito della ricerca neuroscientifica.

La questione omeostatica

Gli organismi viventi premiati dall’evoluzione hanno sempre messo in atto, nei confronti dell’ambiente, tutte le strategie possibili per poter sopravvivere e riprodursi. È dall’ambiente circostante che essi ricavano ciò di cui hanno bisogno. È in questo senso che si manifesta la prima e più essenziale forma di dipendenza. In altre parole, ogni dipendenza si manifesta soprattutto quando ciò di cui abbiamo bisogno ci viene a mancare. Mancare a quale scopo? È qui necessario introdurre un concetto fondamentale, quello di omeostasi.

Tutti gli organismi viventi sono sottoposti a una modalità di funzionamento fisiologica caratterizzata dalla tendenza a mantenere un livello di attività “ideale”, definito punto di equilibrio omeostatico. In pratica, qualunque organismo è in grado di adattarsi ai cambiamenti ambientali modificando (aumentando o diminuendo) la propria attività. Tale allontanamento dal punto di equilibrio omeostatico è da considerarsi però sempre transitorio, in quanto l’organismo tenderà, come una corda di chitarra dopo essere stata pizzicata, a tornarci appena possibile.

Come spiega molto efficacemente Pier Vincenzo Piazza, i mammiferi presentano un sistema biologico connesso all’omeostasi caratterizzato da almeno tre fasi: la prestasi, che previene la comparsa di una mancanza imminente, l’endostasi, che corregge una mancanza interna attuale, dunque presente, e l’esostasi, che prepara l’organismo ad affrontare una ipotetica mancanza esterna futura.

L’esempio più efficace per comprendere la prestasi è quello della respirazione. Abitualmente noi non avvertiamo una mancanza di ossigeno e non mettiamo in atto coscientemente la respirazione per rispondere a un bisogno (lo stimolo); il nostro sistema respiratorio funziona in maniera automatica e ritmica per prevenire ogni possibile, eventuale emergere del bisogno. Insomma, il sistema omeostatico funziona in modo automatico e il nostro organismo assorbe la necessaria quantità di ossigeno per poter mantenere il suo equilibrio, senza che sia necessaria nessuna decisione consapevole, nessuna volontà. Quando, tuttavia, siamo sottoposti a uno sforzo eccessivo, o proviamo a trattenere volontariamente il fiato per un lungo periodo, la boccata d’ossigeno successiva ci procurerà un senso di godimento e di piacere che, in situazioni abituali, non proveremmo. Si tratta di uno dei meccanismi più straordinari di cui l’evoluzione ci ha probabilmente forniti: il piacere.

Un discorso simile può essere fatto per il sistema endostatico: l’esempio più calzante, in questo caso, può essere quello dell’acqua. Ai fini di non allontanare troppo il nostro organismo dal suo punto di equilibrio omeostatico, l’acqua è molto meno reperibile nell’ambiente circostante­­ rispetto all’ossigeno. Tuttavia, in questo caso, la mancanza delle risorse nell’organismo fanno emergere una sorta di bisogno, per soddisfare il quale viene attivato il meccanismo endostatico. Il bisogno di bere stimolato dalla sensazione di sete, ci spinge a cercare l’acqua. Non appena la mancanza viene colmata, il sistema viene inibito. Se questo non si verificasse, e noi continuassimo a bere aldilà del bisogno fisiologico, la sensazione diventerebbe molto sgradevole, fino a provocare vera e propria repulsione.

Il sistema esostatico è, infine, quello che più specificamente caratterizza l’organizzazione fisiologica dell’organismo umano. Esso, come abbiamo accennato, serve a gestire le risorse cui è ipoteticamente più difficile poter accedere in un dato ambiente. Al fine di poter immagazzinare risorse potenzialmente poco disponibili (o comunque di cui non si può essere certi di poter disporre in caso dell’emergere del bisogno organico), l’evoluzione ha dotato il nostro organismo di una complessa struttura che, in determinate condizioni, rende l’eccesso (ovvero l’allontanamento dal punto di equilibrio omeostatico) fisiologico. Dato che superare il punto di equilibrio è sgradevole, il sistema esostatico fa ricorso al piacere che, mascherando il malessere dovuto al superamento dell’equilibrio, rende piacevoli lo squilibrio e l’eccesso. Accade molto spesso, ad esempio, con il cibo.

Per una teoria generale della dipendenza umana

L’elaborazione di tali concetti presentati dal professor Piazza aprono il campo ad una possibile teoria generale dell’edonismo, fornendo inoltre un’originale prospettiva sulla tipicità delle dipendenze sempre più diffuse tra gli esseri umani. Comprendere lo sviluppo del comportamento umano a partire dall’analisi della sua dipendenza organica dall’ambiente (quindi dall’aria, dall’acqua e dal cibo, per cominciare), per poi estendere l’applicazione dei meccanismi individuati all’analisi delle dipendenze acquisite (esostatiche), come possono essere quelle ad esempio tecnologiche, farmacologiche o legate all’eccesso di cibo, sembra poter fornire un contributo molto significativo ai fini dell’elaborazione di una prospettiva paradigmatica interdisciplinare, rivolta allo studio di molti degli aspetti, anche quelli più specificamente sociali, legati al fenomeno della dipendenza.

La prima cosa da comprendere, in tal senso, è che non esisterebbe una sola dimensione edonistica, un unico tipo di piacere, ma due. La prima, generata dal sistema endostatico, risulterebbe dal raggiungimento di uno stato di equilibrio interno (ovvero il ritorno al punto di equilibrio omeostatico). La seconda, originata dal sistema esostatico, sarebbe il frutto degli effetti piacevoli legati a certi stimoli esterni al nostro cervello, indipendentemente dall’allontanamento dal punto di equilibrio omeostatico.

Quando abbiamo sete, la soddisfazione associata all’atto di dissetarsi si verifica quando il bisogno viene soddisfatto, ovvero quando una carenza viene colmata (ad esempio, quando l’organismo viene rifornito della quantità d’acqua sufficiente ad eliminare la fastidiosa sensazione di sete). “Questa sensazione edonistica positiva – fa notare Piazza – si ottiene nonostante il fatto che l’acqua di per sé non abbia nessun effetto piacevole, e che bere divenga persino sgradevole una volta superato l’equilibrio idrico dell’organismo. Lo stesso vale per l’aria (…). L’acqua e l’aria non sono dunque delle fonti di godimento, ma degli stimoli che ci permettono di ristabilire un equilibrio interno che, lui sì, produce una sensazione piacevole”.

La dimensione edonistica legata al sistema esostatico sarebbe invece, secondo Piazzi, completamente diversa, in quanto essa sarebbe originata dagli effetti piacevoli provocati da determinati stimoli esterni sul nostro cervello, indipendentemente dall’equilibrio dell’organismo: nel caso del cibo, ad esempio, la sua funzione sarebbe quella di consentirci di superare uno stato di equilibrio, allo scopo di immagazzinare risorse alimentari.

“Che siamo sazi o meno – scrive il neuroscienziato – un delizioso dessert è sempre desiderabile, e il piacere che ci procura non viene realmente modificato dallo stato di equilibrio in cui si trovano le nostre risorse energetiche interne. Nel caso del sistema esostatico, la sensazione di godimento che ne traiamo è una proprietà intrinseca di certe sostanze e attività, e non una conseguenza della correzione del disequilibrio del nostro organismo”.

L’attesa del piacere è essa stessa il piacere

A tal proposito la ricerca neuroscientifica è giunta inoltre a spiegarci come i nostri neurotrasmettitori siano in grado di generare due distinte tipologie di piacere: una per stimolare la ricerca, ad esempio, del cibo, e l’altra per godere del cibo trovato. La celebre frase di Gotthold Ephraim Lessing, await a pleasure, is itself a pleasure – frase prepotentemente diffusa dai media grazie alla pubblicizzazione di un prodotto alcolico – esprime molto bene tale caratteristica del funzionamento del nostro cervello.

L’evoluzione, a quanto pare, avrebbe eretto intorno a tutti i piaceri e a tutti i dolori possibili, le stesse impalcature di sostegno neurofisiologico: una per la punizione e le altre due per la ricompensa (ricercare la ricompensa e goderne).

Per quanto a qualcuno possa apparire avvilente ridurre la nostra ricerca del piacere (da quello procurato dalla contemplazione di un dipinto a quello derivante da un ballo in discoteca) alla visione deterministica secondo cui gli esseri umani sarebbero governati sostanzialmente dalla pura ricerca di ricompense di carattere neurofisiologico, la prospettiva teorica che tale proposta lascia intravedere è certamente stimolante. Le sue fondamenta riguardano l’ipotesi che l’evoluzione ci avrebbe dotati di un meccanismo elaborato e complesso, che ci aiuterebbe a destreggiarci nel nostro ambiente (e nelle nostre interazioni), alimentando dei meccanismi di ricompensa e punizione specifici.

Tale orientamento è peraltro molto spesso suffragato anche da rigorose ricerche empiriche. Il piacere della ricerca e del godimento della ricompensa sembrerebbero infatti legati a due diversi neurotrasmettitori specifici. La ricerca, ad esempio, è stimolata dalla dopamina, presente nell’ipotalamo; il piacere legato alla ricompensa, invece, sembrerebbe legato al lavoro di neurotrasmettitori quali gli oppioidi e le endorfine.

Gli esseri umani, come sappiamo, sono stati in grado di creare diversi “strumenti” in grado di agire direttamente sul sistema esostatico, attivando i cosiddetti moduli della ricompensa. Tanto per fare un esempio, le anfetamine e la cocaina, sono prodotti che attivano il piacere per la ricerca della ricompensa; l’eroina e la morfina attivano invece il piacere per il godimento della stessa.

La dipendenza e la routine: il fattore neuroplastico

Sempre le neuroscienze ci confermano inoltre che, anche dal punto di vista strettamente neurobiologico, si è tanto più appagati quanto più si eseguono azioni abitudinarie. Pur essendo troppo schematica, è la migliore formulazione che io conosca al fine di poter spiegare in poche parole come mai gli esseri umani siano così facilmente soggetti alla dipendenza da alcune sostanze, da alcune tecnologie o, anche, da alcune relazioni o situazioni. La formulazione di questa riflessione presuppone però la precisazione di un altro concetto, quello di neuroplasticità.

Tale concetto si riferisce ai mutamenti della configurazione neuronale del cervello nel tempo, abbracciando sia i cambiamenti strutturali, riguardanti l’insieme dei neuroni e le loro connessioni, sia quelli funzionali, relativi al comportamento del singolo neurone. Include quindi anche le trasformazioni che intervengono a livello sinaptico (cioè nelle connessioni tra neuroni) e alle variazioni dei percorsi neuronali.

Da un punto di vista cognitivo, considerando le interazioni dell’uomo con gli stimoli esterni, la neuroplasticità si manifesta attraverso la capacità del cervello di riorganizzare la propria configurazione neuronale in maniera tale da adattarsi agli stimoli provenienti dall’ambiente e, di conseguenza, anche a quelli prodotti dalle tecnologie, dalle sostanze o – soprattutto – da determinati patterns relazionali e comportamentali.

Da un punto di vista evolutivo, la neuroplasticità è invece fondamentale per rendere più efficaci le azioni che presuppongano delle decisioni da assumere di fronte a situazioni di incertezza. Quando un individuo impara (attraverso l’esperienza e l’educazione) a rispondere in modo efficace ed automatico a uno stimolo esterno, egli tende a ripetere tale risposta in maniera inconsapevole (senza cioè necessità di dover compiere lo sforzo di ricorrere alla corteccia prefrontale per affrontare una serie di complicate e dispendiose deduzioni di tipo logico-razionali). L’acquisizione di un tale automatismo, di un tale “istinto”, ovvero l’acquisizione di un pattern comportamentale abitudinario, aggiunta all’altra grande acquisizione tipicamente umana (il pensiero razionale, appunto) sembra costituire la strategia evolutiva che ha consentito agli esseri umani di aumentare la flessibilità, ovvero la sua capacità di adattamento al mutare delle situazioni ambientali.

L’evoluzione ha fatto in modo che la componente razionale e quella istintiva del cervello si alternassero a seconda delle situazioni: a causa dell’enorme dispendio energetico che il suo utilizzo comporta, il cervello ricorre però al modulo cognitivo-razionale solo se necessario. Il ragionamento logico-deduttivo risulta inoltre essere poco utile in situazioni di emergenza (quando è necessario prendere decisioni immediate o in tempi ridotti). A tal fine l’evoluzione ha introdotto meccanismi di incentivo o di disincentivo il più possibile equilibrati del rapporto tra azione razionale o istintuale. Questo è il motivo per cui gli esseri umani sono disincentivati a ricorrere all’uso del ragionamento, a meno che non sia strettamente necessario (il dispendio di energia implicherebbe in tal caso una grande fatica mentale). Ed è anche questa, probabilmente, la causa principale per cui, come accennavamo, gli esseri umani si sentono tanto più appagati quanto più eseguono azioni abitudinarie.

L’uso di determinate tecnologie, i comportamenti connessi al consumo eccessivo di alcol o droga, ad esempio, generano talvolta dei patterns comportamentali e delle azioni abitudinarie talmente solide da generare un vero e proprio stato di benessere fisico. Se però ricordiamo che ogni volta che ciò accade il cervello inevitabilmente si modifica, diventa più agevole comprendere quali siano i meccanismi organici che inducono alla stabilizzazione di determinate dipendenze.

Attraverso le abitudini che inducono, talune tecnologie, così come talune sostanze o relazioni, finiscono per diventare parte delle nostre abitudini quotidiane. Interrompere un’abitudine non è facile, soprattutto dopo che, grazie alla neuroplasticità, alcune funzioni cerebrali sono state riorganizzate. Agire in modo non consuetudinario intaccherebbe quei processi mentali rassicuranti e a “bassa energia” ai quali il cervello ha imparato ad affidarsi.

Nell’ambito delle nostre abitudini, possiamo individuare almeno tre fasi temporalmente distinte: il segnale, l’azione e la gratificazione. Lo schema è grossomodo il seguente: prendere il caffè è un segnale che mi spinge ad accendermi una sigaretta, il che mi procura un piacere. Se, a seguito dell’assunzione del caffè, mi rendo conto di non poter fumare la mia sigaretta (ad esempio perché intanto erano finite e non me n’ero accorto) sento che mi manca qualcosa. In un certo senso, il pattern non viene completato. Schematizzando, potremmo sostenere che soddisfare un’abitudine, così come completare un puzzle, generi di per sé una gratificazione. La ricompensa mentale si ottiene grazie al completamento dello schema costituito dai tre momenti indicati.

La nostra quotidianità è ricca di tali patterns, costituiti da catene di azioni abitudinarie associate a precisi processi mentali automatici, compiuti tutti con un consumo minimo di energia cerebrale. In genere non abbiamo alcuna consapevolezza delle nostre abitudini; nessuno sceglie razionalmente di seguire un’abitudine. Anche le tecnologie, ovviamente, entrano molto spesso a far parte della nostra vita quotidiana grazie all’assuefazione a determinati schemi abitudinari.

Sarebbe molto ingenuo, pertanto, ritenere che si possa cadere in una dinamica di dipendenza solo a causa delle gratificazioni dirette ad essa collegabili, come allo stesso modo sarebbe insensato ritenere che l’abuso di una determinata tecnologia possa essere imputato solo ai suoi eventuali benefici funzionali. Come scrive Paolo Gallina, arguto studioso di robotica, se consideriamo ad esempio lo smartphone, è facile riconoscere come, da un lato, esso sia sicuramente uno strumento funzionale che consente di comunicare a distanza; d’altra parte, è altrettanto vero che ne abbiamo bisogno perché siamo abituati alla sua presenza. Dimenticare il telefono a casa è molto spesso fonte di enorme ansia, principalmente perché la sua assenza interrompe un’abitudine. Il 34% degli utenti di uno smartphone – ricorda Gallina a seguito di una recente ricerca – controlla l’account mail durante tutto l’arco della giornata, con picchi di 150 verifiche al giorno, di gran lunga più di quanto sarebbe necessario con un utilizzo ottimale dello strumento. Ciò avviene perché l’abitudine di controllare le e-mail genera piccole dosi di gratificazione: cliccare su “aggiorna” è un po’ come tirare la leva di una slot machine, si spera sempre di ricevere una e-mail interessante.

La normalità della dipendenza 

Molto spesso, soprattutto nel senso comune, tendiamo a riferirci alle norme sociali per definire il concetto di normalità. In sostanza finiamo per definire normale (nel senso di “non patologico” o addirittura “non malato”) un comportamento che rispetta le norme e anormale (o malato) un comportamento che non le rispetta. Si tratta di un ragionamento particolarmente fuorviante: un comportamento criminale o un vizio (per esempio l’assunzione regolare di droghe o alcol) sono deviazioni dalle norme, ma non hanno nulla a che fare con malattie o patologie, che sono invece deviazioni dalla normalità.

In altri termini le norme servono per tracciare dei limiti che indicano quale “deve essere” un comportamento socialmente corretto e condivisibile. Oltrepassarle, equivale a trasgredire e a diventare pertanto deviante. Le norme servono implicitamente anche a definire cosa sia giusto o bene fare, e cosa sia ingiusto o male. Hanno a che fare con la morale, ma non ci dicono niente a proposito della normalità o della patologicità, né dal punto di vista medico né organico, di colui che trasgredisce. Le norme, di fatto, possono variare enormemente da una società o da un contesto all’altro. Le istituzioni, e in particolare le istituzioni religiose, in genere sono i principali promulgatori di regole e precetti tesi a indicare i limiti (normativi e morali) dei nostri comportamenti.

Tali norme e precetti non hanno però niente a che fare con la normalità del comportamento umano, anzi. Si potrebbe dire che le norme religiose e civili esistano proprio per farci evitare di seguire comportamenti che sarebbero altrimenti, istintivamente o “naturalmente”, messi in atto. Esistono norme e punizioni di carattere sacro-religioso, così come esistono norme (leggi) laiche (governate da un complesso stuolo di magistrati, avvocati, poliziotti e sistemi penitenziari) e punizioni di carattere civile e penale che non servono a descrivere il comportamento normale della nostra specie, ma al contrario puniscono chi trasgredisce ciò che “naturalmente” saremmo portati a fare.

La normalità non consiste dunque nell’agire correttamente, così come la patologia non consiste nel fare ciò che non si dovrebbe (moralmente) fare. Agire “correttamente” (seguendo le regole) o fare ciò che si “dovrebbe”, riguardano la sfera della morale, non la natura umana.

La normalità, dal punto di vista medico, è semplicemente ciò che siamo in grado di fare quando i nostri organi (e soprattutto il nostro cervello) funzionano in maniera adatta alla sopravvivenza e alla riproduzione. Se emerge qualche problematica di tipo organico in tal senso, allora si entra nel campo della possibile patologia (legata all’anormalità del funzionamento a livello organico).

D’altra parte, un comportamento normale in termini medici è di carattere transculturale e transtorico. Il cervello stesso si può dire che non abbia subito particolari trasformazioni funzionali nel corso degli ultimi millenni, e ancor meno negli ultimi secoli. Tutte le norme sociali hanno d’altro canto subito continui mutamenti nel corso della storia e sono tuttora molto diverse a seconda della geografia e della cultura. Vizi, crimini e peccati sono per definizione legati alla trasgressione di norme di carattere geograficamente e temporalmente variabili.

La dipendenza relazionale

A corredo di tali considerazioni, concludiamo dicendo che l’esempio della dipendenza potrebbe anche essere considerato un’ottima cartina di tornasole per mettere in evidenza alcune delle possibili conseguenze di questo genere di confusione concettuale. Con il termine “dipendenza” si definiscono in generale quei comportamenti che conducono a un consumo eccessivo di alcune sostanze (tra cui droghe, alcol, cibo), o anche all’abuso di determinate tecnologie, le cui conseguenze risultano essere nocive per la salute degli individui e per la società di cui egli fa parte.

Riprendendo ancora una volta la tesi neurosociologica del prof. Piazza, ricordiamo che una delle funzioni fondamentali del cervello umano consiste proprio nell’eseguire comportamenti (abitudinari) destinati a rendere automatici (e non consapevoli) le nostre dipendenze primordiali per aria, acqua e cibo, i tre elementi principali di cui abbiamo bisogno per poter sopravvivere. Pertanto – secondo una sua espressione – non è così sorprendente se un cervello che si è sviluppato per soddisfare delle dipendenze indispensabili possa sbagliare oggetto e sviluppare una dipendenza per un’altra cosa.

Una tale ipotesi, dopo averci spiegato quanto le dipendenze siano innanzitutto una malattia di carattere biologico legate al funzionamento del cervello e del nostro complesso sistema omeostatico, richiama necessariamente anche l’attenzione sull’importanza dell’influenza ambientale e sociale nel loro emergere e stabilizzarsi. Fondamentale, però, è anche cogliere l’invito a rivolgere il nostro sguardo non già a un non ben definito sistema psichico immateriale interno agli individui, né tantomeno a una generica società (o a una sua qualche istituzione), ma a quei complessi meccanismi di interazione tra individui e ambiente sociale. Quando si parla di dipendenze, insomma, non ci troviamo di fronte a vizi, perversioni o peccati, quanto soprattutto a vere e proprie patologie dei rapporti umani.

 

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