EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Interrogarsi sulle origini

di Federica Biolzi

Evoluzione, progresso è il frutto del lavoro svolto in Mechrí, il laboratorio di filosofia e cultura coordinato da Carlo Sini e Florinda Cambria. Nel volume è raccontato il lavoro svolto nell’anno sociale 2018- 2019. Tommaso Di Dio, Francesco Emmolo e Enrico Redaelli, si sono occupati di curarne l’edizione ed hanno accettato di rispondere ad alcune nostre domande.

Il tema centrale del volume è ben sintetizzato nella domanda iniziale che pone Carlo Sini: quale fu l’incontro dell’homo sapiens con le potenze e le forze del cielo e della terra? Tra saperi metamorfici della parola e saperi dell’oggettività strumentale, scientifica, in cammino. Perché è così importante passaggio?

-Il Seminario di filosofia offre da sempre la cornice teoretica entro cui si inseriscono i lavori svolti nel corso dell’anno accademico.  La domanda è centrale, tuttavia lo scopo del Seminario non è quello di ricostruire chi fosse l’homo sapiens o quale fosse il suo rapporto con le potenze del cielo e della terra, cioè l’intento non è quello di recuperare ciò che accadde “allora”, che come tale è irrecuperabile in sé. La domanda sull’origine costituisce piuttosto il perno di quella “autocomprensione dell’occidente, per tappe” che il Seminario prova a rievocare genealogicamente. Autocomprensione, cioè a tema è il sapere, con i suoi strumenti e la sua (irrimediabile?) frattura tra mito e logos, quale cifra distintiva del destino dell’occidente.

Chiedere dell’homo sapiens, «chiedere dell’origine, di come noi umani abbiamo fronteggiato le potenze della terra […] non è ciò che fa da sempre «tutta la nostra scienza»?» si chiede Sini, rievocando Nietzsche (Evoluzione, progresso p. 29).  Tuttavia è proprio a questo punto che emerge il nodo problematico della nostra indagine: questo nostro chiedere sull’origine, questo frequentare un sapere “panoramico”, che si figura la realtà come un “di contro”, trascurando il nodo essenziale, che «la descrizione di una forma di vita  non può che rientrare a sua volta in una forma di vita» (ibidem). I nostri saperi non stanno di contro al mondo, ma nel mondo e dal mondo provengono. Come farsi carico di questo nodo?

Un aspetto trattato e che appare importante nell’economia della trattazione è  quello del ruolo della parola, dell’illusione che queste parole dicano cose corrispondenti (come il reale) e non cose che conviene credere e fare nelle concrete situazioni della vita.  In cosa consiste questa richiamata illusione?

-L’illusione della parola risiede nel suo stesso funzionamento: la parola fissa, blocca la vita in un’immagine. Come se scattasse una fotografia. Ma la vita è azione, prassi, movimento: qualcosa che la fotografia, nella sua fissità, non è in grado di restituire. Dunque la parola abita una soglia paradossale: da un lato è sempre vera, dall’altro è sempre falsa. È sempre vera come lo è una fotografia: ciò che lì si vede, ciò che lì è rappresentata, è la vita, la vita vera non una finzione; la vita accaduta in quelle circostanze e fissata per sempre in quella immagine. D’altra parte, la vita non coincide con quella fotografia, non si esaurisce in essa, non è mai tutta lì e, anzi, non appena la si trattiene lì, non appena la si immortala in un’immagine, la si mortifica, la si blocca trasformandola in un cadavere e facendo di quell’immagine la sua tomba. Sicché la parola dice il reale, ma questo dire è un tradurre: il linguaggio traghetta il reale nel proprio registro simbolico, nelle proprie immagini, e così anche lo tradisce. Come suggerisce il latino tradere, ogni traduzione della vita nella parola è un suo traghettamento ma anche un suo tradimento.

Da sempre la filosofia, come anche la poesia e, più in generale, le arti si muovono su questa soglia ambigua e paradossale: da una parte catturano la vita nelle parole e nelle immagini, dall’altro riattivano ciò che così è catturato dando nuova vita alle parole e alle immagini, ridando loro vigore, rimettendole in gioco in modo inedito (di qui le invenzioni concettuali della filosofia e la lingua sempre in lotta con se stessa della poesia).

Come, in questa prospettiva, è possibile inserire il discorso della poesia ed in particolare come questa appare nella definizione di Cristina Campo, cioè attenzione a differenza dell’immaginazione…

-La poesia per troppo tempo è stata pensata in Occidente come una dimensione specialistica del linguaggio, tenuta separata da un sapere retorico che la manteneva relegata all’ambito delle “belle lettere”. I percorsi di Mechrí invece convergono in una riscoperta a tutto campo dell’arte poetica che comincia innanzitutto dalla sua reintegrazione a pieno titolo nelle arti dinamiche, nella duplice accezione di arti del movimento e arti della potenza. La poesia così si delinea nel lavoro dei nostri seminari innanzitutto come arte capace di dare luogo ad un movimento e di trasferirlo in un supporto prima vocale poi scritto (da qui il suo legame ancestrale con il ritmo, il canto e la danza); a partire da ciò, la poesia ci viene incontro come uno strumento in grado di dare accesso alla contemplazione della potenza del linguaggio: alla sua potenza di dire. Insomma, non è preminente nei nostri percorsi l’accezione della poesia come fatto letterario (che pur affiora qua e là nei nostri percorsi), ma emerge come un certo sapere del linguaggio (un certo “sapore”, diremmo noi) che sia capace di risvegliare, in chi lo mette all’opera, la duplice consapevolezza del linguaggio stesso e di colui che lo incarna. Ecco perché, per noi di Mechrí, lettore e scrittore sono un tutt’uno: poeta, appunto, è il nome che diamo all’accadere di questa coincidenza di duplice consapevolezza (e in questo fra poeta e attore si delineano sentieri di connessione). In questi camminamenti, ci è allora vicina la proposta di Cristina Campo di intendere la poesia come “arte dell’attenzione” e di contrapporla ad un’arte dell’immaginazione. Campo sostiene (sulla scorta di Simone Weil) che la poesia sia innanzitutto la capacità di “soffrire per qualcuno”, ovvero sia un sapere metamorfico, capaci di trasformare il poeta e di metterlo in grado di trasferire il pathos dell’altro in un patimento proprio e viceversa. In questo, la poesia si richiama all’arte degli aruspici che ritagliavano una porzione del cielo e lì, con attenzione, “leggevano” il senso delle azioni della loro comunità, traducendone le emozioni, le inquietudine e le speranze. Foscolo ha scritto che il cielo è la prima pagina della letteratura umana. Ancora una volta, lo sguardo che si rivolge all’origine è l’innesco che ci permette un cammino genealogico: in che modo, ancora oggi, ciò che possiamo chiamare poesia porta con sé la memoria di tutto questo? È ovvio che quando parliamo di evoluzione cerchiamo di restare su questa domanda.

Se stiamo al primo termine evoluzione, la mente riconduce Darwin, il suo enorme impatto sul pensiero scientifico, filosofico, teologico. Cosa ha nei fatti significato e con quali contraddizioni?:

-Per rispondere a questa domanda abbiamo interpellato direttamente Andrea Parravicini, l’autore del volume che ha tenuto una serie di incontri a Mechrí  proprio su questo tema, il quale ha risposto con queste parole: oggi la visione darwiniana ha attecchito profondamente nel pensiero occidentale, e non solo in ambito scientifico, consegnandoci una visione del mondo che non è certamente esente da paradossi. Il più evidente, che lo stesso Sini ha chiamato “il paradosso dell’evoluzionista”, è che lo scienziato darwiniano pretende di dire la sua verità (cioè che tutto è il prodotto dell’evoluzione) senza considerare che in base a questa verità il suo stesso dire è a sua volta un prodotto dell’evoluzione, il prodotto di cieche leggi naturali, senza alcuna pretesa di valere come una verità assoluta. Detto in altre parole, l’insegnamento filosofico che possiamo trarre dal discorso darwiniano è che le nostre verità, compresa quella dell’evoluzione, sono sempre in cammino e destinate a trasformarsi e a tramontare. Secondo questa prospettiva votata a un evoluzionismo radicale, non è più sostenibile l’idea di una Verità assoluta, ovvero che sia sciolta dalle prospettive e dalle pratiche evolventi che la mettono in scena, così come non è più pensabile che esista un occhio disincarnato e a-storico, posto al di fuori del mondo, capace di coglierla nella sua pura oggettività. Anche l’ideale di una scienza che si fa da sola, liberata dalla presenza imbarazzante dell’osservatore umano, prodotto storico e contingente, dopo Darwin diventa dunque un mito, un ultimo tentativo che l’umanità ha fatto per sostituirsi ad un Dio che egli peraltro, come diceva Nietzsche, ha ucciso.

Concludiamo con il progresso, altro termine delle riflessioni proposte dal volume. Appare sempre più evidente che il progresso abbia avuto dei costi, un prezzo messo già in evidenza nell’opera vichiana. Quali sono e quale il lascito che occorrerà gestire?

-Credo che per rispondere sia necessaria una piccola premessa: affrontare la questione del progresso nei termini di “costi e benefici”, potrebbe condurre al rischio di formulare una “valutazione morale” del progresso. Scopo del lavoro esposto in Evoluzione, progresso non è quello di offrire una “descrizione” di cosa sia il progresso, né tantomeno di offrire delle “indicazioni etiche” su come gestirlo. Per comprendere appieno come il progresso è entrato nel lavoro mechritico è necessario non estrapolarlo dal binomio con l’evoluzione. Volendo essere più specifici, il volume intende illustrare la relazione (problematica) tra evoluzione e progresso, arrivando a mostra che se può esistere una evoluzione senza progresso, non esiste un progresso senza evoluzione, per dirla con una battuta. L’evoluzione (delle forme di vita) è l’accadere stesso della vita nella sua inarrestabile transitorietà, il progresso è la lettura che la civiltà occidentale ha dato di questo accadere della vita, il progresso cioè tira in ballo il sapere (l’autocomprensione di cui si diceva all’inizio) e dunque è a lui che bisogna chiedere di rendere conto dei “costi”. Che l’evoluzione delle forme di vita comporti un progresso è solo una interpretazione, certo non trascurabile, perché porta in sé il destino stesso dell’occidente ed è il risultato di un cammino che coinvolge l’intera storia della nostra cultura. Interrogarsi sul progresso è quindi interrogarsi sul nostro sapere e valutarne lasciti e costi è interrogarsi sulla possibilità di una diversa etica (del sapere) per il nostro presente.


Evoluzione e Progresso

a cura di Tommaso Di Dio, Francesco Emmolo, Enrico Redaelli

JacaBook , 2022

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