EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Immuni, ma non dall’Altro. Il concetto di nemico alla luce di Covid-19

di Primavera Fisogni

 

Premessa

Tra gli spunti di riflessione che ci consegna la pandemia, uno in particolare riguarda il concetto di nemico che si sviluppa alla luce delle dinamiche di immunizzazione, in particolare nella prospettiva del rapporto tra communitas e immunitas (Esposito, 1999; 2001). In questo articolo desidero evidenziare come l’esperienza del coronavirus ci porti a considerare il nemico in una prospettiva più ampia e sfaccettata dell’antitesi classica amico/nemico (Schmitt, 1932).

In particolare verrà focalizzato il processo di interiorizzazione dell’avversario (the enemy inside process, Fisogni 2021), attraverso il quale l’altro, l’antagonista deve essere in qualche modo incorporato per essere metabolizzato e vinto. La vittoria, in definitiva, non consiste nell’annientamento tout court dell’attaccante, ma nella contaminazione parziale con esso. Superare i rigidi dualismi richiede, come suggerisce la modalità dell’immunizzazione, attraverso l’esperienza globale della pandemia, di avvalersi del paradigma sistemico (Bartalannfy, 1967; Urbani Ulivi, 2019), il solo in grado di dar conto dei processi di interazione tra vari livelli del reale.

Il virus come nemico

Dal suo apparire sulla scena globale, il coronavirus è stato equiparato ad un nemico, attraverso la continua associazione a metafore belliche, da quelle più tradizionali («nemico pubblico numero uno», Boseley, 2020) fino all’equiparazione al terrorismo, da parte del direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus («I virus hanno conseguenze più potenti di ogni azione terroristica»). In questa cornice bellica, nessuna meraviglia che anche la cancelliera tedesca Angela Merkel abbia bollato il Covid  19 come «la sfida più grande dalla Seconda Guerra mondiale» (The Telegraph, 2020) che muove verso di noi in modo invisibile, quasi fossimo al fronte.

Di certo, il coronavirus è nemico numero uno anche fuori di metafora, perché attacca, spesso in modo grave e anche mortale, il sistema respiratorio e quello circolatorio, lasciando talvolta conseguenze anche a livello neurologico. A differenza di un parassita, che gli organismi viventi possono in qualche misura tollerare e inglobare come una sorta di “compagno”, il virus della più recente pandemia globale sferra l’attacco al cuore stesso della vita. A rendere tutto più complicato c’è poi il fatto che questo micro-organismo non si mostra, in molti casi, ed è disseminato nella comunità da soggetti positivi ma asintomatici, i più formidabili vettori della carica virale.

Se da un lato il ricorso alle metafore belliche esprime una certa difficoltà di fare concetto di questo preoccupante fenomeno, dall’altro è vero che Covid-19 suggerisce anche un nuovo percorso teorico per quanto concerne l’idea stessa di nemico. In particolare, dalla pandemia siamo spinti a riflettere sul modo in cui il processo di immunizzazione forgia una certa idea di antagonista finora non sufficientemente esplorata. Occorre a questo punto una premessa.

Pur nelle molteplici implicazioni interdisciplinari, il termine “nemico” è generalmente riferito a un individuo che va temuto per il potenziale pericolo che comporta. In tal senso, lo si considera l’opposto di amico, cioè qualcuno di cui ci fidiamo. Sul piano psicologico, il nemico riassume una serie di sentimenti avversi, dalla paura all’ansia, al terrore, suscitati da un singolo (Gosio, 2020) o da una comunità (Ceri e Lorini, 2019; Schlee, 2010). In Der Begriff des Politischen (1932), testo classico sulla materia, il pensatore tedesco Schmitt riconosce che è propriamente il grado di associazione/dissociazione a configurare chi è amico (Freunde) o nemico (Feind) in un’accezione politica. Parola ingarbugliata, nemico mette radici nel latino inimicus, termine composto  dall’elemento negativo in: il nemico, dunque, è colui che “non è amico”.

Nelle lingue slave, dove il nemico è detto neprijateli, questa idea di non-amico presenta ancora un certo rilievo, a differenza delle lingue latine e germaniche, come ha notato Vitale (1992). Inoltre, Schmitt ha posto l’accento anche sui due poli concettuali del “nemico privato”, diverso dal “nemico pubblico” e dall’“altro/lo straniero” (Fremde), la cui area semantica è principalmente racchiusa dal termine latino hostis.

Una parola, quest’ultima, in cui sono intrecciati due nuclei di significato: uno è quello dell’ospite da intendersi come colui che viene accettato, riconosciuto, incluso e l’altro  quello che lo vede come “il nemico”, colui che può mettere in atto comportamenti ostili nei confronti della comunità (Plumper e Neumayer, 2010).  Ma che cosa rende un soggetto ostile un “nemico privato”? Il campo concettuale di hostis abbraccia un’idea principalmente, tra le altre, vale a dire quella dello spazi domestico abitato dall’ospite e dal potenziale nemico. Nonostante la semplificazione, questo passaggio è di notevole rilievo per l’obiettivo della nostra ricerca, perché può essere applicato al processo di immunizzazione, per provare che il Covid-19 ha portato sul palcoscenico un nemico privato, un hostis contemporaneo che abita le paure globali. 

Dare un’identità al nemico

Solo l’identificazione di un nemico dà buone possibilità di bloccarlo, rendendolo inoffensivo. Come afferma Aho, i gruppi costruiscono socialmente i nemici secondo cinque passaggi, il primo dei quali consiste nel dargli un nome; seguono la legittimazione, la costruzione di un mito (mythmaking), la sedimentazione e il rituale (Aho, 2010). Tratteggiare il profilo dell’individuo ostile è un processo, spesso messo in discussione (Lyon 2003, 2007), attraverso il quale viene dato corpo al nemico pubblico. È a questo punto che la tradizionale distinzione tra 1) nemico e 2) amico ha un senso. Quando il nemico è configurabile, la comunità si stringe e si rafforza per contrastarlo (Schlee 2010).

Si tratta di una dinamica sulla quale si è costruita la classica idea di guerra, entrata in crisi negli ultimi vent’anni, superata da conflitti – e specialmente dalla guerra al terrorismo – dove la difficoltà di focalizzare su un antagonista visibile, ha portato a teorizzare le nuove categorie del “terrorista della porta accanto” e dei “lupi solitari” (Fisogni, 2014, 2019). In una pandemia, così come in ogni conflitto, l’esigenza di dare un profilo preciso al nemico pubblico è il primo passo per neutralizzarlo e, quando non si è in grado di intercettarlo, facilmente subentra la superstizione. Il discorso vale più che mai per le pandemie, ciclico flagello per il genere umano, che il coronavirus ha riportato in auge in tutta la sua tragicità.

Si pensi alla peste bubbonica del 1630 a Milano, raccontata dal Manzoni nei “Promessi sposi” e, con dovizia di dati storici, nella “Colonna infame”, con la caccia agli untori, i presunti responsabili della diffusione del morbo, alcuni dei quali giustiziati sulla pubblica piazza (Ciacca, 1985). Come testimonia questo episodio, il bisogno di forgiare il nemico va al passo con la necessità di portare in scena un capro espiatorio, laddove l’avversario non sia facilmente agguantabile (Girard, 1982).

Nella pandemia di coronavirus assistiamo all’aggiornamento del paradigma vittimario, in una forma non cruenta e globale. Il singolo capro espiatorio, identificato e poi annientato al posto del nemico, è stato sostituito dal rituale collettivo di indossare la mascherina. Dietro ad un comportamento motivato dal senso civico per il contenimento del contagio, si può notare una potente operazione metaforica per arrivare a colpire il nemico. In una situazione pandemica chiunque può essere il potenziale diffusore del virus, così come una vittima. I due piani del fenomeno – vittima e carnefice – interagiscono e si confrontano. Come chi ha commesso un crimine o si presume colpevole viene isolato dal contesto sociale, così nel lockdown – specialmente in quello della prima ondata virale (marzo/maggio 2020) – le persone in quarantena sono state blindate a casa per settimane, abdicando a libertà garantite da diritti civili (Campi, 2020).

Amici e nemici, dunque, nella stessa barca. È il punto di partenza per formulare l’idea – portata a tema dalla pandemia di Covid-19 – del nemico come un insider. Un intruso che può essere attaccato e vinto solo attraverso un processo, non facile, non sicuro, costantemente da aggiornare, di immunizzazione.

L’immunizzazione come integrazione tra ospite accogliente e nemico

Nel linguaggio biomedico l’immunizzazione è il processo che porta all’immunità un organismo e in tal modo lo protegge dagli effetti di uno specifico antagonista. Questo tipo di risposta, la tipica reazione del sistema immunitario ad un patogeno, consente al sistema vivente di generare la memoria immunologica che previene l’individuo dal rischio di infettarsi ancora per lo stesso micro-organismo. Inteso principalmente come «un meccanismo complesso di integrazione di microbi nella cellula ospite» (Igea, 2015, pag. 55), immunità è una parola di frequente applicata a svariati, differenti campi.

Negli ultimi vent’anni la sua area semantica si è estesa alla filosofia politica, dando origine a un nuovo ambito investigativo, specie in Italia, dove Esposito ha indicato nello stato di immunizzazione (immunitas) il paradigma della globalizzazione (1998; 2001). Come ha teorizzato, immunità e comunità condividono una radice comune, nel termine latino munus (pegno). La persona immune è un soggetto libero da ogni obbligo, che per questo sta fuori dalla comunità. Benché una simile condizione salvaguardi il corpo individuale e sociale, Esposito sostiene che immunitas è, allo stesso tempo, qualcosa che inibisce lo sviluppo di una comunità e, oltre un certo grado, può persino distruggere la coesione sociale.

Dalla prospettiva biologica, c’è un salto tra «quello che “immunità” significa in senso etimologico e quello che il termine implica ai nostri giorni» (2015: pag. 55). Tuttavia il nocciolo concettuale del termine ha mantenuto una certa stabilità, pur attraverso le evoluzioni semantiche: si riferisce, infatti, alla esenzione/libertà dai doveri che alcuni individui hanno nei confronti di altri. Ed è proprio in virtù di questa particolare condizione, entro il discorso politico e sociale, che la comunità sociale spesso guarda all’immune come ad un outsider, qualcuno da approcciare con cautela per essere fuori, libero dal munus collettivo. Nella cornice della recente pandemia, immune è qualcuno che è sì libero dall’infezione, ma che tuttavia resta in qualche modo implicato con l’agente ostile che ne ha “abitato” l’organismo. Fatto curioso, la app Immuni trasmette un segnale quando il suo possessore è entrato nella scia di un positivo, esprimendo insieme il rischio di ammalarsi e il dovere sociale di isolarsi.

L’infezione ha avuto un’incidenza sul sistema biologico di chi si è ammalato e lo ha reso “altro” rispetto alla massa dei non infetti. L’immune viene così reinserito nel tessuto sociale soltanto in virtù di una serie di controlli, senza i quali – pur guarito fisiologicamente – non può essere realmente parte del contesto sociale.

Processi di immunizzazione: dall’esclusione all’integrazione

Abbiamo sufficienti elementi per tratteggiare il concetto di un nemico come risultato del processo di immunizzazione (Fisogni, 2021). Intendo avvalermi di un approccio sistemico (Urbani Ulivi, 2019; Minati e Pessa, 2019) perché ritengo che il pensiero cosiddetto lineare mantiene separati, quasi fossero due poli, immunità e comunità.

I fenomeni viventi, secondo il General System Thinking, sono considerati come sistemi aperti, non aggregati di parti ma unità dinamiche in continua interazione. L’esito di questa vivacità di relazioni, scambi, fermate e ripartenze dà origine a proprietà sistemiche o emergenti. Entro una siffatta prospettiva, va da sé, l’immunizzazione non può essere interpretata come fenomeno isolato, al di fuori di una comunità. I sistemi viventi, siano essi organismi fisici o sociali, si danno a vedere come strutture coerenti impegnate in «una continua (estesa) transizione critica» (Minati, 2019: pag. 16). L’instabilità è dovuta al grado di organizzazione ed è «mantenuta dalla integrazione/regolazione delle attività dell’organismo, data dalla sua struttura globale coerente».

Ne consegue, in buona sostanza, che l’immunizzazione è un fenomeno duplice: 1) è un sistema di per sé dinamico ed è 2) impegnato in una transizione critica permanente. Se torniamo alla cornice concettuale di Esposito, ora risulta chiaro perché il soggetto immune non può essere pienamente integrato dalla comunità. Ciò succede perché l’immune ha sperimentato una modifica radicale nel tessuto intimo del proprio sistema. Dunque, può assumere atteggiamenti, punti di vista, modalità decisionali capaci di destabilizzare il contesto in cui si trova. Tuttavia, essendo coinvolta in numerose dinamiche, una comunità ha bisogno di un’immunizzazione preventiva da ogni spinta che ne può minare la coerenza.

La contraddizione portata alla luce dal paradigma  immunitas/communitas può essere facilmente risolta, mediante il pensiero sistemico, prendendo in considerazione il conflitto tra la transizione, ovvero i cambiamenti, e la coerenza o stabilità, due aspetti intimamente intrecciati in tutti i sistemi aperti, propri dell’ambito di ciò che esiste. Riusciamo a fare, a questo punto, un ulteriore passo avanti nel ragionamento.

Gli individui immuni e quelli non immuni possono essere paragonati a sistemi dotati di diverse dinamiche, che costantemente interagiscono. Essi mostrano gradi differenti di reattività alle spinte dell’ambienta. L’immunizzazione appartiene al dominio delle strutture dissipative, in cui coesistono cambiamento e stabilità (Prigogine 1967, 1981, 1999). Come rileva Minati, le condizioni di non equilibrio permettono l’emergenza di una struttura ordinata e la stabilità delle strutture dissipative «si deve alla lor abilità di trasferire una larga quantità di entropia al proprio ambiente» (2019: pag. 339). Rispetto al sistema di comunità, dove la stabilità è principalmente garantita dalla coerenza, un sistema immunitario trasferisce costantemente energia fuori di sé, è quindi più dinamico e meno prevedibile. A questo punto riusciamo a comprendere meglio perché soggetti immuni siano percepiti come “destabilizzanti”, benché l’immunizzazione sia un passaggio dovuto per proteggere un gruppo sociale. L’accesso alla comunità conduce nella sfera di ciò che è potenzialmente “ostile” o “destabilizzante” perché non è conosciuto.

Dentro/fuori, polarità in conflitto

La coppia di termini in/out, dentro/fuori, che giocano un ruolo da primi attori nel processo di immunizzazione, appartengono anche al campo semantico di nemico/amico. È una notazione importante per muoverci dall’ambito biologico a quello sociale e politico. Prima di entrare nel merito di questa affermazione, ricordo che una comunità configura la tipica situazione in cui gli individui condividono valori, leggi, abitudini e stili di vita comuni. La stessa idea di umanità si può capire in termini comunitari, «come gruppo di concetti” tra loro “in relazione per somiglianze familiari”» (M. Bilewicz, A. Bilewicz, 2012: 341). Se gli aspetti comuni (i fattori in) amalgamano una società, d’altro canto c’è il costante bisogno di rinforzarli in rapporto alle differenze che invece appartengono all’ambiente esterno (i fattori out), alla diversità, percepita come ostile.

Il nemico abita questa terra metaforica, fin dalla teorizzazione classica di Schmitt dove – fa notare Vitale (1992: pag. 92) – Fremde era principalmente «l’altro, lo straniero». La distanza tra questi due poli è forte nelle dinamiche sociali, tuttavia in termini di processi di sistemi aperti, i due poli sono in stretta relazione, in una continua interazione in/out.

Nei sistemi dissipativi, dove cambiamento e stabilità coesistono, come si è visto prima, l’ambiente è una perfetta copia del sistema a causa dei flussi che si dipartono da entrambi. È questo il caso, ad esempio, delle dinamiche cerebrali, dove l’ambiente è generalmente chiamato “il doppio” del cervello (Vitiello, 2010, pag. 115). I flussi di entrata e di uscita devono trovare un equilibrio per dare stabilità alla loro interrelazione. Se dunque il problema del nemico è considerato da questa prospettiva, attraverso le lenti del pensiero sistemico, la coppia di termini in/out difficilmente si presta ad essere separata.

Ciò che rende difficile per una comunità includere l’immunità e i fenomeni relativi entro i propri confini dipende dal fatto che i loro processi possono produrre cambiamenti al sistema sociale. Dalla prospettiva sistemica, questo tipo di interazioni sono quelle appartenenti al sistema dissipativo. Una comunità tende a preferire la compatibilità all’irregolarità o alla difficoltà di prevedere le situazioni. Ma proprio quando le interazioni sono fornite da un sistema dissipativo, qual è l’immunizzazione, dove i poli in/out sono in costante relazione, sono altissime le chances di avere nuove “emergenze” o proprietà sistemiche del II tipo. In termini di dinamiche sociali, significa che la società sia affetta da grandi cambiamenti.

Questa considerazione evidenzia come l’immunizzazione possa far sì che una comunità si rafforzi attraverso la varietà dei suoi cambiamenti interni. Un individuo immune non può essere più considerato nemico, ma non  nemmeno pienamente un amico; il modello teorico che gli conviene è quello del non-amico, né sodale né antagonista, una specie di via di mezzo, se possibile. È un concetto attestato nelle lingue slave, come Vitale ha messo in luce (1992), facendo notare che lo stesso Schmitt lo aveva già ampiamente intuito nel suo Der Begriff des Politischen. A differenza di un nemico pubblico, in permanente conflitto con lo Stato, il non-amico gioca un ruolo chiave nella comunità, dal momento che l’amicizia politica solo in presenza di un tale soggetto (1992: pag. 93).

Posso ora formulare la mia riflessione su basi sufficientemente argomentate.

Immunizzazione come processo di integrazione. Il nemico forgia l’amico

Secondo Vitale, «la categoria del nemico deriva da un processo psicologico di auto-ascrizione che è possibile soltanto in virtù della contrapposizione». L’immunizzazione, io sostengo, fornisce probabilmente la chiave per capire questa interconnessione: portando dentro il nemico, essa chiarisce il processo che volge l’ostilità in pacifica coesistenza, ovvero una permanente transizione dal conflitto alla sua sistemica regolazione. Tale dinamica mantiene un livello di organizzazione coerente in virtù del fatto che si tratta di una “emergenza”, ovvero una qualità/un fenomeno che non appartiene né in pieno al nemico né all’amico, ma da entrambi si origina e in entrambi si alimenta. Siamo al centro del nostro problema, esprimibile attraverso la domanda: in che modo la categoria dell’amico è costruita da quella del “nemico dentro”, tipica dell’immunizzazione?

Il primo passaggio consiste nel sottolineare la “coerenza”, il processo che supporta ogni emergenza. Il virus, quando si introduce in un organismo, alla maniera di un nemico, ne disconnette l’equilibrio. A quel punto è attesa una reazione, da parte del sistema immunitario o da un vaccino: in entrambi i casi non si ha soltanto l’attacco al patogeno, ma l’avvio di una reazione che ricompone, in modo nuovo, funzioni e proprietà precedentemente colpite. È questa attività a rendere possibile l’ “emergenza” del nuovo. Ecco perché il nemico, inteso nei termini di un processo di dissipazione e rottura è anche origine di una più forte coerenza del sistema e si può considerare un “attivatore di emergenza”

Possiamo ancora una volta far riferimento alla biologia, soffermandoci sulla interazione tra parassita e ospite. L’ospite (host) è comuenemte percepito come un organismo che accoglie un’altra entità vivente all’interno del proprio ambiente. Si noti che nella parola latina hostis risuona la parola ospite con la sua specifica ambiguità, giacché denota sia un individuo in rapporto di ospitalità o che cerca ospitalità (hospes potis / hospes petere), sia qualcuno che può attaccare. Questo insieme di considerazioni fornisce una valida premessa per affermare che il processo di immunizzazione, dove un  organismo vivente (host) è preso di mira da un nemico (virus) è un peculiare campo di battaglia, nelquale ogni attacco diventa una integrazione, una incessante dinamica che mantiene sano un organismo o il contrario.

Da questo punto di vista, allora, l’immunità non può essere l’opposto di una comunità, perché l’integrazione è un processo che sta al centro di entrambi. La nozione di enemy inside (Fisogni, 2021) abita appunto questo ambiente.

A questo punto della discussione dovrebbe essere più semplice da capire perché questa integrazione/connessione tra un nemico e un amico (di una comunità) sia altamente rilevante per capire come un nemico possa perdere il suo potenziale distruttivo per diventare un non-amico.

Come Vitale ha notato, l’amicizia politica si può costruire attraverso il nemico e solo in virtù di un processo di immunizzazione, vorrei dire. Se guardiamo ai due poli (amico/nemico) come ad entità separate, non saremo mai in grado di risolvere la contraddizione. Tra le molte critiche a cui una simile ipotesi è esposta, una in particolare richiede subito di essere portata a tema: come si passa dalla biologia alle dinamiche socio politiche del conflitto? Rispondo fornendo un argomento finemente tratteggiato da Derrida che rafforza l’idea dell’enemy inside come l’anello di congiunzione tra amico e nemico. Nella sua analisi di Schmitt, Derrida sostiene che il nemico è un individuo forgiato dal conflitto. in una battaglia è nella linea del fronte che l’avversario diventa identificabile ma, al tempo stesso è lì che la differenza tra i due opposti si assottiglia. Ciò che precisamente avviene nel polemos, spiega il filosofo francese, i nemici diventano avversari.

«Il polemos unisce gli avversari, mette insieme quelli che stanno agli opposti e fornisce una figura storica perquesto polemos che aggrega i nemici… nell’estrema prossimità del faccia-a-faccia». (2015: pag 37). Nel polemos, in altre parole, “nemico” non è più un termine opposto ad “amico”, perché evolve in “avversario”. La prossimità è dunque all’origine di una sorta di metamorfosi non soltanto concettuale, ma emotiva e sociale, se pensiamo a quanto sia necessario, in una guerra di tipo tradizionale  «costruire una distanza tra i soldati e i loro nemici per essere in grado di uccidere gli avversari» (Grossman, 1995). Ancora una volta il ricorso all’interazione tra sistemi aiuta a comprendere sia la dinamica del travaso dei processi tra gli ambiti di amico/nemico e la nascita di “emergenze”, quali il concetto di avversario.

Se torniamo indietro all’immunizzazione come conflitto che si verifica nel sistema biologico arriviamo a capire che il nemico (il virus) è sconfitto quando il corpo ne assume alcune proprietà genetiche, divenendone avversario.

Più che a sottolineare l’antitesi tra i due poli, la dinamica biologica dell’immunizzazione – tipica della risposta degli organismi viventi all’attacco dei virus, compreso il coronavirus – invita a riflettere sulla necessità che, per vincere un conflitto, conti l’inclusione dell’alterità. Non a caso, nell’ambito scientifico, si va affermando la lettura del sistema immunitario (immune system) nei termini di sistema comunitario (commune system).

 

 

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