EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Insegnare filosofia ai bambini. I primi perché, la didattica, le opportunità. A colloquio con Irene Merlini e Maria Luisa Petruccelli

di Federica Biolzi

Un Libro dedicato ai ragazzi che sono curiosi, a quelli che si pongono domande, a quelli che vogliono ragionare con la propria testa. La domanda più frequente dell’infanzia è la stessa alla base dei problemi della nostra esistenza. Irene Merlini e Maria Luisa Petruccelli sono coautrici, insieme a Umberto Galimberti, di un libro simpatico, accattivante,  ma che ripropone anche una serie di problematiche legate alla necessità di un avvicinamento alla filosofia sin dall’infanzia, con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista didattico. Ne abbiamo parlato con loro.

– Il titolo del libro è già una domanda. Essa rimanda in primo luogo ai grandi perché dell’esistenza ed ai piccoli e ripetuti perché che caratterizzano l’infanzia. Secondo voi cosa hanno in comune questi perché?

– (Merlini) Non credo ci sia una differenza sostanziale tra le domande che potrebbe porsi un adulto, come “Perché esiste questo mondo piuttosto che nulla?” o “Perché c’è tanta disparità sociale?”, e quelle che potrebbe porsi un bambino, come “Perché il gatto mangia il topo?” o “Perché, mamma, mi hai sgridato? Perché non mi vuoi più bene? Perché devo andare a scuola?”. I loro “perché” sembrano piccoli solo per via delle risposte che sembrano anch’esse piccole, ma, a ben guardare, ogni piccola risposta rimanda ad una nuova piccola domanda, ad un nuovo piccolo perché, continuamente, finché si arriva comunque ad uno dei grandi perché dell’esistenza. Mi spiego: il gatto mangia il topo perché ha fame, e perché? Perché i più grandi mangiano i più piccoli, e perché? Perché è una legge di natura, e perché? Perché altrimenti tutti ci estingueremmo, e perché? Perché non è possibile sopravvivere tutti, grandi e piccoli, deboli e forti?

È solo un esempio per comprendere come una catena di domande e risposte dei piccoli necessariamente porta ad un grande perché. La differenza tra noi e loro è solo questione di generalizzazione, una capacità che i bambini devono apprendere e apprenderanno col tempo. Mi riferisco alla capacità di sapere fare da spola dal particolare al generale e viceversa. É importante non spegnere mai la loro curiosità, allenarli e allenarci in questo percorso di andata e ritorno, senza perdere mai di vista le eccezioni che confermano e spesso sovvertono le regole, senza timore di non sapere, senza dimenticare che si può rispondere ad una domanda con un’altra domanda, rilanciando il gioco e addentrandosi in una serie di ipotesi non necessariamente senza fondamento, ma spesso creative e significative.

-E per lei dottoressa Petruccelli?

(Petruccelli ) I “perché” dell’infanzia originano da uno sguardo “puro” sul mondo, non contaminato da sovrastrutture, da idee preconfezionate o dall’abitudine, uno sguardo costantemente accompagnato dalla meraviglia della scoperta (per questo i bambini sono “naturalmente filosofi”. I “perché” adulti spesso sorgono quando qualcosa turba le nostre abitudini, mentali e non. Quando le nostre certezze vengono messe in crisi, nasce in noi il bisogno di rimettere ordine nel caos che ha destabilizzato i nostri punti di riferimento, ed ecco che ci poniamo delle domande. Domande con una diversa complessità e che a volte arrivano in momenti di rottura, col sopraggiungere di eventi drammatici o inattesi, costringendoci a confrontarci con la precarietà e a fare i conti con noi stessi e con la vita.

Ci sono poi domande che ci siamo posti da bambini e che ritornano, anche se in altra forma, quando diventiamo adulti, come quella sulla morte ad esempio, che mette in questione il senso di finitezza. Il punto è: quanto siamo preparati ad accogliere queste domande, quando riguardano noi ma anche quando a porcele sono i bambini? Quanto e come l’esigenza di risposte immediate e definitive incide sul valore intrinseco della domanda?

Se c’è una cosa che accomuna i perché adulti e quelli dell’infanzia, questa cosa è il senso di continuità, una sorta di filo rosso che li lega nel tempo: quando le domande dei bambini vengono accolte nel modo giusto, quei bambini con molta probabilità diventeranno adulti capaci di porsi domande esistenziali decisive, importanti. Penso ad una delle cento storie del libro, quella della bambina che rivolge al papà i suoi “perché” sul tema della morte (una storia ispirata a quello che mi è successo davvero all’età di 8 anni) e a come quella domanda è stata nutrita e restituita con le riflessioni del filosofo Epicuro. Quella bambina, imbattendosi da adulta in quegli stessi perchè, aprirà “I Saggi” di Montaigne in cerca di nuovi perché.

I perché esistenziali degli adulti sono il frutto dei piccoli perché attraversati e vissuti nell’infanzia, o meglio, del modo in cui quei perché sono stati stimolati e coltivati.   

-Nel corso di questi ultimi anni c’è stata una maggior sensibilizzazione nell’introdurre i temi propriamente filosofici fin dalle classi elementari. Quali sono le novità dal punto di vista didattico e metodologico in questo campo?

– (Merlini-Petruccelli) Entrambe veniamo da una scuola di counseling e pratiche filosofiche. Da 15 anni ci occupiamo di Philosophy for Children quindi possiamo confermare che c’è oggi maggior sensibilizzazione e attenzione nell’introdurre la filosofia fin dai primi anni di scuola. Più che di vera e propria novità però ci sentiamo di dire che si tratta di diffusione, per quanto la diffusione sia sicuramente associata al fattore novità.

Un dato, peraltro recentissimo, ci pare molto interessante, ed è rappresentato dal Master proposto all’Università di Genova e dai seminari organizzati nella facoltà di Filosofia della Statale di Milano. Se è vero che la pratica filosofica con i bambini è presente già dagli anni ‘90 nelle nostre scuole, è altrettanto vero che la formazione accademica in tal senso è stata sempre riservata alle facoltà di Scienze dell’Educazione. Oggi invece questo percorso formativo fa il suo ingresso nelle facoltà di Filosofia, e questo apre alla dimensione non puramente teoretica della filosofia stessa, che vede riconoscersi l’enorme valore anche etico di una pratica di questo tipo, che si fa concreta, quotidiana.

Da un punto di vista didattico e metodologico, la Philosophy for Children/Community si inserisce pienamente nell’ottica della scuola odierna. Le competenze chiave europee e la direzione irreversibilmente inclusiva e laboratoriale, che sono i due grandi vettori del sistema scuola oggi, la comunicazione circolare, il problem solving, la metacognizione, le capacità autovalutative, creative e affettive; per non parlare di metodologie, dal cooperative learning, al brainstorming, o di una logica che non sia necessariamente razionale ma ragionevole, come esercizio dei diversi tipi di intelligenze: questi sono tutti elementi contemplati nelle sessioni di filosofia per la scuola primaria.

Esistono anche altri modi di fare filosofia a scuola, altrettanto validi, purché abbiano alle spalle una seria e solida preparazione e, va detto, anche una attitudine a questo tipo di intervento.

-Qual è l’identikit del ragazzo curioso a cui è diretto il libro?

-(Merlini) Non c’è un identikit del ragazzo o della ragazza curiosi. Curiosi si nasce, e basta osservare qualsiasi bambino piccolo per rendercene conto. Purtroppo curiosi poi si può smettere di esserlo: per via dell’educazione che si riceve, in famiglia in primo luogo e a scuola poi, per il troppo tempo parcheggiati davanti ad uno schermo (e questo vale sia per gli adulti che per i bambini), per le frustrazioni che hanno un peso enorme nella vita dei ragazzi. Quando hai a che fare con gruppi di età differenti (dai 6 ai 19 anni) è immediato notare la ragazza dalla mente brillante, il ragazzo dallo stile rigoroso, quello distratto o quella assolutamente disinteressata. Invece di pensare a catalogarli, è importante tenere a mente che la curiosità, appartenendoci per nascita, può riaccendersi in chiunque: lo sforzo diventa trovare il medium giusto, il setting e i tempi adatti; accendere l’interesse, e quindi il dubbio, stimolare la curiosità usando certe parole piuttosto che altre, e scegliendo con cura il momento.

E’ chiaro che il ragazzo o la ragazza curiosi sono quelli che “perché” te lo chiederanno sempre e se lo chiederanno sempre, quelli che sanno trovare soluzioni creative, che da piccolissimi per esempio scendevano sulla neve con un pezzo di cartone piuttosto che su uno slittino.

Mi piace però pensare a coloro la cui curiosità è sopita, coloro a cui è stata sottratta, perché a loro è stato sottratto innanzitutto e ingiustamente il tempo, gli è stato insegnato ad “ammazzare il tempo” invece di “viverlo”.

Ecco perché ritengo che la curiosità dovrebbe essere un diritto, che si possa ipotizzare un “diritto alla curiosità”. Mi piace pensare a come restituirlo a chi l’ha perduto, e la filosofia con bambini e bambine, ragazzi e ragazze, è uno dei modi possibili per farlo.

Il libro va chiaramente in questa direzione: “per ragazzi curiosi” non è esclusivo. E’ inclusivo nella misura in cui vuole intendere tutti i ragazzi e tutte le ragazze, che in uguale misura hanno il “diritto alla curiosità”.

– Concorda anche lei?

-(Petruccelli) Se partiamo dal presupposto che la curiosità è connaturata a bambini e ragazzi, possiamo dire che il libro è rivolto a tutti loro. Può essere considerato un invito ad alimentare quella curiosità con le riflessioni dei grandi pensatori, uno stimolo per i propri pensieri, per mettersi in gioco mettendo in gioco le proprie idee, che poi significa anche metterle in comune, condividerle con altre idee per vedere cosa ne viene fuori, essere disposti a prendersi del tempo per pensare, resistere alla tentazione della risposta pronta.

Ma questo libro è anche una opportunità per risvegliare una curiosità sopita dai ritmi frenetici che ci hanno disabituato a soffermarci sulle cose, sulle parole e i loro significati, sui gesti. Questo vale sia per i ragazzi, che nel percorso di crescita porteranno con sé l’abitudine a interrogare e interrogarsi sul mondo che li circonda, che per tutti quegli adulti che credono nel valore di una educazione al pensiero.

Nella mia attività di consulente filosofico mi è capitato di incontrare adulti che di fronte ad un problema o un dolore si adoperano in tutti i modi per tenersi occupati, con lo scopo di “non pensarci”. Ecco che diventa importante re-imparare a ritagliarsi degli spazi di riflessione, a confrontarsi con i propri pensieri, senza esserne spaventati, ma mettendoli a fuoco nel giusto modo, acquisendo consapevolezza.

Allora forse più che di un identikit che tende a circoscrivere, possiamo dire che si tratta appunto di un invito aperto a chi vorrà accettarlo, che si tratti di bambini, ragazzi o adulti. Sarà interessante allora vedere cosa nascerà dall’incontro tra ogni singola lettrice, ogni singolo lettore, e le cento storie che abbiamo scritto per loro, ma anche per noi stesse, a partire da noi stesse, visto che in quelle storie ci sono gli intrecci tra i nostri pensieri e quelli dei filosofi che abbiamo imparato a conoscere nella nostra lunga avventura con la filosofia, un viaggio che è sempre in corso, non privo di tappe, deviazioni, percorsi inaspettati. Molte sono le testimonianze di genitori e insegnanti che hanno voluto condividere con noi le diverse esperienze fatte con bambini e ragazzi a partire dalle storie del libro. Credo stia in questo il loro valore: sono storie aperte a diverse possibilità, perché parlano all’unicità di ogni persona.

-Nell’introduzione del libro viene messa in evidenza, tra le altre utili riflessioni, la necessità di argomentare. Perché in (un) mo(n)do sempre più connesso e frammentario nella comunicazione, si sente il bisogno di apprendere o riapprendere la costruzione (di) un pensiero che sappia riflettere?

-(Merlini) L’ introduzione è stata scritta dal professor Galimberti che ribadisce l’urgenza di questa esigenza, con cui concordiamo pienamente. Il punto è che la riflessione ha bisogno di strumenti, e i primi strumenti con cui pensiamo sono le parole. Noi pensiamo per parole, connettiamo le idee attraverso le parole. Una persona con poche parole (che è ben altro rispetto a una persona “di poche parole”),  cioè con un dizionario limitato o utilizzato in maniera impropria e casuale, avrà sicuramente più difficoltà ad affrontare un pensiero complesso. Avrà ancora più difficoltà a generare un pensiero complesso. Una situazione di questo tipo rischia di rappresentare una fetta sempre maggiore del mondo contemporaneo, in cui bambini e adolescenti crescono immersi in un sistema comunicativo fatto principalmente di emoticon, foto e video che, per quanto urlati, paradossalmente restano “muti”, perché non sanno e non possono rendere conto delle sfumature. Vengono scagliati come pietre monadiche e compatte, che restano afone, sbrigative e standardizzate, incapaci di rendere conto delle differenze. Mi spiego: se mi sento giù di morale, un conto è comunicarlo con una “faccina” triste, un altro è saper dire, e prima ancora pensare, che forse sono triste perché ad esempio quella certa persona non mi ha considerata e questo mi ha fatto sentire invisibile, e l’idea di essere invisibile mi fa male per tale o talaltra ragione. Questo sarebbe argomentare, dove argomentare significa prima di tutto saper argomentare a se stessi. Ma se anche a noi stessi traduciamo la tristezza con una emoticon, se anche tra me e me comunico così, cosa succede? L’origine di quella tristezza mi rimane oscura e mi precludo la possibilità di capirne il senso, conoscendomi un po’ di più anche grazie ad essa.

– Diciamo che occorre imparare a riflettere…

-(Petruccelli) La vera argomentazione, diversa da quella persuasiva/strumentale/strategica, presuppone solide basi di conoscenza e una ampia visione del mondo, che possa spaziare creando connessioni, talvolta anche insolite, tra cose, eventi, situazioni. Tutto questo richiede una abitudine alla riflessione e una attenzione particolare nei confronti della vita e dei suoi accadimenti. Il pensiero, per essere tale, ha bisogno dei suoi tempi, non può bruciare le tappe, e la connessione tra pensieri ha natura e tempi diversi da quelli della rete. L’abitudine al virtuale (il cui uso ragionato non è da condannare, a differenza dell’abuso) che ha investito ogni campo della nostra esistenza, ha avuto come conseguenza quella di disabituarci all’incertezza, che è invece una parte costitutiva della vita. In un mondo che va sempre più veloce e che ci chiede di stare costantemente al passo, che ci esclude se ci attardiamo, la sosta nella domanda è stata soppiantata dalla rapidità delle risposte. Ma la risposta immediata, che ci dà l’illusione di sedare l’incertezza, ha trasformato l’incertezza stessa da stimolo alla riflessione in nemico da annientare. Eppure lo sperimentiamo sulla nostra pelle: le risposte immediate non sono un farmaco efficace contro il vuoto di senso e l’angoscia, perché per ogni risposta sorgono in noi nuove domande. E solo le domande hanno la capacità di mostrarci le connessioni, tra noi e gli altri, tra noi e il mondo, permettendoci di guardare e guardarci con occhi nuovi, quindi con quell’atto di meraviglia necessario per la comprensione e la scoperta. Anche in questo caso sono i bambini a fornirci l’esempio: i loro perché ci incalzano, e sembrano non accontentarsi mai, soprattutto delle risposte che non lasciano spazio ad altre domande. Le loro infinite domande non sono altro che una richiesta di argomentazioni vere. Solo attraverso risposte che aprano nuove domande i bambini possono capire, andare in fondo alla questione. C’è bisogno di mettere le domande in dialogo per imparare o re-imparare a pensare, soprattutto in un mondo in cui al dialogo è riservato sempre meno spazio e meno tempo.

-In cosa ci possono aiutare i grandi nomi della filosofia? Quali in particolare?

(Merlini-Petruccelli) La filosofia ci dà la possibilità di leggere la realtà nelle sue molteplici forme e sfaccettature. L’imprevedibilità della vita, la complessità delle relazioni, Ia drammaticità di certi eventi, fanno sorgere in noi diversi interrogativi che hanno in comune tra loro la ricerca di un senso. Il modo in cui approcciamo questi interrogativi o cerchiamo di affrontare o gestire i problemi, ci mostra quanto la società ci abbia abituati ad un approccio specialistico e settoriale. Ogni campo dell’esistenza ha la sua nicchia e il nostro pensiero tende a muoversi rimanendo dentro il perimetro delle sue mura. E’ così che trova spazio il pensiero unico, che si alimenta il pregiudizio, che si cristallizzano le idee. Ed è così che diventiamo intolleranti nei confronti delle differenze e facilmente influenzabili. In sostanza non facciamo altro che autolimitare il nostro pensiero, circoscrivendo le nostre idee. Ma i filosofi sono un esempio di ciò di cui è capace il pensiero. I “grandi nomi” della filosofia, come Socrate, Platone, Kant o Nietzsche, solo per citarne alcuni, sono sicuramente riferimenti importanti per mettersi alla prova, per rompere gli argini del pensiero, scoprendo le possibilità che si nascondono dietro la complessità, ma ognuno di noi, nei diversi momenti della vita e a partire dalla propria storia personale, può trovare i “suoi” filosofi. È stato così anche per noi due che, dovendo trattare cento tematiche, ci siamo trovate in sintonia nel “dividercele” in base a ciò che ci era più congeniale e che apparteneva di più, per attitudine e vissuti, a ciascuna di noi.

La storia del pensiero filosofico è ricca di riflessioni che restano attuali o possono essere ri-attualizzate. Così Sartre può aprirci una nuova prospettiva sulla vergogna, oggi tanto condannata perché associata all’incapacità di “farsi valere” in un mondo competitivo; Deleuze ci esorta a coltivare un pensiero che invece di fissarsi in profondità se ne vada in giro senza un percorso o una meta prestabiliti; Spinoza ci mostra un volto insolito della tristezza che può aiutarci a darle un senso. Ma anche nomi meno noti nel nostro paese, che propongono un pensiero apparentemente meno “seducente”, come Spivak, Irigaray o Dussel, possono essere significativi per la loro potenza deflagrante, perché danno voce a temi sociali delicati e fondamentali, come quello della subalternità, del rapporto tra il Dominante e l’Altro e delle minoranze rispetto al pensiero unico, disegnando nuove cartografie di pensiero. Le cento storie che popolano il nostro ultimo libro sono un esempio proprio di questo. La pluralità degli argomenti, la presenza di un pensiero sia maschile che femminile (al di là della questione di numeri) e l’intreccio con il mondo dei bambini e dei ragazzi mostrano le possibili strade e prospettive che i filosofi e la filosofia possono aprirci, per trovare poi la nostra di strada, che si tratti di dare un senso alla vita nonostante la morte in compagnia di Montaigne, di comprendere il vero valore dell’amicizia insieme a Seneca, o di fare i conti con i limiti senza perdere di vista la direzione che vogliamo dare alla nostra esistenza con l’aiuto di Jaspers.

-Il libro ci mette in guardia dal distinguere la filosofia dai sofismi. Come insegnare ai giovani, ma anche agli adulti, che non è vincente l’aver ragione ad ogni costo, che occorre ascoltare, riflettere, dedicare del tempo al pensiero e forse anche alle proprie idee..?

(Merlini) Lo si insegna sovvertendo le abitudini, di un mondo in cui si fa continuamente campagna elettorale per se stessi, sui social ma anche nelle relazioni in generale. Si parla per slogan e per aforismi, che per loro natura non chiedono risposte, e lo si fa per convincere, per prevaricare, per ottenere il maggior numero possibile di consensi e likes. Questo atteggiamento, unito alla politica -o derivante dalla politica?- che vediamo inscenarsi intorno a noi, è diventato un’abitudine letale. Se è vero che l’identità si costruisce nella relazione, sono portata a pensare che se vinco e convinco, quindi ho un numero alto di approvazioni che mi allontanano dal dubitare, il mio io sarà più tronfio e la mia identità più solida, donandomi un senso di rassicurante stabilità. Ma si tratta di un castello di carta, perché l’altro è determinante nella costruzione della mia identità solo nella dimensione dialettica del dialogo e della domanda, che presuppongono – come facevi notare – ascolto, riflessione, tempo e rielaborazione.

Cosa può fare la filosofia. La filosofia è uno spazio-tempo speciale, in cui la dimensione relazionale della filìa è determinante, un ou-topos sospeso che non rincorre scadenze, approvazioni o elezioni; non predilige predatorialmente terre ricche in luogo di deserti, anzi, è  uno spazio-tempo in cui il domandare costante non si rassegna di fronte al deserto, e a lungo andare potrebbe generare fiori anche nel deserto.

L’augurio concreto è che sostare in questo ou-topos diventi familiare al punto da rendere naturale il suo intreccio coi luoghi veri, coi tempi veri, con le vite vere. Solo così gli immaginari diventano dei “ reali possibili”. Solo così i “reali possibili” possono essere etici, e non più servi della logica dualistica di dominatore e dominato, di cui il vincere per forza, l’avere ragione per forza, sono espressione.

–  Insomma, occorre saper distinguere, discernere, valutare, e non è cosa facile

(Petruccelli) Ognuno di noi ha idee, opinioni, punti di vista che sono il frutto di esperienze, della nostra storia personale, dell’ambiente in cui siamo cresciuti, degli incontri fatti e non ultimo del contesto sociale in cui viviamo. La società, con i suoi modelli e i suoi messaggi, influenza la nostra visione del mondo. Tutto è competizione: la politica, il lavoro, la vita privata. Scelte apparentemente “innocue” come il modo di crescere i propri figli o il tipo di alimentazione da seguire, sono diventate un campo di battaglia dove sono bandite le sfumature e l’unico obiettivo è collezionare consensi per aggiudicarsi la vittoria. Cosa si vince esattamente in questa guerre tra idee? Il poter dimostrare di essere nel giusto e nel vero, nutrendo così il nostro narcisismo e la nostra autostima (che dovrebbe però fondarsi su criteri diversi). Per vincere in un mondo competitivo devo dimostrare di aver ragione, ad ogni costo, e poiché la ragione passa attraverso il consenso, mi circonderò di persone che la pensano come me, commettendo così il grave errore di privare il mio pensiero, e il pensiero in generale, della sua linfa vitale: l’incontro con il limite. Questo limite è rappresentato dalla differenza. Differenza rispetto alla mia zona di comfort, restando all’interno della quale non metterò mai alla prova le mie idee, per vedere se e quanto resistono a tutto ciò che può perturbarle. Ecco perché abbiamo bisogno del dubbio, quella voce nella testa che alimenta il bisogno di comprendere, che non si accontenta dei facili consensi e che ci spinge a rimettere sempre e di nuovo in gioco le nostre certezze. Penso che la filosofia abbia questo merito, di insegnarci la cura del pensiero, e quindi delle idee cui il pensiero può dare vita, e la cura richiede tempo, attenzione, è fatta di piccoli passi, a volte in avanti, altre indietro, proprio alla ricerca della giusta distanza per mettere a fuoco, per vedere con chiarezza. La cura non è possesso, ed è questo l’atteggiamento che dovremmo avere nei confronti delle nostre idee, coltivandole non a nostro uso e consumo, ma per arricchire la relazione con l’Altro, dove questo Altro è da intendersi nel senso più ampio del termine, come tutto ciò che è altro da me, che è oltre, come luogo inesplorato, come apertura al possibile. Educare bambini e ragazzi a questa cura del pensiero significa costruire una società di adulti tolleranti (realmente tolleranti, dove la tolleranza non origina dal senso di superiorità). Più complesso è il discorso di quegli adulti (molti, non tutti) che difficilmente sono disposti ad abbandonare quell’abito mentale che si sono cuciti addosso così bene che col tempo è diventato una corazza.

 

U.Galimberti, I. Merlini, M.L. Petruccelli

Perché? 100 storie di filosofi per ragazzi curiosi

2019 Feltrinelli

 

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