di Carlo Sini
Nella conferenza Pensare al non vedere del 2002 (trad. it. di Alfonso Cariolato, Jaca Book, Milano 2016) Derrida, muovendo dalla questione del “disegno” (nell’ambio dei lavori della Fondazione europea del disegno di Valerio Adami), tocca di fatto il luogo d’origine della metafisica occidentale. Alludo al VI libro della Repubblica di Platone (507b e sgg.; cfr. “L’invisibile sapere del visibile o il segreto di Platone” nel mio libro Transito Verità, Jaca Book, Milano 2012, 4.179-87). In proposito Derrida precisa: quando, molti anni prima, avevo trattato di traccia, di scrittura, di archi-scrittura, poteva sembrare che avessi intenzione di privilegiare lo spazio contro il tempo, il tempo che nasce nella parola. In realtà l’intenzione era quella di mettere radicalmente in questione tutte le coppie di opposizione (come quelle tra sensibile e intelligibile o passivo e attivo) e perciò ogni logica binaria (cfr. Pensare al non vedere, cit., p. 96).
A questo riguardo, la questione del disegno diviene quanto mai appropriata, perché nel disegno «ne va dell’esperienza del tratto, della traccia differenziale. È l’esperienza di ciò che viene a porre un limite tra spazi, tempi, figure, colori, toni – ma un limite che è, al tempo stesso, condizione della visibilità e invisibile. Naturalmente vi sono dei tratti spessi come si usa dire, dei tratti che hanno uno spessore di visibilità, un grosso tratto nero, ma ciò che fa tratto in questo grosso tratto nero non è lo spessore nero, è la differenzialità, il limite che, in quanto limite, in quanto tratto, non è visibile. L’operazione disegnante non ha a che fare né con l’intelligibile né con il sensibile ed è per questo che essa è, in un certo senso, cieca» (p. 97).
Una cecità che non è da considerarsi un difetto o un’infermità; piuttosto qualcosa che custodisce un segreto, qualcosa che «si tiene in disparte rispetto alle luci, rispetto allo spazio pubblico stesso»; qualcosa come la «fenomenalità del fenomeno»; infatti «ciò che ho appena detto del tratto tracciato-tracciante, della traccia del tratto, non appartiene da parte a parte allo spazio pubblico, allo spazio dei Lumi, dunque allo spazio della ragione» (pp. 97-8). Né luce né tenebra, né giorno né notte, ma «un movimento [che] resta assolutamente segreto, vale a dire separato (se cernere, secretum), irriducibile alla visibilità diurna» (p. 98). In sostanza bisogna pensare l’intima correlazione delle coppie oppositive della tradizione (per esempio sensibile e intelligibile), cioè il loro essere l’una per l’altra e niente in sé; ma questo statuto di correlazione non è dunque né sensibile né intelligibile, quindi non è dicibile affatto. La sua correlazione non si può ricondurre a una ragione istitutiva, ma solo a una operazione decostruttiva.
In un certo senso, la grande apertura rinnovatrice di pensiero che dobbiamo indubbiamente a Derrida resta nondimeno e a sua volta ancora troppo debitrice nei confronti del segreto di Platone, di cui riproduce, prendendole per buone, le fondamentali alternative: visione sensibile (del corpo) e visione intelligibile (dell’anima), causa materiale (il Sole) e causa trascendentale (l’idea del Bene). Questa stessa articolazione sembrerebbe allora esaurire tutto il “reale” che c’è. Ma il segreto di Platone è il frutto della riduzione del discorso alla sua pratica alfabetica, e alla conseguente creazione di “cose concettuali”, come “il” sole, “il” bene, “il” sensibile”, “il” concettuale ecc.: enti puramente verbali e immaginari, la cui differenza relazionale non cela alcun segreto. Essa è semplicemente la conseguenza di una pratica, nata esplicitamente nel cammino iniziato dal Poema di Parmenide (e implicitamente assai prima) e culminato nella logica formale aristotelica e, modernamente, nel sillogismo disgiuntivo hegeliano: cose che certamente Derrida non ignora. Segreto di un gesto che trasforma un participio (l’eòn, l’essente) nel nome di una cosa immaginaria.
Si tratterebbe allora di abbandonare i giochi “sofistici” derridiani della differenza, pur riconoscendone il profitto che ne abbiano tratto, per dare avvio a un pensiero delle pratiche, consapevole del suo esercizio sempre iscritto nell’uso del mondo e nella comprensione in divenire che direttamente ne deriva. Il segreto di Platone, allora, coincide semplicemente con le pratiche di vita e di discorso che caratterizzano il suo specifico frequentare il “mondo della vita”, fornendone a se stesso e ad altri il senso istitutivo provvisorio. Un senso che gli deriva appunto dall’uso dei suoi strumenti naturali e sociali e dall’uso (cieco) dei suoi discorsi, che manifestano involontariamente lo squilibrio tra la loro “realtà” in cammino e la “verità” che dicono o ritengono di dire.
Tutto questo, ovviamente, lo si dice ora e qui: riguarda te e il tuo segreto, iscritto nel tuo uso del mondo e nei discorsi che ne derivano. Movimento incircoscrivibile e indefinibile dell’essere nella vita operante che è ogni volta tutto il reale che c’è, compresi i discorsi che l’accompagnano, che pretendono, ai tuoi occhi, di dirne la verità e che così ne promuovono di fatto la vita costitutivamente metamorfica e, in questo senso, anche la verità “in errore”. Transito di vita eterna e invito a prendersi cura dei propri discorsi, la cui espressione provvisoria appartiene al destino della vita reale di ognuno e, per così dire (cioè in difetto), del reale che c’è. Estrema metamorfosi “etica” del discorso filosofico.