EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Il ruolo della cura in psicoanalisi. Uno sguardo filosofico

di Matteo Pratelli

In questo articolo, cercheremo di indagare il concetto di “cura” all’interno della psicoanalisi. Il punto di vista sarà filosofico, e l’autore di riferimento Paul Ricoeur, che ha dedicato a Freud una larga parte del suo lavoro. Si cercherà intanto di evidenziare che la filosofia non può ignorare il momento della cura quando parla della disciplina freudiana. In seguito, si vedrà come proprio alla cura (e in special modo al suo successo) la filosofia si sia rivolta per capire se la psicoanalisi possa avere un qualche fondo di verità.

Ogniqualvolta la filosofia si rivolge alla psicoanalisi – sia per dare di lei una “valutazione”, sia per cercare risposte che non riesce a trovare altrove – rischia di cadere in un errore che, a mio parere, può essere molto grande. L’errore in questione è quello di trattare la psicoanalisi soltanto come una teoria. Sarebbe già miope rivolgere lo sguardo in maniera esclusiva agli scritti di Freud che, se è certo il padre della disciplina e il suo più importante esponente, si localizza comunque solo agli albori di un percorso di ricerca che continua tutt’oggi e che ha visto protagonisti di assoluta importanza. Tuttavia, anche se ci si riferisse in maniera esclusiva al corpus teorico dei più importanti psicoanalisti, si misconoscerebbe che la disciplina in questione è anche altro. Ma che cosa?

In un saggio del 1977 dal titolo La questione della prova in psicoanalisi, Paul Ricoeur afferma che la psicoanalisi è, al contempo, “un procedimento di indagine, un metodo terapeutico e una teoria”[1]. A suo dire, quindi, oltre al lato teorico la psicoanalisi ha due  altri “momenti” che la caratterizzano, e che compongono quella che possiamo chiamare l’esperienza psicoanalitica in sé. Quando attenzioniamo la psicoanalisi solamente come teoria, ci dimentichiamo che essa nasce da un momento concreto, che è il momento dell’analisi in quanto terapia. Il procedimento di indagine è messo in atto da parte dello psicoanalista e mira a cogliere le “relazioni di significato”[2] nelle produzioni psichiche del paziente: privilegia, insomma, un aspetto ermeneutico. Il metodo terapeutico lavora invece con l’energia psichica del paziente, si rivolge alle “relazioni di forza”[3] nell’apparato psichico e privilegia quindi un aspetto energetico o economico[4]: si tratta in questo senso di vincere le resistenze che il paziente ha eretto. Da ciò segue una considerazione del concetto di cura in psicoanalisi che è più ampia rispetto ad altre discipline mediche: le resistenze del paziente impongono all’analista un lavoro opposto a quello inconscio. Energetica ed ermeneutica non si escludono mai nella prassi analitica, anzi coesistono:

“…coordinando l’interpretazione con il trattamento delle resistenze, la prassi analitica fa appello a una teoria in cui la psiche è rappresentata sia come un testo da interpretare che come un sistema di forze da manipolare; in breve, la pratica ci spinge a pensare insieme significazione e forza in una teoria inclusiva.”[5]

Ecco che ritorna la teoria, che come vediamo non è mai disgiunta dalla prassi analitica ma anzi modellata da essa.

In questo saggio Ricoeur sembra avere ben chiara l’importanza del momento della terapia per la psicoanalisi. Tuttavia, non è sempre stato così. Nel 1965 il filosofo aveva pubblicato Dell’Interpretazione. Saggio su Freud, uno dei più importanti lavori filosofici mai dedicati alla psicoanalisi. In questo testo (per molti versi più completo dei saggi pubblicati successivamente) Ricoeur tenta sì di far coincidere momento ermeneutico e momento energetico, ma finisce per privilegiare il primo a scapito del secondo, mostrando scarso interesse per la parte più strettamente “curativa” del percorso analitico (appunto il lavoro sulle resistenze). Nelle sue premesse, Dell’interpretazione sembra andare nella direzione giusta: Ricoeur parla per la psicoanalisi di una archeologia del soggetto, nel senso che la psiche umana è composta da stratificazioni sedimentate nel corso del tempo, che la terapia deve individuare: è l’elemento regressivo della disciplina freudiana. Arché del soggetto e fondo biologistico (lato ermeneutico e lato economico) sembrano inizialmente coincidere, ma l’attenzione si sposta, nell’ultima parte dell’opera, quasi esclusivamente al lato interpretativo. Vinicio Busacchi parla per questo libro di “archeologia senza tecnica”[6], criticando proprio la mancanza di attenzione verso il momento della tecnica analitica. A suo parere, accanto al momento regressivo rappresentato bene dal concetto di archeologia, la psicoanalisi è caratterizzata anche da un momento progressivo: ad una archeologia deve essere affiancata una teleologia (cosa che in effetti Ricoeur farà negli scritti successivi)[7] che comprenda in sé il momento dell’analisi.

Come anticipato, però, Ricoeur stesso comprende che considerare la psicoanalisi solo come una teoria, prescindendo dal lato pratico della dottrina, è un errore. In La questione della prova in psicoanalisi afferma infatti che “così isolato, il corpo dottrinale può portare solo a evoluzioni premature e incomplete”[8].

Bisogna ora chiedersi, insieme a Ricoeur, se la teoria psicoanalitica proposta da Freud sia adeguata alla prassi, e cercare di chiarire il loro rapporto. A questo proposito Ricoeur propone due tesi che andrò a riportare insieme, per poi chiarire successivamente il loro significato:

  1. “Da un lato, sono pronto a riconoscere che il modello teorico di Freud non è adeguato all’esperienza e alla pratica analitiche così come sono formulate negli altri suoi scritti […]. Più precisamente, la metapsicologia di Freud non riesce a codificare e integrare in un modello coerente significato e forza, interpretazione testuale e manipolazione delle resistenze”[9].
  2. “…voglio difendere con pari vigore la tesi secondo la quale dobbiamo sempre partire dal sistema freudiano nonostante i suoi difetti e, oserei dire, proprio per le sue mancanze”[10].

Il funzionamento della psiche umana è descritto da Freud secondo un modello energetico (energia psichica, carica, scarica etc.), ma tale modello non va d’accordo con l’effettivo svolgimento dell’analisi e con ciò che in analisi viene considerato come un fatto (ciò che viene detto dal paziente all’analista). Metafore economiche e metafore esegetiche spesso non riescono a coincidere eppure neanche si escludono a vicenda, creando due ambiti all’interno della stessa disciplina che sembrano comunicare difficilmente tra loro.

Allo stesso tempo, il modello economico, che sembra adattarsi poco all’esperienza analitica, non può essere superato. Se è vero che le produzioni psichiche possono essere interpretate, è anche vero che talvolta la mente sembra funzionare come una cosa, in maniera autonoma rispetto al soggetto, a causa “dell’alienazione dell’uomo da parte di se stesso”[11]. La psicoanalisi non può essere quindi ridotta a una disciplina ermeneutica, e in alcuni casi deve incorporare “nelle procedure esegetiche, derivanti dall’autocomprensione, segmenti esplicativi del tipo delle procedure presenti nelle scienze naturali”[12].

Prestiamo per un attimo attenzione a questo ultimo passaggio. La psicoanalisi, dice Ricoeur, ha qualcosa che la accomuna alle scienze naturali. La questione che si pone è se essa effettivamente lo sia, o se comunque ci sia possibilità di “misurare” la pretesa di verità della psicoanalisi. La cosa per noi interessante è che, per rispondere a questa domanda, si è spesso invocato il concetto di  “successo della cura”. Insomma, basta il fatto che la cura abbia successo per dire che la psicoanalisi è una disciplina che, quando afferma qualcosa, o quantomeno formula ipotesi, “dice il vero”? E d’altra parte, se la cura non ha successo dobbiamo immediatamente dire che la psicoanalisi ha fallito nel suo compito di trovare una qualche verità? La risposta ai due interrogativi è, a mio parere, negativa in entrambi i casi. Per analizzare la questione, ci rivolgeremo brevemente al saggio di Carlo Gabbani dal titolo Verità ed efficacia terapeutica in psicoanalisi, per poi tornare a Ricoeur e vedere come egli tenta di risolvere la questione.

Nel suo articolo, Gabbani riporta la posizione del filosofo della scienza Adolf Grünbaum, il quale sviluppa un argomento secondo cui:

  1. se la psicoanalisi soltanto ci permette di capire l’origine di una psiconevrosi e
  2. se questa comprensione è una condizione necessaria per la remissione di essa (queste due premesse sono chiamate TCN, o tesi della condizione necessaria), allora
  3. tale remissione è la prova della verità della ricostruzione psicoanalitica (il cosiddetto Tally Argument).

Ora, se la ricostruzione psicoanalitica si fa a partire dalla teoria freudiana ed è provata dal successo terapeutico, si fa così conseguire la verità della teoria dalla buona riuscita della cura. Grünbaum stesso, però, rigetta una conclusione di questo tipo perché ritiene la TCN insostenibile a livello empirico. A mio parere, tuttavia, Gabbani osserva a ragione che il Tally Argument è “un argomento poco adeguato per testare il valore di verità delle ipotesi eziologiche e, soprattutto, veicolerebbe un’immagine impoverita della complessità multifattoriale della clinica psicodinamica”[13].

Seguiamo ancora il suo ragionamento. Intanto, Gabbani evidenzia che, per svolgere al meglio il suo compito, all’analista non basta possedere la giusta ricostruzione eziologica della psiconevrosi; serve, inoltre, far sì che il paziente riesca a farla propria senza che gli sia imposta. Inferisce quindi giustamente che una corretta interpretazione è non tanto condizione sufficiente, ma solo necessaria al fine del processo terapeutico: il paziente ha infatti un ruolo attivo per quanto riguarda il successo della cura.

Non solo. La verità delle ipotesi eziologiche “è solo un elemento del processo multifattoriale che può portare al successo clinico”[14]. Si pensi, ad esempio, all’importanza della relazione che si stabilisce fra analista e paziente.

Questo porta Gabbani a formulare due conclusioni. Intanto, il fallimento del processo terapeutico non indica necessariamente un errore nella ricostruzione eziologica. In secondo luogo, il Tally Argument potrebbe provare la verità dell’interpretazione nel caso in cui la cura giungesse a compimento, ma “se e solo se quella ricostruzione eziologica da parte del terapeuta è associata ad un successo nel trattamento del caso in questione”[15].

Perciò

“Il successo terapeutico […] potrebbe costituire un indice con sensibilità piuttosto limitata delle verità delle ricostruzioni eziologiche”[16].

Giunti a questa conclusione, che ritengo più che condivisibile, rivolgiamo lo sguardo all’ultima parte del saggio di Ricoeur, cercando di capire il modo in cui egli affronta la questione.

Intanto, Ricoeur chiarisce che la psicoanalisi non deve essere considerata alla stregua di una scienza naturale, e che applicare a lei i criteri di verificabilità applicati alle scienze è un grande errore. La verità, semmai, è quella dei fatti che avvengono in analisi, e se l’analisi è una situazione di parola si tratterà di “<<dire vero>>, più che di un <<essere vero>>”[17]. E se l’atto del dire è sempre verso un altro, siamo all’interno di un ambito di verità intersoggettiva.

Per inciso, affrontiamo una questione che ci è utile per capire la conclusione del ragionamento ricoeuriano. Che succede in analisi, secondo il filosofo? In breve, il paziente racconta fatti della sua vita, e il lavoro che compie insieme allo psicoanalista è quello di ricollocare questi fatti all’interno di una “storia unica e continua”[18]. Facendo ciò, egli riacquista il potere di raccontare la propria storia e, a partire da essa, progettare il proprio futuro. È l’articolazione di archeologia e teleologia del soggetto, ma sviluppata rispetto alla formulazione già presente in Dell’interpretazione.

Detto questo, vediamo come gli enunciati della psicoanalisi possono essere sottoposti a verifica. Ricoeur afferma che:

“…se la pretesa ultima di verità sta nelle storie dei casi, lo strumento della prova sta nell’articolazione dell’intera rete: teoria, ermeneutica, terapeutica e narrazione.”[19]

Vediamo che il lato della cura (indicato come “terapeutica”) è solo uno dei quattro momenti che ci permettono di verificare gli enunciati della psicoanalisi.

Ora, per quanto riguarda la narrazione, Ricoeur ha già affrontato la questione della struttura narrativa dell’esperienza analitica, che fornisce una “prova narrativa” della psicoanalisi. Adesso si tratta di analizzare gli altri elementi e capire se anche essi possano fornire un qualche tipo di prova. Alla narrazione del paziente, l’analista affianca enunciati causali che si riferiscono al singolo caso come all’intera disciplina analitica. In base al loro grado di “estensione”, Ricoeur divide questi enunciati in generalizzazioni, leggi e assiomi. Perché la psicoanalisi possa avere una pretesa di verità, questi enunciati devono essere fra loro coerenti e articolati in manieri sensata alla narrazione del singolo paziente in analisi: è ancora una volta l’articolazione tra teoria, interpretazione, trattamento terapeutico e narrazione. Questa articolazione rischia però di scadere in una autoconferma allorché tutto venga verificato insieme, nello stesso momento (che è poi il momento dell’analisi). Si deve quindi cercare una conferma circolare che non sia però viziosa, e cioè la convalida deve procedere “in modo cumulativo, attraverso il reciproco rafforzamento dei criteri che, presi isolatamente, non sarebbero decisivi, ma la cui convergenza li rende plausibili e, nel migliore dei casi, probabili e anche convincenti”[20].

Ricoeur elenca infine quattro condizioni perché una spiegazione psicoanalitica possa essere considerata buona e quindi valida. Cerchiamo di riassumerli:

  1. deve essere coerente con la teoria;
  2. deve essere coerente al suo interno;
  3. deve diventare un fattore terapeutico di miglioramento;
  4. deve donare alla storia di un caso un’intelligibilità narrativa.

È al punto terzo che troviamo nuovamente la questione della cura. Grazie a Ricoeur, però, essa non viene più considerata come l’unico fattore di prova della disciplina analitica. Ad essa non solo vengono affiancati altri fattori, ma essi sono fatti “dialogare” tra loro.

L’approccio di Ricoeur non mette forse la parola fine alla questione della verificazione in psicoanalisi, ma offre un’interessante proposta in questo senso. Il suo merito, a mio parere, è quello di considerare la dottrina freudiana in tutte le sue sfaccettature e con tutte le variabili che possono presentarsi, sottolineando che una verificazione nello stile delle scienze naturali è impossibile, ma rifiutando allo stesso tempo di affermare che nessun tipo di verifica è proponibile.

In conclusione, la considerazione della cura in psicoanalisi è duplice. Da un lato, essa deve essere inglobata in ogni discussione che riguardi la disciplina inaugurata da Freud; se così non è, si ha un punto di vista parziale e incompleto. Dall’altro lato, la psicoanalisi non è solamente una pratica curativa. Se è vero che il fine è questo, ad esso si aggiungono molti altri momenti che non devono essere trascurati e che rendono, forse, la disciplina così interessante ai nostri occhi: su di essa è infatti possibile articolare un “discorso” che abbia un vero interesse filosofico.

Bibliografia

P. Ricoeur, Attorno alla psicoanalisi, Jaca Book, Milano 2020 (a cura di F. Barale)

P. Ricoeur, Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1996

V. Busacchi, Ricoeur vs Freud. Due concezioni dell’uomo a confronto, Rubettino, Soveria Mannelli 2008

C. Gabbani, Verità ed efficacia terapeutica in psicoanalisi, in Mefisto Vol. 3, 1, 2019, Edizioni ETS 2019


[1] P. Ricoeur, La questione della prova in psicoanalisi, in Attorno alla Psicoanalisi, pag. 74

[2] ivi, pag. 75

[3] ibidem

[4] La distinzione tra energetica ed ermeneutica è una costante negli scritti di Ricoeur. Nel presente articolo ci è però impossibile trattarla in maniera esaustiva; si rimanda quindi agli scritti dell’autore (in particolare Dell’Interpretazione. Saggio su Freud).

[5] ivi, pag. 79

[6] Busacchi, Ricoeur vs Freud, pag. 51

[7] Si noti che Ricoeur stesso parla già nel 1965 di teleologia del soggetto. La critica qui mossa sottolinea il fatto che tale teleologia è vista esclusivamente nell’ambito interpretativo e non in quello concreto dell’analisi.

[8] P. Ricoeur, La questione della prova in psicoanalisi, pag. 79

[9] ivi, pag. 80

[10] ivi, pag. 83

[11] ibidem

[12] ibidem

[13] C. Gabbani, Verità ed efficacia terapeutica in psicoanalisi, pag. 31

[14] ivi, pag. 32

[15] ivi, pag. 34

[16] ibidem

[17] P. Ricoeur, La questione della prova in psicoanalisi, pag. 87

[18] ivi, pag. 90

[19] ivi, pag. 93

[20] ivi, pag. 96

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