EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

Il rifiuto dell’altro negli adolescenti

di Federica Biolzi

Quando il rifiuto di uscire e di relazionarsi non è transitorio, limitato a brevi periodi di tempo, ma continuo, persistente e soprattutto resistente alle sollecitazioni di familiari, amici o altre figure significative possiamo dire di trovarci di fronte ad un vero e proprio disturbo psicopatologico sottostante. Con Stefano Vicari e Maria Pontillo, autori di Adolescenti che non escono di casa. Non solo Hikikomori (Il Mulino Editore), abbiamo cercato di capire in quali situazioni, l’isolamento degli adolescenti deve destare preoccupazione,

– Il vostro interessante volume parte da storia vere, storie di ragazzi che rifiutano di uscire. Perché, per tutti questi adolescenti, è diventato un problema stare con gli altri?

– ll ritiro sociale si manifesta inizialmente con ansia rispetto alle situazioni che prevedono il doversi relazionare con coetanei, adulti o persone nuove. L’ansia può manifestarsi anche in maniera anticipatoria, cioè al solo pensiero di dover sostenere l’incontro con l’altro. Sono bambini e adolescenti che hanno paura di essere giudicati negativamente durante l’interazione con gli altri o nello svolgimento di un’azione da compiere davanti agli altri come recitare, gareggiare o sostenere un’interrogazione. In Italia le cifre ufficiali ipotizzano un numero di ragazzi «ritirati sociali» che si aggira intorno ai 120.000, con una prevalenza tra i maschi, anche se il numero delle femmine è in aumento. Alcuni studi condotti negli ultimi anni individuano i 15 anni come l’età media cui tendono a manifestarsi i primi segnali di ritiro sociale. La durata media dell’isolamento sarebbe, sempre secondo queste ricerche, di circa tre anni. Questi dati andranno rivisti e calcolati quando si renderanno ancora più evidenti gli effetti negativi della pandemia da Covid-19 e del conseguente stravolgimento delle abitudini dei ragazzi.

– Ovviamente non è il caso di allarmare nessuno, ma quando questo rifiuto può diventare un vero e proprio disturbo?

– Questi comportamenti  durante l’infanzia e l’adolescenza sono legati all’età, al particolare livello di sviluppo e, soprattutto, all’eventuale presenza di un disturbo psicopatologico sottostante. Durante l’infanzia i bambini possono rifiutarsi di uscire di casa per paura di separarsi dai genitori o per timore di stimoli per loro ansiogeni presenti nell’ambiente esterno ad esempio fobie per agenti atmosferici come fulmini, temporali o per alcuni animali. In adolescenza, invece, i ragazzi possono preferire la chiusura in casa in risposta a stati transitori di sofferenza soggettiva come la rottura di una relazione amicale o sentimentale, un periodo di intenso carico scolastico o stress familiare determinato, ad esempio, da uno stato di malattia di un genitore o da conflitti intrafamiliari. Quando il rifiuto di uscire e di relazionarsi non è transitorio, limitato a brevi periodi di tempo, ma continuo, persistente e soprattutto resistente alle sollecitazioni di familiari, amici o altre figure significative possiamo dire di trovarci di fronte ad un vero e proprio disturbo psicopatologico sottostante: ansia, depressione o psicosi solo per citare i più frequenti. Abbiamo dedicato una parte del nostro manoscritto ai cosiddetti “campanelli di allarme”. Abbiamo distinto i possibili segnali dei bambini e preadolescenti da quelli degli adolescenti. Nei bambini e nei preadolescenti riscontriamo  la presenza di predilezione costante e persistente per i giochi individuali,  sintomatologie fisiche come ad esempio cefalee e mal di pancia in prossimità di situazioni sociali come andare ad una festa di compleanno o effettuare uscite di gruppo,  evitamento  di recite scolastiche ed esibizioni in pubblico per paura di trovarsi al centro dell’attenzione, reazioni di pianto e irritabilità se forzati a partecipare a situazioni sociali prolungate come la scuola ,rifiuto scolastico. Per gli adolescenti i principali campanelli di allarme prevedono comportamenti di fuga da situazioni sociali come feste o uscite di gruppo, è presente tristezza intesa associata a crisi d’ansia persistenti nei giorni che precedono un evento di esposizione sociale come le recite e le esibizioni, trascorrere il tempo maggiormente nella propria camera, progressiva limitazione dei contatti sociali sostituendola con una modalità virtuale, rifiuto o abbandono scolastico.

– Nel libro vengono indicati una serie di cause che possono essere alla base di questo disturbo, in particolare di origine genetica e neurobiologica. Quali sono?

– Alcuni studi hanno messo in evidenza come i figli di genitori che tendono ad avere pochi contatti sociali, temono il giudizio dell’altro e privilegiano esclusivamente le relazioni con i familiari più stretti hanno un rischio di almeno sei volte maggiore di manifestare difficoltà psicologiche e ritiro sociale rispetto ai coetanei che hanno genitori con una rete sociale ampia e buone abilità sociali. Altri studi, condotti su gemelli omozigoti cresciuti in famiglie diverse (in seguito, ad esempio, all’adozione), hanno messo in evidenza che, se un gemello manifesta disturbo d’ansia con ritiro sociale, l’altro avrà tra il 30 e il 50% di probabilità in più rispetto alla media di sviluppare lo stesso disturbo. La predisposizione genetica appare, dunque, un fattore di rischio per il ritiro sociale. Essa tuttavia non può essere considerata l’unica «causa». E’ necessario infatti considerare altri fattori come quelli neurobiologici. Lo sviluppo delle competenze sociali del bambino è accompagnato e sostenuto dalla maturazione di alcune aree cerebrali preposte alla codifica e all’elaborazione delle interazioni sociali. Proprio l’insieme di queste strutture cerebrali e reti neuronali definisce il cosiddetto “cervello sociale”. Da un punto di vista strettamente neuroanatomico e funzionale le aree coinvolte nel cervello sociale sono la corteccia orbito-frontale, l’amigdala, la corteccia temporale, quella mediale prefrontale e la corteccia cingolata anteriore. Un buon funzionamento di queste e delle loro connessioni è alla base tanto delle forme semplici di elaborazione del cervello sociale, come l’identificazione di stimoli sociali rilevanti, quanto di forme più complesse come la riflessione sui propri e altrui stati mentali. Disfunzioni a carico di una qualsiasi di queste aree o delle connessioni che esse intrattengono con le altre aree cerebrali possono causare difficoltà interpersonali e sociali. Queste ultime sono definite da una riduzione della capacità di integrare comportamenti, pensieri ed emozioni al fine di adattarsi flessibilmente ai diversi contesti e alle richieste sociali. In altri termini, un inadeguato funzionamento delle aree facenti parte del cervello sociale può portare a comportamenti inadeguati, giudicati come negativi secondo gli standard di uno specifico contesto e quindi testimoniare una non adeguata competenza sociale dell’individuo. Il ripetersi di tali comportamenti inappropriati porta l’individuo a vivere interazioni non soddisfacenti e a maturare la rappresentazione delle situazioni sociali come fonti di minaccia per possibili giudizi negativi, derisioni o umiliazioni. La conseguenza più evidente è un progressivo evitamento del contatto con gli altri fino al ritiro sociale vero e proprio

–  Nella vita quotidiana, quando un genitore deve iniziare a preoccuparsi e cosa sentite di consigliare loro rispetto agli  atteggiamenti da mettere in atto?

– L’idea del libro nasce associata alla profonda esigenza di dare indicazioni ai genitori dei ragazzi che vivono una condizione di ritiro sociale. E’ necessario innanzitutto che i genitori si pongano con atteggiamento empatico e supportivo incoraggiando il ragazzo ad esprimere le sue preoccupazioni e le sue ansie comunicando di aver compreso e percepito il disagio da lui provato. E’ utile inoltre aiutare il ragazzo a riconoscere i suoi timori rispetto alla relazione con coetanei e insegnanti, evitando ogni forma di svalutazione. I genitori devono assumere un atteggiamento centrato su strategie di problem solving, ossia sulla proposta di soluzioni da valutare insieme per fronteggiare la difficoltà ad andare a scuola. Nel momento in cui il bambino o l’adolescente evita la scuola è opportuno che i genitori chiedano al proprio figlio di mantenere comunque delle routine legate ad essa, per esempio svegliarsi ad un dato orario e svolgere i compiti. Questa richiesta deve essere inserita all’interno di un contratto comportamentale in cui si concorda con il bambino o l’adolescente un tempo per il rientro a scuola e l’insieme di strategie da attuare (es. rivolgersi ad uno psicologo) per raggiungere l’obiettivo di tornare a scuola e riprendere le uscite.

– Veniamo ora ad un aspetto molto sensibile, cioè quello dei possibili rimedi. Quali sono gli sviluppi recenti in questo campo e quali possibilità concrete ci sono?

– Sicuramente la psicoterapia cognitivo comportamentale raccoglie le maggiori prove di efficacia nel trattamento dei disturbi psicopatologici più frequentemente associati al ritiro sociale (disturbo d’ansia sociale, depressione, psicosi, autismo). Molto utile è il lavoro attraverso Il social skills training che ha come obiettivo principale quello di insegnare a bambini e adolescenti come potenziare ed esercitare le abilità sociali al fine di renderle più adeguate, di consentire delle interazioni piacevoli con gli altri e promuovere occasioni positive di scambio interpersonale. Inoltre, è molto importante che i genitori si sentano parte attiva del percorso psicoterapeutico proposto, e a tal fine va predisposto per loro uno spazio terapeutico apposito, il parent training. Molto importante è il ruolo della scuola, gli insegnanti devono essere coinvolti nel percorso del ragazzo soprattutto perché sulla base della nostra esperienza clinica, il contesto in cui il ritiro sociale si manifesta in maniera più evidente è la scuola.


Stefano Vicari, Maria Pontillo

Adolescenti che non escono di casa. Non solo Hikikomori

2022,  Il Mulino Editore

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