EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Ishi, la volpe e gli psicoanalisti britannici

di Maria Bologna

All’alba di un giorno d’agosto del 1911 ad Oroville, cittadina della California, fa la sua comparsa un nativo, sorride, è seminudo, porta con sé un arco e cinque frecce. La polizia locale lo ammanetta, armata di pistola. In cella non mangia, non beve, non dorme, parla una lingua incomprensibile, ma continua a sorridere. Nessuno dei nativi, che vivono nei dintorni, riesce a comunicare con lui.

Si mobilitano gli antropologi di Berkeley, riescono a ricostruire la sua appartenenza all’etnia degli Yama, ipotizzano che appartenga al sottogruppo degli Yahi, che era dato per estinto. Uno di loro, che conosce un po’ quella lingua, tenta a lungo, inutilmente di comunicare con lui. Un giorno gli torna alla mente la parola “siwini”, pino lacustre. L’uomo misterioso si illumina, con la mano tocca il legno della branda. Il numero delle parole condivise si accresce fino a costituire un lessico comune, che consente di ricostruire e raccontare la sua storia. È l’ultimo Yahi, sopravvissuto al massacro di Three Knoll durante le guerre contro i nativi del 1850-1880 e la caccia all’oro, che hanno sconvolto gli equilibri di uomini e luoghi. E’ nato intorno al 1861, ha vissuto nascosto per quarantaquattro anni ed ora non può dire il suo nome, perché non c’è nessuno che possa presentarlo. Nella tradizione Yahi non è possibile pronunciare il proprio nome prima che qualcun altro l’abbia fatto. Uno degli antropologi lo chiama allora Ishi, Uomo.

Nel deserto del Sahara un bambino racconta al pilota di un aereo in panne dei suoi viaggi e dei suoi incontri, come quello con una volpe.

Chi sei? – domandò il piccolo principe. Sei molto carino.

– Sono una volpe.

Vieni a giocare con me, – le propose il piccolo principe – sono così triste…

– Non posso giocare con te, – disse la volpe – non sono addomesticata.

– Ah! scusa – fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: Che cosa vuol dire “addomesticare“?

– Non sei di queste parti, tu, – disse la volpe – che cosa cerchi?

– Cerco gli uomini – disse il piccolo principe. Che cosa vuol dire “addomesticare“?

– Gli uomini – disse la volpe – hanno i fucili e cacciano. È molto noioso! Allevano anche delle galline. È il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?

– No – disse il piccolo principe. Cerco degli amici. Che cosa vuol dire “addomesticare“?

– È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire “creare dei legami“…

– Creare dei legami?

– Certo – disse la volpe. Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.

– Comincio a capire – disse il piccolo principe. C’è un fiore credo che mi abbia addomesticato…

(…)

– La mia vita è monotona. Io dò la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio, perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sottoterra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano

La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: – Per favore… addomesticami – disse.

– Volentieri, – rispose il piccolo principe – ma non ho molto tempo. Devo scoprire degli amici, e devo conoscere molte cose.

– Non si conoscono che le cose che si addomesticano – disse la volpe. Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami!
– Che bisogna fare? – domandò il piccolo principe.

– Bisogna essere molto pazienti – rispose la volpe. In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…

Il piccolo principe ritornò l’indomani.

– Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora – disse la volpe. Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e a inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono riti.

– Che cos’è un rito? – disse il piccolo principe.

– Anche questa è una cosa da tempo dimenticata – disse la volpe. È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore. C’è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza.

Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E la volpe addomesticò il piccolo principe.

Nella seconda metà degli anni ’70 del Novecento, suo ultimo decennio di vita, lo psicoanalista britannico Wilfred R. Bion, dopo aver abbandonato Europa e Nord America per il Sud America, decide di rifiutare dottrine ed affiliazioni accademiche e, in uno sviluppo lineare della sua riflessione in stretta continuità sostanziale con la pratica clinica, smette quasi del tutto di scrivere dedicandosi all’insegnamento orale. Coerentemente con questa scelta, abbandona il linguaggio tecnico e gergale della sua disciplina per approdare ad uno più quotidiano. La ricerca della conoscenza è stata lunga e complessa, assistita dai sei fedeli servitori di Kipling: Che cosa? Perché? Quando? Come? Dove? Chi? La svolta è accompagnata da una riflessione ad alta voce: “… Con tutte le domande fatte non si impara mai niente”. È l’approdo dalla conoscenza logica ad una sorta di saggezza, non senza esporsi ad aspre critiche. Anni prima aveva fatto riferimento alla capacità negativa citata dal poeta Keats a proposito di Shakespeare e della sua essenza creativa di far sperimentare all’altro emozioni, fantasie, tensioni in presa diretta, descritta come “… la capacità che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare ad una agitata ricerca di fatti e ragioni”, dispositivo tecnico di astensione dall’interpretazione ad oltranza necessario per la comprensione autentica dell’altro.

La chiave di volta di questa trasformazione, che è dell’uomo, del pensiero e della pratica terapeutica, è rappresentata da ciò che egli definisce “fare esperienza di ‘O’ “, in cui per ‘O’ deve intendersi il punto d’origine di un sistema di assi cartesiani. Assunto che la realtà sia interna che esterna, cioè ‘O’, è inconoscibile, l’attenzione deve allora rivolgersi verso il mondo di sensazioni, percezioni, emozioni che si attiva nell’incontro con la realtà e con l’altro e che dà luogo a pensieri, sentimenti, motivazioni, azioni, che costituiscono il mondo soggettivo di ciascuno. È una straordinaria acquisizione di consapevolezza sul senso del limite, dal momento che egli riconosce in ‘O’ il limite epistemologico della conoscenza umana, ma anche il limite ontologico dell’esperienza umana.

Che fare, allora? Si può diventare ‘O’, ci si può trasformare in ‘O’, cioè cercare di vivere l’esperienza della realtà per quello che è accogliendo le emozioni, tollerandole, elaborandole, dando loro una forma ed un significato entro la propria storia vitale, attraverso la comprensione intuitiva delle invarianti fenomeniche. Vivere l’esperienza del momento, è questo che intende Bion quando suggerisce con metodo e disciplina l’esercizio di essere senza memoria né desiderio, come stato di coscienza auspicabile, metafora di una mente insatura capace di accogliere l’altro nella sua evidenza autentica, senza proiettare su di lui le cose già sapute né le aspettative personali, preferendo piuttosto un raggio di intensa oscurità. Corrispettivo dell’accecamento, cui faceva riferimento Freud, necessario per dirigere tutta la luce verso il punto più oscuro.

Accettare la trasformazione, perché di questo si discute, e dunque il cambiamento nella vita prima ancora che nella terapia, significa riconoscersi, diventare quello che si è, fare esperienza di sé qui-ora in un viaggio che è con la mente-corpo. Affrontare e sostenere l’esperienza di ‘O’ significa in questa prospettiva poter trasformare la Realtà inconoscibile ed impersonale in una realtà emotiva personale, più misurata e tollerabile che consente di pensare, accogliere ed integrare come proprietà di sé la parte di realtà destinata a ciascuno. Questo significa per Bion addomesticare i pensieri selvatici e questo vale sia in terapia che nella vita.

Una sola parola condivisa, un rituale che rende possibile stabilire il legame, l’addomesticamento dei pensieri selvatici: sono queste alcune delle coordinate possibili che delimitano l’area dell’aver cura in una prospettiva psicologico-relazionale. La psicoterapia è uno di questi modi di prendersi cura dell’altro.

Nella accezione antica del termine, cura significa attenzione, riguardo, interesse, sollecitudine e riconoscimento. Allude anche a rimedio, inteso come dispositivo medico. Ma il termine attinge ad un secondo livello di significato, quello di preoccupazione per l’altro. All’interno di questa complessa stratificazione semantica, è possibile definire la cura come un processo che si svolge dentro un tempo perché porta in sé l’idea di sviluppo, prevede un avere a che fare interessato e sollecito, l’apertura e la partecipazione; è scelta di possibilità autentiche, guidata dall’incontro con l’altro e dalle sintonizzazioni della empatia. È rivelazione di sé e del rapporto con la realtà. Promette e realizza, quando è felice, una comunicazione ed un senso condiviso. L’affanno e la inquieta sollecitudine sono per il destino dell’altro, inteso come prognosi e previsione, per la possibilità e l’impegno di volgerlo in meglio. È così che nel mito nasce l’uomo, da una disputa tra Giove, Terra e Cura: Giove se ne aggiudicherà l’anima, la Terra il corpo, Cura lo accompagnerà per ogni giorno del suo presente.

Quello della cura è spazio provvisorio, ma destinato a rimanere matrice, di una relazione in cui ciascuno pone a disposizione dell’altro le risorse, quelle personali e quelle tecniche, con l’obiettivo di sostenere la capacità di aver cura di se stessi.

Perché questo accada anche una sola parola può bastare, purché il significato risulti comprensibile e condiviso da entrambi, come per Ishi e l’antropologo. I mondi che si incontrano possono partire da punti molto lontani tra loro, aver smarrito i codici di traduzione. Le esperienze traumatiche di vita possono aver scavato distanze difficili da sondare e colmare, costruito diffidenze, innalzato necessarie barriere protettive. Ma la possibilità di quel sorriso e la capacità di non arrendersi nella ricerca possono costruire alla fine un riconoscimento ed una storia.

Perché questo accada è necessaria una percezione di affidabile sicurezza, resa possibile da una ritualizzazione dello spazio e del tempo, in cui aprirsi con fiducia all’esperienza emotiva, perché è attraverso la condivisione che avviene il cambiamento.

La volpe conosce tutto questo per esperienza, ma è quasi riluttante a spiegarlo, si fida poco delle parole. Lo farà solo dopo ripetute sollecitazioni del suo interlocutore, che chiede per tre volte “Cosa vuol dire addomesticare?”. “Bisogna essere molto pazienti… In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…”. Per riconoscersi non sono necessarie troppe parole, basta qualche segnale, come il rumore di un passo, capace di acquietare l’angosciae di consentire alla volpe di uscire dalla tana, in sicurezza.

Ma questo non è tutto, ammonisce: “… Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora… Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono riti”, che rendano un giorno diverso da tutti gli altri, un’ora diversa da tutte le altre.Il compito della ritualizzazione, attraverso l’uso del linguaggio simbolico e della metafora, è la ristrutturazione e l’attribuzione di senso all’esperienza ed alle emozioni all’interno di una prospettiva di partecipazione evolutiva.

Queste sono alcune delle condizioni necessarie per costruire un legame di cura, che ha a che vedere in qualche modo con un addomesticamento reciproco, processo di conoscenza ed affidamento, che è a sua volta la condizione indispensabile per poter giocare insieme.

Donald W. Winnicott, un altro degli psicoanalisti britannici, stabilisce un’equazione tra terapia e gioco. Il gioco si colloca in una terza area di esperienza, indistinta tra interno ed esterno, occupa uno spazio intermedio, in cui l’esperienza interiore incontra il mondo senza confini predefiniti; per convenzione non è né dentro né fuori, è terreno della possibilità che deve ancora prendere forma, frontiera di una comprensione di sé e del mondo, zona liminale tra il certamente noto e lo sconosciuto che deve ancora essere addomesticato. È uno spazio “dappertutto”, come accade per un bambino che impara a camminare: è nelle sensazioni muscolari, nella percezione del pavimento che lo sostiene, nella meta da raggiungere, nel ritmo dei passi, nell’attenzione sorridente ma anche preoccupata dei genitori, nel suo desiderio di compiacerli. Tutto questo è all’origine di un processo, allo stesso tempo intrapersonale ed interpersonale, che produce l’integrazione necessaria per crescere.

Mi sembra sia valido il principio generale che la psicoterapia si svolge nella sovrapposizione di due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. Se il terapeuta non è in grado di giocare allora non è adatto al lavoro. Se il paziente non è in grado di giocare, allora c’è bisogno di fare qualcosa per mettere il paziente in condizioni di diventare capace di giocare, dopo di che la psicoterapia può cominciare. La ragione per cui giocare è essenziale è che proprio mentre gioca il paziente è creativo”.

Gioco e terapia collocano l’individuo in uno spazio potenziale, che attinge al piano delle possibilità come chiave di accesso al senso personale della vita. L’esperienza creativa permette al soggetto di esprimere l’intero potenziale della personalità, “… grazie alla sospensione del giudizio di verità sul mondo, a una tregua dal faticoso e doloroso processo di distinzione tra sé, i propri desideri, e la realtà, le sue frustrazioni”. Attraverso un atteggiamento ludico verso il mondo, possibile soltanto in questa terza area neutrale ed intermedia tra soggettivo ed oggettivo, che si afferma attraverso un rapporto di fiducia, può esprimersi l’atto creativo che dà origine all’idea del magico e permette al soggetto di trovare ed esprimere se stesso attraverso il contatto con il nucleo più autentico di sé. Spazio di addomesticamento dunque della realtà esterna, così sfuggente alla presa, e della realtà interna sempre esposta al rischio di impreviste e burrascose tempeste emozionali.

Bibliografia

Bion W.R. (1970) Attenzione ed interpretazione, Armando, Roma, 1973

Bion W. R. (1997) Addomesticare i pensieri selvatici, Franco Angeli, 1998

De Saint-Exupéry A. (1943) Il piccolo principe, Bompiani, 2000

Kroeber T. (1961) Ishi in Two Worlds: A Biography of the Last Wild Indian in North America, Berkley Books

Winnicott D.W. (1971) Gioco e realtà, Armando, 2005

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